Nel 1978 il Minnesota Educational Consortium (MECC), la casa di Don Rawitsch e del suo The Oregon Trail, era all'avanguardia nell'uso dei computer a scopi educativi: tanto è vero che, prima che il mondo delle aziende o il grande pubblico si accorgesse di ciò che stava accadendo, iniziarono a valutare come portare i microcomputer nelle aule del Minnesota, al fianco delle telescriventi, dei “dumb terminals” e dei grandi sistemi in time-sharing che all'epoca erano all'ordine del giorno. Fu così che il MECC si recò dai grandi produttori di microcomputer con una gara di appalto. Nella lista c'era ovviamente anche Radio Shack, che rispose col suo solito stile disinteressato.
Alcune di queste compagnie, e in particolare Radio Shack, erano tutt'altro che innamorate delle procedure di appalto e la ritennero una cosa innaturale (in particolare le regole di offerta e quelle di accesso alla gara) e non furono troppo meticolosi nel rispondere. Dicemmo a Radio Shack: “Dovete comprendere che, se non ci rispondente nel modo giusto, noi non possiamo accettare la vostra offerta”, ma loro non furono disposti ad adeguarsi. Del resto le cose per loro andavano a gonfie vele e stavano vendendo i TRS-80 a più non posso. |
Anche se i più all'interno dell'amministrazione del MECC avrebbero preferito avere a che fare con la grande e stabile Radio Shack, la minuscola Apple presentò un'offerta aggressiva ed entusiasta, e la spuntò. Il MECC ordinò 500 Apple II; un ordine gigantesco in un anno in cui la Apple avrebbe venduto in tutto solo 7.600 macchine. Bisogna però precisare che la Apple si era aggiudicata l'asta a un prezzo talmente scontato che, probabilmente, ci guadagnò poco o niente. Ma questo dettaglio era del tutto irrilevante. In una leggendaria carriera piena di scaltre scelte di marketing, Steve Jobs non ne ha mai fatte di più scaltre di questa.
Non solo il MECC iniziò a portare gli Apple nelle classi del Minnesota, ma iniziò anche a convertirvi la sua gigantesca libreria di programmi educativi scritti in BASIC. Fermiamoci quindi un attimo a riflettere su cosa potesse significare questo passaggio. Il MECC era già noto in tutta la nazione come il leader indiscusso nell'educazione tramite computer; era l'esempio che tutte le altre istituzioni didattiche (più conservatrici e con meno fondi a disposizione) tendevano a seguire in costante ritardo. E così, quando tutte queste istituzioni iniziarono a pensare ai microcomputer per le loro aule, si chiesero inevitabilmente che cosa stesse usando il MECC: l'Apple II. E quando valutarono il software da adottare, ancora una volta non poterono che prendere in considerazione la ricca libreria del MECC; una libreria che veniva rapidamente convertita per un unico microcomputer: l'Apple II.
