L.A. Noire, gioco sviluppato da Team Bondi per Rockstar nel 2011, ci porta nella Los Angeles dei tardi anni '40, nei panni del detective Cole Phelps, ex eroe della Seconda Guerra Mondiale entrato in polizia. Fin dall'inizio dello sviluppo, il gioco prometteva un detective game con grande enfasi sugli interrogatori e una componente free-roaming, simile a quella di un GTA. Recentemente ho terminato la versione pc del gioco, completa delle cinque DLC che erano state rilasciate per la versione console. Vediamo com'è andata.
La storia di L.A. Noire è una storia che ingrana *molto* lentamente. All'inizio seguiremo la carriera di Phelps, appena tornato da Okinawa ed entrato nel Distretto di Polizia di Los Angeles. Mentre passeremo di caso in caso e di promozione in promozione, verremo a conoscenza di conflitti più grandi, che riguardano non solo Phelps e non solo i suoi casi, ma tutta la città e, in una certa misura, tutta l'America di quegli anni. La corruzione dilagante nella politica e nella polizia, la difficoltà di reinserimento degli ex-soldati americani nella società americana, il diffondersi delle droghe, il razzismo e la misoginia rampanti... tutti questi conflitti verranno introdotti e mostrati nel corso nel gioco, per scontrarsi nel climax finale.
Ma, per le prime ore di gioco, avremo solo accenni di questa trama “globale”, e quel che staremo facendo ci sembrerà solo uno svolgersi di casi, più o meno interessanti, ma anche più o meno uguali nella loro risoluzione e sopratutto, poco connessi con Phelps personalmente. E' solo verso l'ultimo terzo del gioco che cominceremo veramente a capire dove la storia sta andando a parare, ed è sempre verso la fine che Phelps e l'altro personaggio che potremo brevemente interpretare, Jack Kelso, avranno qualcosa di personale da perdere o da guadagnare nella vicenda. Fino a quel momento seguiremo i vari casi, ma con un certo distacco, e anche le parentesi sul passato nella guerra di Phelps lasciano il tempo che trovano: dopo avranno un senso; in quel momento non sapremo che farcene.
Il rischio, ovviamente, è che un giocatore non arrivi all'ultimo terzo ma si fermi a metà gioco e non lo riprenda più. E non aiuta tantissimo il gameplay, abbastanza ripetitivo.
Il gameplay di L.A. Noire è diviso più o meno nettamente in due “pezzi”: l'investigazione vera e propria e la parte “action”.
Durante l'investigazione dovremo osservare la scena del crimine alla ricerca di indizi più o meno visibili. Il gioco si cura di farci sentire una musichetta particolare quando siamo vicino a qualcosa di importante, e se ci mettiamo ad analizzare un oggetto inutile ai fini investigativi, Phelps se ne uscirà con una frase del tipo: “Non credo sia importante”. E' un sistema a prova di rimbambito: basta girare per l'area e aspettare la musichetta, o toccare tutto il toccabile e avremo raccolto tutti gli indizi. Avremo anche a disposizione dei Punti Intuizione, che ci mostreranno a schermo tutti gli indizi rilevanti.
Una volta raccolti e analizzati gli indizi, di solito si passa all'interrogatorio di qualche sospetto o testimone. Phelps farà delle domande e l'interrogato risponderà; a questo punto noi dovremo decidere se l'interrogato ci sta dicendo la verità, se ci sta mentendo ma non ne siamo sicuri, o se ci sta mentendo e abbiamo le prove per dimostrarlo. A seconda della nostra scelta, Phels reagirà diversamente, e se ci avremo azzeccato otterremo più informazioni.
Gli interrogatori sono sicuramente la parte più curata dal Team Bondi, e d'altronde questa era la feature di richiamo del gioco: grazie al MotionScan, la nuova tecnologia di motion capture sviluppata da Depth Analysis, è stato possibile riprodurre i volti dei personaggi in maniera quasi foto-realistica. Basta vedere Phelps in qualche video del gioco, o trailer, per notare come il MotionScan sia stato applicato benissimo. I personaggi sembrano persone vere, le loro espressioni sono realistiche, e questo aspetto ci sarà molto utile per giudicare se un interrogato ci starà mentendo oppure no: basterà guardare che espressioni fa, se sposta lo sguardo o se ha qualche tic nervoso.
