L'orrore di Lovecraft si traveste all'interno di un'avventura testuale dai toni horror, capace di affascinare il giocatore fra indagini, pazzia e delitti misteriosi. La nostra mente crea città lugubri e spazzate dalla pioggia, mentre nella nostra mente risuona un'unica domanda: iIl vero male è là fuori o è dentro di noi?
Ricordi
«Di quel primo giorno ricordi soprattutto la pioggia; fitta e opprimente, tintinnava sui tetti aguzzi di Anchorhead, batteva sul selciato delle strade, confluiva in ampi rivoli nella piazza, quella con l’alto obelisco ricoperto di geroglifici, e da lì si riversava negli avidi flutti del fiume Miskaton.
Tuo marito ti aveva trascinata in quella città ostile e sconosciuta per ereditare le proprietà di un ramo della sua famiglia di cui neppure ricordavi il nome e poi ti aveva lasciata sola. Ricordi l’ombrello verde militare sempre aperto e il trench abbottonato, usbergo della tua femminilità. La porta dell’agenzia immobiliare era chiusa e un treno fischiava in lontananza. In sottofondo, eufonia di violino e impetuosi scrosci di pioggia».
Insania e pioggia
Ideata, compilata e pubblicata da Michael S. Gentry nel 1998, Anchorhead è un’avventura testuale vecchio stile, intrisa di atmosfera lovecraftiana. Nelle vie semideserte di una fittizia città portuale del New England, i cui sapori salmastri sono restituiti dalle sapienti descrizioni, l’avventuriero è chiamato ad assumere il ruolo di una novella sposa senza nome, ma dall’apparenza avvenente (questo secondo l’immagine restituita dallo specchio, metà ideale in un imperio privo di dei).
Impegnata in un cambio di residenza quasi forzato, la giovane protagonista deve affrontare le prime difficoltà come l’imprevisto guasto all’automobile, la subitanea solitudine e un’avversa perturbazione.
«Nulla di male, beninteso, perché sei benissimo in grado di cavartela da sola!».
E così l’ennesimo, banale, contrattempo (l’irreperibilità dell’agente immobiliare) si trasforma nell’occasione per a darsi a una collaterale attività criminale e per iniziare ad assaporare il tono dell’avventura diviso fra gli acquosi esterni e i fumosi recessi di un pub (dove ogni riferimento alle origini ancestrali è sgradito e accolto da sonore imprecazioni e poco educate espettorazioni).
L’incipit di Anchorhead è dunque un incipit bagnato, dove la pioggia è elemento scenico che instilla nel lettore un senso di melanconia e uggia. Ma prima che sia possibile abituarsi al clima rigido nel N.E. e finanche arrivare a chiamare A. la propria casa, un’informazione inquietante giunge in nostro possesso: l’inaspettata eredità è maturata nella tragedia.
L’evento proietta la narrazione su binari fantasma. La rappresentazione, che a tratti si fa macabra, ha luogo sulle quinte dell’epopea di una dinastia migrante che ha trovato e fondato il proprio centro culturale e religioso in questa terra nella valle del fiume Miskaton, a sua volta antico teatro di dispute con una xenofoba tribù indiana. Una discendenza forte che intride l’avventura con la sua prepotente presenza e la vena di follia che ne ha sempre caratterizzato la linea genetica. E si sa, la pazzia è ereditaria.
Pioggia aguzza e acuta insania, dunque, che permeano la narrazione e si intersecano e si intrecciano restituendo un’atmosfera di palpabile inquietudine che aumenta di tono e sfocia in disordinati incubi (accompagnati dal trillo degli antrostomi), tripudi tentacolari e, infine, culmina con il palesarsi di maledette divinità. Il tutto mentre il giocatore confida al logico parser i propri infreddoliti comandi.
Nord, sud, ovest, est
Ma Anchorhead non è solo pioggia: sotto il cielo che si squarcia col passare delle ore, prendono colore gli splendidi panorami di una cittadina divisa fra scorci - cartolina e pennellate lontane e vicine di costruzioni dimesse, banchine stipate di barche da pesca (incrostate da cirripedi e vecchie abitudini) e foreste impenetrabili.
La topografia di A. è ricostruita in maniera ordinata e logica e inquadra una dimensione urbana verosimile con i suoi vicoli, le ampie piazze e le corti nascoste, a ricreare una mappa puntigliosa i cui spazi illogici sono relegati agli immancabili labirinti (peraltro abbastanza contenuti).
Ai margini dell’abitato troviamo la periferia decadente, le rene sporcate dall’inquinamento, l’alto faro e la baraccopoli lontana, sorta nel circondario dell’antica cartiera, fonte di lavoro e di mistero per gli abitanti di Anchorhead.
