Abbiamo lasciato Ken e Roberta dopo che avevano preso l'importantissima decisione di mettere a frutto le capacità grafiche in bitmap dell'Apple II per creare un gioco d'avventura che, oltre al testo, avesse delle immagini. Roberta era ben consapevole di non essere un'artista, ma era anche determinata a creare dei disegni che facessero al caso loro: in un mondo in cui non si era mai vista un'avventura grafica, la gente non si sarebbe certo soffermata troppo a criticare l'aspetto estetico della prima, no?
Per riuscirci però i due dovevano prima superare almeno due sfide: trovare un modo per importare le immagini nell'Apple II e trovare un modo immagazzinarle in maniera tale che non occupassero troppo spazio sul disco. Quest'ultimo problema sorgeva perché Ken e Roberta intendevano fornire immagini per tutte le location del gioco, per un totale di circa 30 illustrazioni.
Creare delle immagini sull'Apple II era un'impresa non da poco agli inizi del 1980, non solo a causa della penuria di programmi di disegno utilizzabili allo scopo, ma anche per la mancanza di uno strumento di input adeguato: i mouse sarebbero arrivati solo molti anni dopo, e disegnare con un joystick, una trackball, o con la tastiera era inevitabilmente approssimativo e frustrante. Ken e Roberta finirono quindi con l'acquistare un goffo aggeggio chiamato VersaWriter.
Il VersaWriter era troppo impreciso per poterlo usare per il disegno a mano libera. Presupponeva invece che l'utente inserisse un bozzetto sotto la superficie trasparente dell'area di disegno, per poi ricalcarlo utilizzando l'apposito pennino. Tale prodotto era commercializzato come uno strumento per inserire diagrammi (diagrammi di flusso, circuiti, planimetrie, ecc.) nell'Apple II; anche per questo il software incluso nel pacchetto non gestiva bene le linee irregolari e gli schemi tipici delle illustrazioni vere e proprie. A dire il vero l'anno prima la stessa Apple aveva commercializzato una tavolozza da disegno molto più adatta per le illustrazioni. Tuttavia la tavolozza della Apple costava 650 dollari, mentre il VersaWriter ne costava meno di 200. Ancora incerto sul destino della loro impresa e intenzionato a risparmiare quanto più possibile, Ken scelse il VersaWriter. Ora però doveva trovare un modo di farlo funzionare per lo scopo che avevano in mente. Come ogni buon hacker, si mise prontamente al lavoro, scrivendo un suo software che lo facesse funzionare. Nel farlo, risolse anche la seconda sfida, seppur in modo quasi del tutto accidentale.
Immagazzinare 30 o più immagini su disco come una semplice griglia di pixel avrebbe consumato molto più spazio di quanto Ken ne avesse a disposizione su un singolo disco. Quindi, se voleva evitare la scocciatura di far uscire un gioco su molti dischi (chiedendo all'utente di scambiarli nel lettore all'occorrenza), doveva trovare un metodo più efficiente. Poiché all'epoca non si parlava nemmeno di standard di compressione grafica (e, se anche lo si fosse fatto, probabilmente sarebbero comunque stati superiori alle capacità di elaborazione del piccolo 6502 della Apple), a Ken venne l'idea di immagazzinare ogni singola immagine non come dati (che tutti insieme andavano a comporre il prodotto finale), ma piuttosto come una serie di comandi di disegno, che potevano essere usati per ricreare l'immagine finale da zero. In altre parole, invece che essere prese direttamente dal disco, le immagini di Mystery House venivano “dipinte” da zero dal computer ogni volta che dovevano essere visualizzate (o, per chi preferisce un linguaggio più tecnico: venivano immagazzinate come grafica vettoriale e non come grafica raster). L'aspetto veramente elegante del tutto è che i comandi di disegno utilizzati per crearle corrispondevano esattamente ai movimenti del pennino che li aveva tracciati sul VersaWriter. E quindi, per immagazzinare la grafica, Ken doveva solo “registrare” i movimenti del pennino mentre questo ricalcava i semplici disegni di Roberta, per poi “riprodurre” tali movimenti sullo schermo ogni volta che il gioco ne aveva bisogno. Un piccolo trucco da maestro, che ci mostra però quanta strada avesse fatto Ken come programmatore dai tempi in cui era solo un giovane allievo del Control Data Institute.