Per spingere ancora di più l'adozione in ambito educativo, nel 1979 l'Apple iniziò a promuovere pesantemente l'Apple II come strumento didattico, utilizzando pubblicità di questo tenore:
Jobs comprese che introdurre i suoi computer nelle scuole era la chiave per conquistare un mercato molto più grande, quello casalingo. Del resto i motivi didattici erano una delle ragioni citate più frequentemente fra i motivi per i quali una famiglia acquistava un computer. Quando Mamma e Papà valutavano quale computer comprare a Junior, l'Apple II (il computer che aveva tutti i software didattici, il computer che Junior usava anche a scuola, il computer di cui lo stesso Junior aveva parlato in casa e che già sapeva adoperare) sembrò per molti la scelta più logica, anche se costava un po' di più e anche se, col passare del tempo, non aveva più delle specifiche tecniche così impressionanti in confronto alla concorrenza. Quegli Apple II venduti a un prezzo scontato alle scuole funsero da articoli di richiamo per i consumatori, e si ripagarono abbondantemente negli anni. E in seguito la Apple, appena ebbe abbastanza soldi per poterlo fare, si fece ancora più munifica, offrendosi di regalare un Apple II a ogni scuola elementare della nazione. Mosse come questa crearono una presa talmente forte che neppure la Apple stessa riuscì a spezzarla per molti anni, quando avrebbe semplicemente voluto che l'Apple II andasse a morire, per lasciare spazio all'Apple III e -in seguito- al Macintosh. Dal numero del 24 Settembre 1990 di InfoWorld:
A 10 anni di distanza le scuole elementari continuano a comprare la tecnologia Apple II. In conseguenza di ciò, tale strategia ha contribuito a mantenere nel mercato mainstream un sistema che molti osservatori nell'industria ritengono troppo costoso e tecnicamente obsoleto. E ha virtualmente incatenato la Apple al mercato delle scuole elementari fino al giorno d'oggi. |
Detto ciò, dietro al dominio dell'Apple II nelle aule, c'era però qualcosa di più di un marketing azzeccato. Grazie al chip di Woz (e al suo progetto nel complesso, che riduceva al minimo i circuiti, nonché alla natura ancora piuttosto basilare della macchina in sé) c'era ben poco nell'Apple II che potesse creare problemi. E, esternamente, era una specie di carrarmato. Questi fattori consentirono a quelle macchine di sopravvivere (letteralmente) per anni agli abusi perpetrati dalle mani di un'intera generazione di studenti, che percuotevano le tastiere in preda alla frustrazione, che puntavano le proprie dita appiccicose sugli schermi, e che occasionalmente ficcavano i floppy al contrario nei lettori! Gli insegnanti impararono ad amare questi loro piccoli colleghi resistenti, che gli offrivano degli occasionali momenti di tranquillità in classi di bambini strillanti.
Né sarebbe giusto, indipendentemente dalla purezza (o dalla mancanza di purezza) che spinse la Apple a promuovere così pesantemente l'aspetto didattico, incorniciare la discussione solo in termini di vendite e di quote di mercato. La creazione da vero hacker di Woz si ritrovò infatti a essere un giocatore chiave nel dibattito in corso sul miglior modo di avvicinarsi alla didattica digitale. Questo lo capiamo bene se osserviamo la carriera di una persona in particolare: Sherwin Steffin. Molto di ciò che segue è tratto dal ritratto di Steffin e della sua società (la Edu-Ware) apparso nel numero di Maggio1981 della rivista Softalk:
Steffin non era uno dei bambini prodigio della rivoluzione dei microcomputer. Quando gli Apple II iniziarono ad arrivare nelle aule, lui aveva quasi 45 anni, con alle spalle già un'impressionante carriera di docente. Oltre ad avere un bachelor’s degree in Psicologia Sperimentale e un master’s degree in Tecnologia Didattica, Steffin aveva anche fatto volontariato contro le bande giovanili a Detroit, aveva insegnato alle scuole superiori per sette anni, aveva lavorato come “media director” per un distretto scolastico di Chicago, aveva lavorato come coordinatore dello sviluppo dei sistemi didattici alla Northeastern University per quattro anni, e aveva sviluppato la televisione didattica per il National Technical Institute for the Deaf di Rochester (a New York). Dal 1977 ha lavorato come “senior research analyst” all'UCLA. Le presunte crisi nel sistema educativo che dovette affrontarvi sono tristemente familiare anche oggi:
La didattica tradizionale era in seria difficoltà. Il prodotto finale era percepito come meno competente, dotato di meno abilità, meno curioso, e del tutto carente nel desiderio di apprendere. Le scuole erano piene di frustrazione. Gli insegnanti subivano la grande animosità pubblica senza aver nessun mandato chiaro all'interno del quale lavorare. Insegnare a leggere, scrivere, e fare di calcolo sembrava importante quanto insegnare le abilità sociali con lo scopo di rendere gli studenti più patriottici, tenerli lontani dalle droghe e trasmettere loro un'educazione sessuale (senza però rivelare loro niente del sesso). |
Gli esperti di tecnologia educativa della generazione di Steffin erano profondamente innamorati delle teorie dello psicologo B.F. Skinner, l'inventore del comportamentismo. Skinner credeva che tutti i comportamenti umani fossero predeterminati dalla genetica e dalle esperienze precedenti; per lui l'idea di un quasi mistico “libero arbitrio” era solo un'inutile chimera. Scrisse un libro (“The Technology of Teaching”) in cui applicava il Comportamentismo alla didattica, definendo così la sua idea di “istruzione programmata”. Skinner propose una didattica basata essenzialmente su una ripetizione di atti di apprendimento mnemonico: allo studente viene posta una domanda, lui risponde, e gli viene immediatamente comunicato se la sua risposta è corretta, ad infinitum. Seguendo questa teoria, gli esperti di tecnologia educativa svilupparono delle “macchine di apprendimento programmato”: strumenti automatizzati che implementavano il concetto di istruzione programmata. Non c'è da sorprendersi se non furono un grande successo. In un rarissimo caso di unità, sia i professori sia gli studenti le odiavano. Utilizzarle non era solo monotono, ma gli insegnanti in particolare le consideravano totalmente disumanizzanti (un'opinione che Skinner -considerando la natura delle sue idee in proposito- probabilmente avrebbe abbracciato in pieno). Affermavano (correttamente) che molti aspetti della didattica, come l'arte e la capacità di apprezzare la letteratura e il pensiero critico, non potevano proprio essere trasmessi attraverso un mero apprendimento mnemonico.
Steffin iniziò a prendere le distanze dai suoi colleghi, ritenendo che le macchine di apprendimento programmato fossero inadeguate. A parte tutte le loro numerose mancanze, esse erano buone solo per ciò che lui definiva “il pensiero convergente, nel senso che vengono posti dei problemi e tutti gli studenti sono indotti a dare la medesima risposta”. Il pensiero divergente (cioè l'incoraggiamento delle abilità di pensiero e di opinioni critiche individuali) era come minimo altrettanto importante, perché lui era convinto che “il pensiero fosse il sentiero per la libertà”. Con l'arrivo dei microcomputer come l'Apple II a prezzi relativamente bassi, Steffin vi intravide degli strumenti didattici molto più flessibili delle rigidissime macchine di apprendimento programmato. Senza avere nessuna esperienza di programmazione e nessuna particolare attitudine innata, sviluppò un programma chiamato Compu-Read per insegnare a leggere, prima sul grande sistema istituzionale dell'UCLA e in seguito sull'Apple II, che aveva comprato per le sue ricerche. Come tanti altri programmatori semi-professionali / semi-amatoriali di quei primissimi anni dell'informatica, inizialmente sviluppò il suo software come secondo lavoro, cedendo la licenza di Compu-Read al più grande dei publisher degli albori dell'Apple II, la Programma International. Tuttavia, nella primavera del 1979, Steffin fu licenziato dal suo posto di lavoro all'UCLA e, piuttosto che cercare un'altra occupazione, decise di buttarsi a piè pari nella didattica digitale, fondando la Edu-Ware insieme a uno studente dell'UCLA, Steve Pederson. Insieme iniziarono a sfornare software a ritmi vorticosi, copiando da soli i dischetti e vendendoli nelle buste Ziploc tipiche dell'epoca.
L'offerta di Edu-Ware può essere divisa in tre ampie categorie. La maggior parte erano programmi istruttivi realizzati con competenza, ma piuttosto poveri, che a dire il vero non erano poi troppo differenti dalle vecchie macchine di apprendimento programmato. I loro nomi erano eccitanti quanto i loro contenuti: Compu-Read, Fractions, Decimals, Arithmetic Skills, Compu-Spell, Algebra (se non altro, non si poteva dire che i nomi traessero in inganno il consumatore...)