Ampia caratterizzazione è dedicata all’inquietante magione avita; una dimora soffocante dove i comfort moderni sono banditi per ragioni di volontà e sorte, affinché a spiccare siano i grandi quadri, i raffinati mobili d’epoca e gli elaborati camini. Le pareti spesse e le finestre sbarrate, dalle cui persiane entrano benaccette lame di luce, angolano la visione e accennano a ipotetici passaggi segreti, mentre serrature chiuse a profusione ostacolano l’incedere nei claustrofobici locali.
La donna, il sogno, il grande incubo
«Eri donna in una città di uomini, modellata da uomini, dominata per secoli dagli uomini e al centro di ogni attività la famiglia fondatrice: una dinastia di cui la storia ricordava soprattutto gli uomini. Eri donna. Eri sola. E avevi anche un po’ paura. Gli occhi rossi sarebbero venuti dopo, insieme agli incubi».
In A. viene affrescata una società patriarcale meglio simboleggiata da quell’odioso quadro: quel dipinto del progenitore che, come un grasso ragno, domina il salotto gettando il suo piglio sulla coppia indesiderata.
Una forte dominante maschile che, per contrappasso, chiama, esige, vuole una protagonista donna.
Il marito, sovente irreperibile, obbliga a esplorazioni in solitaria della cittadina che risulta popolata soprattutto da uomini fra cui si annoverano avventori beoni, erranti derelitti e scorbutici impiegati, fino a rintracciare le rade figure femminili fra cui spicca una segaligna bibliotecaria muta (i cui tratti sono tremendamente rassomiglianti alle donne pesce di L.).
Le donne di A. sono essenzialmente relegate ai ricordi (incapsulati in raffinati monili) e, quando effettivamente presenti, menomante nei sentimenti, abusate, ridotte all’angoscia e sempre sottomesse. E, non ultimo, private dei loro figli.
Io sono il parser
Impegnato a raccogliere feticci, amuleti e ossa, il parser si rivela generoso e ricco nel vocabolario, all’altezza di una sofisticata avventura come A. che prevede azioni complesse come le fasi di interrogatorio che intercorrono tra la protagonista e i loquaci NPC.
Parser che, all’occasione, si fa custode della morale, dacché impedisce quei comportamenti che il giocatore, frustrato dalla momentanea mancanza di progressi, vorrebbe sadicamente compiere; i.e.: brutalizzare incolpevoli npc, vandalizzare inestimabili opere d’arte… .
Hai appena fatto cinque punti
Dal punto di vista ludico, A. è essenzialmente suddivisa in tre aree di operazione.
La raccolta di appunti, diari, ritagli di giornale, il cui necessario ordinamento e perfetto incastro è solo una parte della bellezza di A., costituisce sfida a sé stante.
Puzzle più tradizionali, fra cui ritroviamo anche alcuni classici del genere, richiedono un’esplorazione minuziosa di ogni location e un’accorta gestione dell’inventario (peraltro illimitato).
La terza parte del gioco, infine, richiede all’avventuriero di entrare in una modalità di pensiero differente che si basa sul criterio di intuizione a ritroso. Certi eventi sono difatti a tempo (i.e. n° di mosse) e obbligano il giocatore a riconsiderare il percorso compiuto qualora le sue scelte lo abbiano condotto a un punto morto.
Sebbene un tale espediente narrativo consenta agli npc di acquisire una terza dimensione (tramite spostamento), e di instillare angoscia nelle fasi più concitate, non mi sento di lodare questo stratagemma: è abusato ed è cosa che, a titolo personale, interrompe invariabilmente la sospensione dell’incredulità, dacché è impossibile fare un reload della vita quotidiana.
Illogicità particolari non ve ne sono in A., nondimeno serve un acuto ragionamento anche nel rapportarsi con gli NPC che tendono a comportarsi in maniera capricciosa, rendendo l’acquisizione di oggetti chiave difficoltosa. Pure le loro necessità e le loro debolezze, talvolta elementari, sono ben evidenziate nelle sapienti descrizioni; i vizi esposti all’analisi del giocatore.
The End?
«Eri sposata di fresco, la fede al dito stretta come un vincolo ancora caro».
Successore spirituale dei classici Infocom, Anchorhead stupisce per la meticolosità delle ‘raffigurazioni’ e riceve un riconoscimento per la crudezza delle vicende narrate e la coerenza dello spaccato quotidiano. Nondimeno, come già detto, la terza tranche dilata oltremisura i tempi dell’avventura, aggiungendo poche novità a quanto visto nella prima parte, pertanto il giudizio finale non può essere superiore ad un comunque ottimo quattro stelline su cinque.
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