Con l'aggiunta di un semplice parser e di un “world model” più o meno equivalente a quello dei giochi di Scott Adams, il gioco finale aveva questo aspetto:No, la grafica non è particolarmente attraente. Se mi si permette di scendere un attimo nel tecnico, andare a indagare il perché abbiano questo aspetto è indubbiamente un ottimo esercizio di “storia delle piattaforme informatiche”.
La normale modalità “Hi-Res” dell'Apple II forniva una modalità di visualizzazione bitmap a 280X192 pixel. Tuttavia il programma può opzionalmente scegliere di riservare i 32 pixel in basso dello schermo per visualizzare la parte finale del normale schermo testuale dell'Apple II, che vive infatti di vita propria in un altro punto della memoria. Quest'ultima modalità si dimostrò perfetta per un gioco come Mystery House, oltre che per molti altri che sarebbero arrivati di lì a poco da parte della On-Line Systems e di altri. Poiché lo schermo testuale resta in essere, anche se nascosto altrove, c'era una caratteristica assai comoda che era particolarmente facile da programmare: il giocatore poteva, semplicemente premendo invio su una linea vuota, fa sparire l'immagine, rivelando così tutte le sue ultime mosse.Bastava premere di nuovo il tasto invio per riportare immediatamente l'immagine hi-res in sovrimpressione, essa infatti era stata a sua volta “nascosta” in memoria. Nel 1980 questa era roba da esperti, ma l'Apple II la rendeva banale. Ed era praticamente perfetta per un gioco come Mystery House, quasi come se Wozniak avesse previsto proprio questo specifico utilizzo quando l'aveva progettata.
Ma ora forse vi chiederete il perché di quegli strani colori nelle illustrazioni. Per potervi rispondere dobbiamo analizzare più in profondità il funzionamento della modalità hi-res.
Un display di grafica bitmap è normalmente contenuto in memoria sotto forma di una lunga stringa di bit, che vengono costantemente presi e stampati a schermo. L'esatta quantità di memoria necessaria per far questo dipende, in modo del tutto evidente, dalla risoluzione del display. Ma, in modo leggermente meno evidente, dipende anche dal numero di colori della palette utilizzata. Se utilizziamo solo 2 colori (di solito il bianco e il nero), ci servirà un solo bit per ogni pixel. Se invece vogliamo utilizzare più colori, avremo bisogno di più memoria. Una palette a 256 colori, per esempio, richiede 8 bit (o 1 byte) per immagazzinare ogni singolo pixel. Voi probabilmente oggi starete leggendo queste parole su un monitor a colori a 24-bit con una palette di ben più di 16 milioni di colori, che richiede ben 3 byte per rappresentare ogni singolo pixel (e pensate che questa modalità è spesso inaccuratamente definita a 32-bit perché l'hardware moderno è ben felice di sprecare un intero byte per ogni pixel per tenere tutto allineato in modo ordinato).
Numeri come questi erano ovviamente inconcepibili nel 1980. L'Apple II Plus in modalità hi-res offriva solo 6 colori. Applicando le nozioni apprese al primo anno di informatica, potete facilmente dedurre che servirebbero 3 bit per ogni pixel per immagazzinare i bitmap dell'Apple II secondo il metodo convenzionale (a dire il vero, usando 3 bit avremmo un range di numeri possibili compreso fra 0 e 7, che sono anche troppi; 2 bit però risulterebbero invece troppo pochi). Facciamo un rapido calcolo: 3 bit per pixel * 280 pixel orizzontali * 192 pixel verticali = 161,280 bit, ovvero (dividendo per 8) 20,160 byte (cioè un po' meno di 20 kB). Ora, considerate che in totale abbiamo 48 kB di memoria disponibile sull'Apple II; questo significa che dedicare quasi metà di tale memoria al display grafico sarebbe assolutamente insostenibile, se vogliamo al contempo usare dei programmi con quel minimo di complessità che permetta loro di trarre un qualche vantaggio dalla modalità hi-res stessa.