C'è da dire che di lì a pochissimo tempo altri programmi della Edu-Ware andarono ad occupare il vago spazio vuoto all'intersezione fra strumenti didattici, gioco, e simulazione. Windfall: The Oil Crisis Game metteva il giocatore al comando di una grande (seppur immaginaria) compagnia petrolifera. Il giocatore poteva (e, presumibilmente, voleva) vincere il gioco, ma nel farlo avrebbe inevitabilmente appreso del complesso sistema che era quasi andato in frantumi, producendo la crisi petrolifera del 1979. Network invece metteva il giocatore a capo di un'emittente televisiva, col compito di bilanciare i programmi, la programmazione, gli indici di ascolto e sperimentando nel frattempo le pressioni dei mass media. Terrorist, invece, si concentrava su un altro argomento di grande attualità, a causa della crisi iraniana che continua a trascinarsi avanti, mettendo il giocatore nel ruolo di un terrorista o di un'autorità governativa, inscenando il sequestro di ostaggi, il dirottamento di aerei, o degli scenari di ricatto nucleare.
Creati in un tempo in cui la maggior parte degli altri software o ignoravano completamente il mondo reale, o se ne occupavano esclusivamente dal punto di vista dell'hardware militare, questi programmi sono significativi per il modo in cui si occupano deliberatamente di questioni sociali vere e pressanti. Ma non sono solo delle sterili simulazioni. Ognuna ha uno scopo preciso, ha una posizione specifica rispetto alle vicende del mondo, diventando così quello che è probabilmente il primo esempio di quelli che saranno successivamente chiamati “persuasive game”. La loro retorica procedurale riflette con chiarezza la visione liberare del mondo che doveva essere propria della Edu-Ware. Network potrebbe perfino essere definita la prima satira procedurale, essendo ispirato all'omonima “black comedy” del 1976.
E la terza categoria? Non volevano essere simulazioni, ma solo giochi veri e propri, ma non per questo erano meno affascinanti. Ne parlerò più approfonditamente la prossima volta.
The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto
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Abbiamo lasciato Ken e Roberta dopo che avevano preso l'importantissima decisione di mettere a frutto le capacità grafiche in bitmap dell'Apple II per creare un gioco d'avventura che, oltre al testo, avesse delle immagini. Roberta era ben consapevole di non essere un'artista, ma era anche determinata a creare dei disegni che facessero al caso loro: in un mondo in cui non si era mai vista un'avventura grafica, la gente non si sarebbe certo soffermata troppo a criticare l'aspetto estetico della prima, no?
Per riuscirci però i due dovevano prima superare almeno due sfide: trovare un modo per importare le immagini nell'Apple II e trovare un modo immagazzinarle in maniera tale che non occupassero troppo spazio sul disco. Quest'ultimo problema sorgeva perché Ken e Roberta intendevano fornire immagini per tutte le location del gioco, per un totale di circa 30 illustrazioni.
Creare delle immagini sull'Apple II era un'impresa non da poco agli inizi del 1980, non solo a causa della penuria di programmi di disegno utilizzabili allo scopo, ma anche per la mancanza di uno strumento di input adeguato: i mouse sarebbero arrivati solo molti anni dopo, e disegnare con un joystick, una trackball, o con la tastiera era inevitabilmente approssimativo e frustrante. Ken e Roberta finirono quindi con l'acquistare un goffo aggeggio chiamato VersaWriter.
Il VersaWriter era troppo impreciso per poterlo usare per il disegno a mano libera. Presupponeva invece che l'utente inserisse un bozzetto sotto la superficie trasparente dell'area di disegno, per poi ricalcarlo utilizzando l'apposito pennino. Tale prodotto era commercializzato come uno strumento per inserire diagrammi (diagrammi di flusso, circuiti, planimetrie, ecc.) nell'Apple II; anche per questo il software incluso nel pacchetto non gestiva bene le linee irregolari e gli schemi tipici delle illustrazioni vere e proprie. A dire il vero l'anno prima la stessa Apple aveva commercializzato una tavolozza da disegno molto più adatta per le illustrazioni. Tuttavia la tavolozza della Apple costava 650 dollari, mentre il VersaWriter ne costava meno di 200. Ancora incerto sul destino della loro impresa e intenzionato a risparmiare quanto più possibile, Ken scelse il VersaWriter. Ora però doveva trovare un modo di farlo funzionare per lo scopo che avevano in mente. Come ogni buon hacker, si mise prontamente al lavoro, scrivendo un suo software che lo facesse funzionare. Nel farlo, risolse anche la seconda sfida, seppur in modo quasi del tutto accidentale.