Purtroppo però, a volte c'è poca relazione fra quel che Phelps chiede, quel che l'interrogato risponde, e quel che noi dobbiamo selezionare. Più di un paio di volte mi è capitato che l'interrogato non dicesse qualcosa a cui potevo applicare il criterio “verità/bugia”, ma facesse una domanda a sua volta, per esempio, e non sapevo quindi che cosa selezionare. Ok, alla fine bene o male ci si può regolare (se il tizio sembra innocente, magari dice la verità e viceversa se è colpevole magari mente), ma situazioni del genere creano confusione e frustrazione nel giocatore, che sente di non avere il controllo di quel che sta facendo, che il gioco segua regole che lui non conosce.
A questo si aggiunge Phelps, un personaggio da prendere a calci in culo per tutta L.A. Nonostante abbia finito il gioco, non ho ancora capito se è la sua caratterizzazione a essere sballata o se è com'è per scelta deliberata dei programmatori. Ad ogni modo, Phelps è maleducato e schizofrenico. Cliccare “lie” (bugia) porta, 9 volte su 10, a una scenetta in cui Phelps accusa malamente il povero interrogato, gridandogli contro in maniera assolutamente fuori contesto – visto che due secondi prima tutti erano pacifici.
Non sono l'unica ad aver notato questa cosa.
Per i non-angofoni, riassumo l'esempio riportato nel link, che ben dimostra il problema che ho riscontrato. Phelps sta lavorando ad uno dei suoi primi casi, un possibile omicidio, e interroga la moglie del presunto morto (non si trova il cadavere). La moglie del morto si mostra affranta e terrorizzata, ma collaborativa. Ad una domanda, però, chiaramente sta mentendo: cliccate “bugia”, o “dubbio”, e Phelps le strillerà contro che è un'assassina, e che marcirà in galera assieme al figlio che deve partorire.
Quelle finesse, Phelps.
Altra assurdità, quando cliccheremo “bugia” senza avere una prova concreta, potremo semplicemente ritirare l'accusa e amici come prima. Immaginate la scena di cui sopra: Phelps accusa la tizia di essere un'assassina e le preannuncia che partorirà in una cella, poi aggiunge: “ehm, mi scusi, devo aver sbagliato”. La signora risponde: “Si figuri.”. Certo, come no.
Così come per la ricerca degli indizi, anche qui vediamo che il gioco ci viene facilitato in vari modi. Intanto, sono presenti i Punti Intuizione che potremo spendere per eliminare una delle tre scelte (verità, dubbio o bugia); in secondo luogo, quando sbaglieremo una scelta, Phelps ce lo farà presente subito. Sarà quindi facile interrompere il gioco e “caricare” la partita - “caricare” è fra virgolette perché i salvataggi sono automatici, ma potremo ricominciare dall'ultimo checkpoint, che di solito è sistemato all'inizio dell'area in cui stiamo effettuando l'indagine.
Ulteriore problema è la linearità del gioco. Che siamo bravi detective oppure no, che imbrocchiamo le scelte giuste oppure no, alla fine verremo comunque promossi, otterremo comunque quelle informazioni che ci servono per proseguire nella trama. E' impossibile restare bloccati.
E questo abbassa tantissimo la qualità del gioco; di fatto, rende la parte ludica del titolo totalmente inutile, e il giocatore si sente continuamente gabbato. A che serve spremersi le meningi sull'interrogatorio X o sull'indizio Y? Le uniche parti su cui noi abbiamo vera libertà d'azione sono quelle accessorie, quelle che non servono. Quelle veramente importanti e legate alla trama del gioco e al suo bellissimo climax, Phelps le fa da solo, noi dobbiamo solo stare a guardarlo. Mirabile esempio è il caso del serial killer che lascia dei messaggi criptici che alludono a diverse zone della città. A parte il fatto che magari un giocatore *non ha visto* la metà dei posti in cui lo manda il serial killer, perché nessun caso precedente ce lo ha mandato, ma di nuovo, basterà aspettare senza far niente per qualche minuto: Phelps risolverà l'enigma e ci comunicherà dove andare. Gioia.