Wozniak era ben consapevole di questo e -come in molte altre aree dell'Apple II- trovò un modo per fare di più con meno. Piuttosto che dedicare 3 bit a ogni colore, ve ne dedicò solo 1, riservando però anche un bit di ogni byte a uno scopo speciale, di cui vi parlerò fra un attimo. Poi definì una serie di semplici regole per determinare di quale colore sarebbe potuto essere ogni pixel. Se un bit non è impostato, anche il pixel corrispondente sullo schermo sarebbe stato “spento”, cioè nero. Se un bit è acceso, e anche il bit alla sua sinistra e/o quello alla sua destra è acceso, allora quel pixel apparirà bianco. Se un bit è acceso, è su una coordinata pari dell'asse x, e i bit adiacenti sono entrambi spenti, allora quel pixel apparirà viola o blu, in base al fatto che l'ottavo bit riservato sia accesso o spento. Un bit su una coordinata dell'asse x dispari nella medesima situazione seguirà le stesse regole, ma sarà di colore verde o arancione. Una tale impostazione ci permette di immagazzinare una schermata 280X192 a 6 colori usando solo 7680 byte. Tuttavia ciò implica tutta una serie di restrizioni:
Tenendo tutto questo a mente (ed è alquanto faticoso...), si capisce che sarebbe più accurato affermare che l'Apple II ha una risoluzione orizzontale di soli 140 pixel, visto che il colore di ogni pixel viene completamente controllato dal pixel a esso adiacente. Considerato tutto questo, unito alla difficoltà estrema di lavorare in modalità hi-res, c'è da chiedersi se tutti questi barocchismi valessero davvero il mal di testa necessario a comprenderli. La tendenza di Woz a produrre roba del genere in nome dell'efficienza è uno degli aspetti più problematici di colui che altrimenti sarebbe un ingegnere generalmente brillante (pensate a come l'Atari dovette rifare da capo il progetto del Breakout di Woz, perché nessuno riusciva a comprenderlo; un fatto che -per quanto sia diventato una leggendaria dimostrazione del genio di Woz- in realtà, da un certo punto di vista, lo mette in una luce peggiore di quanto non faccia con gli ingegneri dell'Atari...). Date di nuovo un'occhiata all'immagine sopra. Notato come le linee verticali siano tutte verdi e viola, mentre le orizzontali siano tutte bianche? Ken poteva realizzare quelle linee verticali bianche solo raddoppiandone lo spessore e rinunciando ad ogni proporzione. L'Apple II non consente -letteralmente!- quei semplici tratti bianchi e neri che lui voleva mostrare. Pazzesco, eh?
Questi strani schemi di colori (per non parlare dei toni pastello dei colori stessi) rendono -ieri come oggi- il display dell'Apple II istantaneamente riconoscibile a chiunque ci abbia passato del tempo davanti. E se il suo display è insolitamente caratteristico, in questo campo l'Apple II è in buona compagnia: tutte le immagini prese dai primi microcomputer sono caratterizzate da indizi che ne rivelano la loro origine. È una di quelle cose che rendono queste vecchie macchine così attraenti per chi vive nel nostro moderno mondo di anonima perfezione tecnologica. Chiamatela personalità o, se preferite, chiamatela... anima.
Il che non significa, ovviamente, che gli utenti dell'epoca non abbiamo compiuto ogni sforzo possibile per trovare dei modi per superare tali basiche limitazioni. Ma di questo parleremo più a fondo in seguito. Nel prossimo post invece vedremo com'è giocare a Mystery House e indagheremo il ruolo che ha avuto nel suo contesto storico.
The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto
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- Sulle tracce di The Oregon Trail
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- L'Avventura di Crowther
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- L'Apple II
- Eamon, Parte 1
- Un Viaggio nel Fantastico Mondo di Eamon
- Eamon, Parte 2
- Il mio Problema con Eamon
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Ci sono due tipi di "professionisti del computer". Innanzitutto ci sono gli hacker puri, che si tuffano in abissi di circuiti, sistemi operativi e linguaggi di programmazione come fossero esploratori di terre incognite; non era certo un caso che lontano dai computer Will Crowther fosse uno speleologo, né che oggi passi il suo tempo facendo immersioni di profondità. Per gli hacker puri la ricompensa di ciò che fanno è la cosa in sé: imparare a capire e a navigare in questo mondo delle meraviglie binarie per poi un giorno fare (o contribuire a fare) qualcosa di davvero nuovo e figo. L'altro gruppo invece è composto da coloro che ambiscono a fare carriera. Queste persone finiscono a lavorare nel settore per una serie motivi anche molto diversi fra loro: c'è chi è in cerca di un buon stipendio per mantenere la famiglia (e non c'è nulla di cui vergognarsi); c'è chi ha sentito dire che i computer sono “cool” e che saranno la “next big thing” (ciao, bolla di internet!); c'è chi ha una visione di una società in cui i computer agiscono da facilitatori delle nostre azioni (ciao, Steve Jobs!), c'è chi vuole semplicemente diventare molto, molto ricco (ehi, che ci fa Steve nascosto in un angolo sperando di non essere visto? Ciao!). Una sola cosa tiene unito questo gruppo così eterogeneo di persone: essi non sono attratti verso i computer da un interesse intrinseco per le macchine, quanto piuttosto da fattori esterni, da una visione di ciò che quelle macchine possono fare per loro o per gli altri. I due gruppi ci appaiono spesso (e loro stessi credono di esserlo) in contrasto fra loro, ma la verità è che ognuno dei due ha bisogno dell'altro. Prendete per esempio il dinamico duo di Woz e Jobs che ha costruito l'Apple II e lo ha portato alle masse. O prendete Ken e Roberta Williams, la coppia che negli anni '80 dominava il mondo dei giochi d'avventura.