Immagazzinare 30 o più immagini su disco come una semplice griglia di pixel avrebbe consumato molto più spazio di quanto Ken ne avesse a disposizione su un singolo disco. Quindi, se voleva evitare la scocciatura di far uscire un gioco su molti dischi (chiedendo all'utente di scambiarli nel lettore all'occorrenza), doveva trovare un metodo più efficiente. Poiché all'epoca non si parlava nemmeno di standard di compressione grafica (e, se anche lo si fosse fatto, probabilmente sarebbero comunque stati superiori alle capacità di elaborazione del piccolo 6502 della Apple), a Ken venne l'idea di immagazzinare ogni singola immagine non come dati (che tutti insieme andavano a comporre il prodotto finale), ma piuttosto come una serie di comandi di disegno, che potevano essere usati per ricreare l'immagine finale da zero. In altre parole, invece che essere prese direttamente dal disco, le immagini di Mystery House venivano “dipinte” da zero dal computer ogni volta che dovevano essere visualizzate (o, per chi preferisce un linguaggio più tecnico: venivano immagazzinate come grafica vettoriale e non come grafica raster). L'aspetto veramente elegante del tutto è che i comandi di disegno utilizzati per crearle corrispondevano esattamente ai movimenti del pennino che li aveva tracciati sul VersaWriter. E quindi, per immagazzinare la grafica, Ken doveva solo “registrare” i movimenti del pennino mentre questo ricalcava i semplici disegni di Roberta, per poi “riprodurre” tali movimenti sullo schermo ogni volta che il gioco ne aveva bisogno. Un piccolo trucco da maestro, che ci mostra però quanta strada avesse fatto Ken come programmatore dai tempi in cui era solo un giovane allievo del Control Data Institute.
Con l'aggiunta di un semplice parser e di un “world model” più o meno equivalente a quello dei giochi di Scott Adams, il gioco finale aveva questo aspetto:No, la grafica non è particolarmente attraente. Se mi si permette di scendere un attimo nel tecnico, andare a indagare il perché abbiano questo aspetto è indubbiamente un ottimo esercizio di “storia delle piattaforme informatiche”.
La normale modalità “Hi-Res” dell'Apple II forniva una modalità di visualizzazione bitmap a 280X192 pixel. Tuttavia il programma può opzionalmente scegliere di riservare i 32 pixel in basso dello schermo per visualizzare la parte finale del normale schermo testuale dell'Apple II, che vive infatti di vita propria in un altro punto della memoria. Quest'ultima modalità si dimostrò perfetta per un gioco come Mystery House, oltre che per molti altri che sarebbero arrivati di lì a poco da parte della On-Line Systems e di altri. Poiché lo schermo testuale resta in essere, anche se nascosto altrove, c'era una caratteristica assai comoda che era particolarmente facile da programmare: il giocatore poteva, semplicemente premendo invio su una linea vuota, fa sparire l'immagine, rivelando così tutte le sue ultime mosse.Bastava premere di nuovo il tasto invio per riportare immediatamente l'immagine hi-res in sovrimpressione, essa infatti era stata a sua volta “nascosta” in memoria. Nel 1980 questa era roba da esperti, ma l'Apple II la rendeva banale. Ed era praticamente perfetta per un gioco come Mystery House, quasi come se Wozniak avesse previsto proprio questo specifico utilizzo quando l'aveva progettata.
Ma ora forse vi chiederete il perché di quegli strani colori nelle illustrazioni. Per potervi rispondere dobbiamo analizzare più in profondità il funzionamento della modalità hi-res.