Anche la parte free-roaming è simile a quella investigativa da questo punto di vista: tutto fumo e niente arrosto. In teoria, potremo andare ovunque nella città, che è stata ricostruita più o meno fedelmente dai ragazzi del Team Bondi (è stata presa qualche licenza poetica per alcune particolari locations). Ma... a che pro? Non c'è niente da fare o da vedere nella L.A. del gioco. Certo, ci sono delle auto imboscate in garage sparpagliati qua e là, ma basta teletrasportarsi con la mappa e le avremo tutte, perché sono segnalate. Per il resto, la città è vuota; non possiamo entrare nei locali o nelle case, a meno che non siano quelle legate a un'indagine. Non possiamo ordinare da bere nei pub, non possiamo vedere uno spettacolo, non possiamo fare niente. La città è uno scenario finto, dietro il quale c'è solo il vuoto. Possiamo, beh, guidare. La guida è riprodotta molto bene nel gioco, così come il traffico, tant'è che mi sono sorpresa di non poter accendere le frecce.
Restano le sequenze d'azione. In una parola, sono una piaga. Oltre a interrogare gente e a cercare indizi, dovremo occasionalmente partecipare a scazzottate, inseguimenti in auto, pedinamenti e sparatorie. Sono una peggio dell'altra. La scazzottata è macchinosa e dalle regole incomprensibili (quand'è che posso premere R per far terminare lo scontro? Solo quando il gioco mi avvisa con una frase? E' ridicolo); i pedinamenti sono frustranti perché molto spesso il dannato sospetto ci vedrà anche quando non dovrebbe e non ci vedrà anche se gli siamo a cinque centimetri (basta che osserviamo una vetrina); la sparatoria è una pena, con il sistema di copertura atroce e macchinoso che mi ha fatto ammazzare più volte. Se qualcuno ha provato Mass Effect o Deus Ex Human Revolution prima di L.A. Noire, tirerà delle maledizioni fino a capodanno. Ora, so che L.A. Noire non è Deus Ex, ma se ci vuoi mettere il sistema di cover, rendilo meno atroce.
Non mi esprimo sugli inseguimenti perché io ho seri problemi a tenere a bada l'auto di Phelps anche quando devo guidare a due all'ora in mezzo al traffico; negli inseguimenti mi portavo dietro mezza città. Ma potrei far notare che possiamo tirare giù tutta L.A., investire passanti e uccidere il nostro collega investendolo ripetutamente, tanto non ci succederà niente né verremo ricercati dalla polizia.
La “bella” notizia è che tutte queste sezioni è possibile saltarle a piè pari dopo averle fallite tre volte di fila, senza alcuna penalità per noi, né per quel che riguarda la storia, né per quel che riguarda il punteggio finale che ci verrà assegnato dopo ogni caso. Il che significa, di nuovo, che queste sono parti senza alcuna importanza, e/o che il gioco è pensato per gli incapaci e i rimbambiti. Personalmente ritengo che sia la seconda ipotesi quella giusta: il gioco è stato pensato per i casual gamers, per quelli che non sanno giocare e non vogliono imparare a farlo; ma vogliono solo accumulare gli achievements e andar avanti con la storia.
Dello stesso tipo sono le missioni secondarie. Andando in giro in auto per L.A., riceveremo delle chiamate dal Dipartimento che ci avviserà di alcuni crimini in questa o quella zona. Noi potremo rispondere oppure non rispondere. Se decideremo di rispondere, dovremo affrontare una piccola missioncina action. Sono missioni completamente opzionali, e dal punto di vista della storia hanno poco senso (se sto inseguendo un serial killer, non mi fermo a risolvere la lite domestica o la rapina: se ne occuperà il poliziotto di pattuglia in quella zona). Infatti, dopo qualche capitolo, ho smesso di farle: farmi venire il sangue amaro per dieci minuti di gameplay macchinoso e rozzo, non valeva la pena.