Ken e Roberta si sono sposati nel 1972. Lui all'epoca aveva solo 18 anni; lei 19. Lui stava frequentando la California Polytechnic Pomona University, per un diploma in fisica che non riusciva a conseguire; lei passava le giornate in casa senza fare niente di particolare. Contrariamente a quello che forse state pensando, Ken non aveva avuto bisogno di usare il fucile: lui semplicemente voleva Roberta nella sua vita ed era pronto a tutto per tenercela, per sempre. Steven Levy riporta che le parole che lui le aveva detto erano state molto semplici: “Sposiamoci e via”. Lei “non si era opposta”. E questo dovrebbe già rivelarci molto sulla personalità dei due.
A un anno circa dal loro matrimonio Ken (che all'epoca era un giovanotto irrequieto, motivato, e un po' aggressivo, che -con la sua visione del mondo gerarchica e le sue teorie astratte- non aveva nessun vero rispetto o interesse per un'educazione di livello superiore) capì che non si sarebbe mai laureato in fisica, e men che mai sarebbe stato un fisico. Nel frattempo Roberta aspettava già un figlio. Ken doveva trovarsi un lavoro, e in fretta anche.
All'inizio degli anni '70 l'industria dei computer istituzionali si stava avvicinando al suo picco, fornendo migliaia di mainframe e di minicomputer al mondo delle imprese, delle università, delle scuole pubbliche e private, dell'amministrazione pubblica e dei dipartimenti di ricerca. Ci siamo già imbattuti in numerose delle principali società dell'epoca (IBM, DEC, HP), ognuna delle quali serviva un suo settore strategico di questo immenso mercato, competendo poi con le altre ai margini. Un'altra di queste società era la Control Data Corporation. Fondata nel 1957 da un gruppo di ex dipendenti di una società ancora più vecchia, la Sperry, la CDC agli inizi degli anni '70 si era costruita una reputazione come produttore di prestigiosi e costosi super-computer, di quelli usati in quegli ambiti scientifici che richiedevano la massima potenza di calcolo. Il mercato dei super-computer però era decisamente piccolo e quindi il grosso del giro d'affari della CDC proveniva comunque dalla sua linea di mainframe più comuni, che erano in competizione diretta con la IBM nel settore “corporate business”. Per ritagliarsi un posto all'ombra del ben più potente rivale, la CDC si affidò alla “regola del 10%”, secondo cui ognuno dei loro sistemi sarebbe dovuto essere il 10% più veloce e il 10% meno costoso dell'equivalente modello della IBM. Per un certo numero di anni questo approccio si rivelò molto buono per la CDC, al punto che la società aprì una piccola scuola aziendale per formare i futuri custodi dei propri sistemi. Armato di un prestito per studenti da 1.500 dollari, ottenuto grazie alla garanzia di un suocero molto preoccupato, Ken entrò al Control Data Institute. Nel farlo confermò uno stereotipo valido ancora oggi nell'industria dei computer: gli hacker puri vanno all'università e conseguono lauree in informatica; chi invece ambisce solo a far carriera frequenta le scuole aziendali e consegue certificati in qualcosa di "pratico”.
C'è da dire che l'atmosfera del CDI non assomigliava nemmeno lontanamente a quella di spensierata esplorazione intellettuale che dominava i laboratori di informatica del MIT o di Berkley. L'enfasi era tutta posta sull'inculcare negli studenti le procedure e i compiti ripetitivi necessari per mantenere e gestire i grandi mainframe “da batch-processing” della CDC installati nelle banche e nelle altre grandi entità burocratiche. Il che andava bene a Ken, affamato com'era di un carriera nel mondo degli affari... più che bene. Dove un hacker del MIT avrebbe visto solo un lavoro intollerabilmente noioso e ripetitivo, lui vedeva soldi da guadagnare. E quando scoprì che era anche piuttosto bravo con questa roba informatica (e che, entro certi limiti, ci si divertiva pure) la cosa non fece che accrescere il potenziale guadagno.