Un display di grafica bitmap è normalmente contenuto in memoria sotto forma di una lunga stringa di bit, che vengono costantemente presi e stampati a schermo. L'esatta quantità di memoria necessaria per far questo dipende, in modo del tutto evidente, dalla risoluzione del display. Ma, in modo leggermente meno evidente, dipende anche dal numero di colori della palette utilizzata. Se utilizziamo solo 2 colori (di solito il bianco e il nero), ci servirà un solo bit per ogni pixel. Se invece vogliamo utilizzare più colori, avremo bisogno di più memoria. Una palette a 256 colori, per esempio, richiede 8 bit (o 1 byte) per immagazzinare ogni singolo pixel. Voi probabilmente oggi starete leggendo queste parole su un monitor a colori a 24-bit con una palette di ben più di 16 milioni di colori, che richiede ben 3 byte per rappresentare ogni singolo pixel (e pensate che questa modalità è spesso inaccuratamente definita a 32-bit perché l'hardware moderno è ben felice di sprecare un intero byte per ogni pixel per tenere tutto allineato in modo ordinato).
Numeri come questi erano ovviamente inconcepibili nel 1980. L'Apple II Plus in modalità hi-res offriva solo 6 colori. Applicando le nozioni apprese al primo anno di informatica, potete facilmente dedurre che servirebbero 3 bit per ogni pixel per immagazzinare i bitmap dell'Apple II secondo il metodo convenzionale (a dire il vero, usando 3 bit avremmo un range di numeri possibili compreso fra 0 e 7, che sono anche troppi; 2 bit però risulterebbero invece troppo pochi). Facciamo un rapido calcolo: 3 bit per pixel * 280 pixel orizzontali * 192 pixel verticali = 161,280 bit, ovvero (dividendo per 8) 20,160 byte (cioè un po' meno di 20 kB). Ora, considerate che in totale abbiamo 48 kB di memoria disponibile sull'Apple II; questo significa che dedicare quasi metà di tale memoria al display grafico sarebbe assolutamente insostenibile, se vogliamo al contempo usare dei programmi con quel minimo di complessità che permetta loro di trarre un qualche vantaggio dalla modalità hi-res stessa.
Wozniak era ben consapevole di questo e -come in molte altre aree dell'Apple II- trovò un modo per fare di più con meno. Piuttosto che dedicare 3 bit a ogni colore, ve ne dedicò solo 1, riservando però anche un bit di ogni byte a uno scopo speciale, di cui vi parlerò fra un attimo. Poi definì una serie di semplici regole per determinare di quale colore sarebbe potuto essere ogni pixel. Se un bit non è impostato, anche il pixel corrispondente sullo schermo sarebbe stato “spento”, cioè nero. Se un bit è acceso, e anche il bit alla sua sinistra e/o quello alla sua destra è acceso, allora quel pixel apparirà bianco. Se un bit è acceso, è su una coordinata pari dell'asse x, e i bit adiacenti sono entrambi spenti, allora quel pixel apparirà viola o blu, in base al fatto che l'ottavo bit riservato sia accesso o spento. Un bit su una coordinata dell'asse x dispari nella medesima situazione seguirà le stesse regole, ma sarà di colore verde o arancione. Una tale impostazione ci permette di immagazzinare una schermata 280X192 a 6 colori usando solo 7680 byte. Tuttavia ciò implica tutta una serie di restrizioni:
Tenendo tutto questo a mente (ed è alquanto faticoso...), si capisce che sarebbe più accurato affermare che l'Apple II ha una risoluzione orizzontale di soli 140 pixel, visto che il colore di ogni pixel viene completamente controllato dal pixel a esso adiacente. Considerato tutto questo, unito alla difficoltà estrema di lavorare in modalità hi-res, c'è da chiedersi se tutti questi barocchismi valessero davvero il mal di testa necessario a comprenderli. La tendenza di Woz a produrre roba del genere in nome dell'efficienza è uno degli aspetti più problematici di colui che altrimenti sarebbe un ingegnere generalmente brillante (pensate a come l'Atari dovette rifare da capo il progetto del Breakout di Woz, perché nessuno riusciva a comprenderlo; un fatto che -per quanto sia diventato una leggendaria dimostrazione del genio di Woz- in realtà, da un certo punto di vista, lo mette in una luce peggiore di quanto non faccia con gli ingegneri dell'Atari...). Date di nuovo un'occhiata all'immagine sopra. Notato come le linee verticali siano tutte verdi e viola, mentre le orizzontali siano tutte bianche? Ken poteva realizzare quelle linee verticali bianche solo raddoppiandone lo spessore e rinunciando ad ogni proporzione. L'Apple II non consente -letteralmente!- quei semplici tratti bianchi e neri che lui voleva mostrare. Pazzesco, eh?