Tutto questo è un grandissimo peccato, perché il concept è buono, le premesse c'erano, e storia ed atmosfera ci sono tutte. Una volta superata la metà circa del gioco, infatti, la trama finalmente ingrana. Da un certo punto in poi, sono passata dal proseguire nel gioco nonostante la noia, al proseguire perché volevo capire cosa stesse succedendo e come finisse la storia. E il finale non delude: finalmente Phelps mostra il suo lato umano, tutti i nodi vengono al pettine e la storia che ne risulta è una storia matura, in cui non ci sono eroi e non ci sono soluzioni perfette per ogni cosa. Quel finale è uno degli unici due aspetti che non mi ha fatto pentire di aver speso così tante ore dietro il gioco.
L'altro è la città. Non sono mai stata a L.A., però l'atmosfera che si respira nel gioco è autentica. Girare in auto durante le missioni, ascoltando la radio, teletrasporta immediatamente in quegli anni. Restare bloccati nel traffico non pesa, perché tutto attorno a noi c'è qualcosa da osservare che ci dà la perfetta illusione di essere *lì*. E, Phelps a parte, tutti i personaggi, dai nostri colleghi alle comparse, alle vittime dei vari crimini, risultano, allo stesso modo, molto realistiche. Si può davvero toccare con mano non solo l'aspetto che la gente aveva all'epoca, ma quello che pensava, quello che leggeva, quello in cui credeva e per cui lottava. Anche le musiche create per il gioco sono perfette e alcune si rifanno molto chiaramente ad alcuni film noir (d'altronde, è possibile giocare in bianco e nero per ricreare maggiormente l'illusione di essere in uno di quei film).
Durante la stesura della recensione ho pensato spesso a come inserire – e se inserire – qualche riga sulla diatriba fra alcuni impiegati del Team Bondi e il loro capo, Brendan McNamara. Alla fine, come state leggendo, ho deciso di inserire un paragrafetto qua, perché mi son resa conto che in Italia non si è avuto sentore di nulla. Per farla breve, dopo la pubblicazione di L.A. Noire, alcuni ex-membri del team hanno pubblicato una lista rivenuta e corretta dei credits del gioco: più di 100 nominativi mancano nei credits ufficiali, e sono nomi di persone che hanno lavorato solo per qualche mese, o che comunque hanno mollato il Team Bondi prima della fine dello sviluppo, durato ben sette anni. Undici ex-impiegati Bondi hanno poi rilasciato alcune dichiarazioni spiegando gli orari massacranti a cui erano praticamente costretti (nel senso che nessuno li costringeva fisicamente, ma subivano una forte pressione psicologica affinché facessero anche 100 ore a settimana) e che si fosse comunque sempre in ritardo sulla scaletta, che molti abbiano mollato, non potendone più, e problemi di simile genere. Qui e qui potete leggere tutta la storia, comprese le risposte di McNamara, che negano e non negano quanto riferito dai suoi ex-impiegati. A quanto pare, tutto si è concluso in una pila di debiti. E, sempre a quanto pare, non è solo il Team Bondi a richiedere questi orari massacranti, ma la cosa è “la norma” in SH di una certa grandezza, come ha dimostrato un altro caso abbastanza famoso, quello di EA Spouse, che potete leggere qui (sì, EA, nessuno è sorpreso, lo so).
Questo non cambia di una virgola il giudizio su un gioco, naturalmente, ma è una riprova del fatto che a volte non è l'incompetenza dei singoli sviluppatori, quanto le deficienze – in tutti i sensi della parola – della produzione a causare problemi nel prodotto finale e nei poveri cristi che ci lavorano sopra.
E torniamo quindi al gioco. Nel complesso, definirei L.A. Noire “un'ottima premessa mal sviluppata”. C'era il potenziale per un gioco investigativo davvero senza precedenti per quanto riguarda l'immersione, se solo la parte free-roaming fosse stata sviluppata abbastanza bene. Sarebbe stato comunque un ottimo detective game se la parte investigativa fosse stata sviluppata meglio, ossia con la possibilità concreta di fallire dei casi e di dover affrontare le conseguenze di questo fallimento, senza arrivare al game over e senza assolutamente poter proseguire come se nulla fosse. Adesso come adesso, risolvere i casi è divertente, e i casi stessi sono interessanti e moralmente ambigui, ma il potenziale del gioco è molto sprecato. Quello svolto sul background e sull'atmosfera del periodo è invece un lavoro eccellente, ma questo non basta a fare un videogioco, non un *buon* videogioco, almeno.
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Grazie, OGI. Arrivederci!
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