Una volta terminato il suo lavoro alla CDI, Ken passò il resto degli anni '70 vivendo una vita che oggi associamo tipicamente alla decade successiva: saltando da una società all'altra in cerca di stipendi sempre più alti e destreggiandosi al contempo fra due o tre lavoretti autonomi di consulenza. Con i computer che erano ancora degli oggetti misteriosi, quasi occulti, per la maggior parte delle persone, un giovanotto energico, ambizioso, e con una buona parlantina come Ken poteva andare lontano anche con quel poco di conoscenze che aveva appreso alla CDI. E, mentre le sue conoscenze crescevano e diventava un programmatore e un risolutore di problemi informatici sempre più bravo grazie alla migliore di tutte le insegnanti (l'esperienza diretta), Ken sembrava sempre di più uno che faceva i miracoli e così si ritrovò a essere sempre più richiesto. In altre parole Ken stava diventando un hacker dannatamente bravo, nonostante il punto da cui era partito. Ma lui ha sempre voluto di più: un nuovo idromassaggio, una casa più grande, una macchina più bella, una casa in campagna – il tutto senza mai smettere di sognare di ritirarsi da giovane, lasciando una fortuna ai suoi figli (e c'è da dire che tutto questo effettivamente accadrà davvero, anche se non nel modo in cui Ken se lo poteva immaginare negli anni '70). Ken non si vergognava del suo materialismo. “Credo che la cupidigia” ebbe a dire in seguito a Levy “mi descriva meglio di ogni altro termine. Io voglio sempre di più.”
Quando nel 1975 apparvero i primi computer da assemblare tramite kit, che potevano essere costruiti in casa dall'utente finale, Ken quasi non se ne accorse. Con quelli non c'era da guadagnare -credeva-, a differenza dei suoi mainframe grandi e noiosi. Quando la trinità del 1977 segnò l'arrivo di un PC che non doveva essere saldato per poter essere assemblato, Ken continuò a non prestare attenzione. Fu solo un paio di anni dopo che, con l'avvio di un vero mercato pagante per software aziendale professionale (rappresentato da applicazioni pionieristiche come VisiCalc e WordStar), Ken iniziò a prestare attenzione a quelle piccole macchine “giocattolo”. E quando finalmente nel Gennaio del 1980 acquistò un Apple II, lo fece per un motivo molto specifico.
All'epoca chi volesse programmare sull'Apple poteva scegliere fra due soli veri linguaggi: si poteva usare il BASIC, che era facile da imparare e da iniziare ad utilizzare, ma che rapidamente diventava un incubo se si cercava di strutturare programmi grandi e complessi; oppure si poteva usare il linguaggio assembly, che garantiva il massimo controllo sull'hardware, ma che era anche quasi impenetrabile per i principianti, tedioso a causa del grande lavoro di supervisione complessiva che richiedeva, e non meno privo di struttura del BASIC. Ken intravide uno spazio per un linguaggio di alto livello, più sofisticato, che potesse essere utilizzato da veri programmatori per creare software complesso. E, in particolare, voleva portare sul piccolo Apple II il FORTRAN, che era anche il linguaggio in cui era stato implementato l'originale Adventure (non che Ken, con ogni probabilità, lo sapesse o gliene fregasse qualcosa). Con questo scopo in mente, registrò una società tutta sua, scegliendo di chiamarla On-Line Systems, un esempio abbastanza tipico dei nomi vagamente futuristici, vagamente composti da parole diverse, ma anche essenzialmente senza alcun significato (vedi Microsoft...) che andavano tanto di moda in quegli anni.
Ma Roberta cosa faceva in quegli anni? Beh, stava crescendo i due eredi dei Williams e stava felicemente (almeno agli occhi di un osservatore esterno) rivestendo il ruolo della casalinga. Del resto aveva sempre avuto una personalità tremendamente timida e passiva, che per sua stessa ammissione “a stento le consentiva di fare una telefonata”. Se Ken sembrava già vivere nei frenetici anni '80 invece che nei pacati '70, Roberta sembrava molto più adatta agli anni '50: una moglie affettuosa che si prende cura dei pargoli e si assicura che tutti in famiglia abbiano una buona colazione, un buon pranzo, e una buona cena, rimettendo docilmente tutte le grandi decisioni e l'onere del sostentamento all'uomo di casa. Il che rende ciò che accadrà subito dopo doppiamente sorprendente!Poco prima che Ken ebbe comprato il suo primo Apple, mentre il secondogenito dei Williams aveva solo otto mesi, Ken si ritrovò con un terminale remoto in casa per uno dei suoi lavoretti secondari. Il mainframe al quale si connetteva aveva sopra una copia di Adventure, che ormai a quei tempi era già stato convertito per una grande varietà di piattaforme oltre il PDP-10. Ken chiamò Roberta per farle vedere quella che lui considerava poco più che una curiosità. Roberta però ne fu immediatamente colpita. “Iniziai a giocarci e continuai a giocarci. All'epoca avevo un figlio piccolo, Chris, di appena 8 mesi; lo ignoravo completamente. Non volevo intralci. Non volevo smettere nemmeno per preparare la cena.” Mentre Ken si chiedeva cosa fosse successo alla sua diligente moglie, Roberta stava alzata quasi tutta la notte a giocare, per poi restare sveglia a letto per lavorare di fantasia sugli enigmi. Fu un sollievo per tutti quando, dopo un mese di sforzi, finalmente finì il gioco.
Ma il sollievo non durò molto. Dopo che Ken ebbe portato l'Apple II a casa, non ci volle molto perché Roberta scoprisse le opere di Scott Adams. Ben presto riprese a giocare in modo ossessivo. Ma poi un altro pensiero si sovrappose ai rompicapo dei giochi: e se scrivesse un'avventura testuale tutta sua? Con questa domanda Roberta stava svoltando l'angolo della più grande ispirazione che può cogliere un individuo: immaginarsi come creatore piuttosto che come semplice consumatore passivo. Ispirata prevalentemente dal romanzo di Agatha Christie Dieci Piccoli Indiani e dal gioco da tavolo Cluedo, iniziò a buttare giù delle idee per un'avventura testuale che fosse un classico giallo, un genere ancora inesplorato dalla forma. Quando ebbe le idee abbastanza chiare, fece un profondo respiro e le presentò a Ken.
Il concept della storia era certamente innovativo, ma non era il tipo di innovazione che poteva attrarre all'istante un tipo come Ken, ben poco interessato alle astrazioni del game design. A impressionarlo erano piuttosto i prodotti che potevano essere venduti, operando allora intuitivamente secondo quella regola che successivamente (per il meglio e forse, a volte, per il peggio) avrebbe codificato e soventemente ripetuto: “I giochi devono avere un 'fattore WOW'. Se non dici 'wow' quando il gioco ti viene presentato, o se non lo riconosci come tale da 3 metri di distanza, allora il gioco non deve essere messo sul mercato". Perso dietro al suo software FORTRAN e influenzato dalla sua precedente esperienza lavorativa (dove i computer erano solo dei seri strumenti d'affari), Ken fu inizialmente sprezzante nei confronti del piccolo progetto di Roberta. Ma poiché lei insisteva, e poiché iniziò a notare che delle società come la Adventure International stavano crescendo rapidamente e stavano facendo dei soldi veri proprio come le software house “serie”, Ken iniziò a ripensarci. Ma, nonostante questo, gli serviva ancora qualcosa di speciale, un qualcosa che aiutasse i loro piccoli giochi a distinguersi dai prodotti simili presenti nella linea ormai affermata dei giochi di Scott Adams.
Iniziò a pensare all'Apple II, con i suoi relativamente enormi 48 kB di RAM, i suoi floppy disk veloci e affidabili, e la sua capacità di grafica bitmap. E se avessero progettato il loro gioco intorno alle capacità uniche di quella macchina, piuttosto che seguire l'approccio da “minimo comune denominatore” (che consentiva la massima portabilità) tipico di Adams? E così si passò alla fase di brainstorming: avrebbe potuto usare la modalità hi-res dell'Apple per includere delle immagini insieme al testo. Questo sì che avrebbe distinto i loro giochi. Ben presto si dimenticò del FORTRAN e senza indugi iniziarono i lavori su Mystery House (il primo titolo della linea “Hi-Res Adventures” della On-Line Systems). Il team marito-moglie non era poi troppo diverso da quello di Woz e Jobs. Qui Roberta progettava la cosa per la sua intrinseca fascinazione verso la cosa stessa, mentre Ken dava concretezza ai suoi sforzi, fornendo gli strumenti e il supporto necessari per dare vita alla visione della moglie e -in poco tempo- trovando dei modi per vendere quella visione alle masse.
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