Questi strani schemi di colori (per non parlare dei toni pastello dei colori stessi) rendono -ieri come oggi- il display dell'Apple II istantaneamente riconoscibile a chiunque ci abbia passato del tempo davanti. E se il suo display è insolitamente caratteristico, in questo campo l'Apple II è in buona compagnia: tutte le immagini prese dai primi microcomputer sono caratterizzate da indizi che ne rivelano la loro origine. È una di quelle cose che rendono queste vecchie macchine così attraenti per chi vive nel nostro moderno mondo di anonima perfezione tecnologica. Chiamatela personalità o, se preferite, chiamatela... anima.
Il che non significa, ovviamente, che gli utenti dell'epoca non abbiamo compiuto ogni sforzo possibile per trovare dei modi per superare tali basiche limitazioni. Ma di questo parleremo più a fondo in seguito. Nel prossimo post invece vedremo com'è giocare a Mystery House e indagheremo il ruolo che ha avuto nel suo contesto storico.
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Mentre sto scrivendo queste righe [09 Settembre 2011; ndAncient], sui media e sui blog di settore si sta appena attenuando l’orgia di commenti e retrospettive scatenate da uno Steve Jobs palesemente malato che si dimette dal suo ruolo di CEO della Apple. L’evento segna la fine di un’era. Con Bill Gates che si è ritirato dalla gestione quotidiana della Microsoft alcuni anni fa, i due grandi sopravvissuti degli albori dei computer alla fine degli anni ‘70 e all'inizio degli ’80 non gestiscono più le due iconiche compagnie che iniziarono a costruire così tanti anni fa.
Per molti Bill e Steve rappresentano due approcci sostanzialmente opposti alla tecnologia. Da un lato c’era Gates, l’ambizioso goffo e tradizionalista, che nemmeno da multi-miliardario è mai sembrato pienamente a suo agio nei propri panni, con i suoi fogli di calcolo e i database, costantemente ossessionato dall'andamento finanziario della Microsoft. Dall’altro lato c’era Jobs, il paradigma del fighetto della California, che non ha mai incontrato nessuno che non fosse riuscito ad ammaliare, con la sua vena artistica e i software per la produzione di musica, che parlava incessantemente di come la tecnologia ci avrebbe permesso di vivere vite migliori e più eleganti. Questi modi di essere erano rispecchiati anche dai prodotti delle loro rispettive compagnie. In "In the Beginning... Was the Command Line" Neil Stephenson ha confrontato il Macintosh con un'elegante berlina europea, mentre Windows con una station wagon “con l’appeal estetico di un condominio da operai sovietici, che perde olio, che ha la marmitta sfondata, e che [ovviamente] ha un successo enorme.” Questi contrasti (o dovremmo dire caricature?) avevano radici profonde. E di certo li aveva ben presenti la Apple quando fece la sua serie di pubblicità, ormai classica, “I’m a Mac / I’m a PC” per sancire il suo grande ritorno nel nuovo millennio con Jobs al comando.
Già alla fine degli anni ’70, quando era ancora giovane, Jobs sapeva percepire intuitivamente come la tecnologia avrebbe dovuto funzionare e aveva un senso estetico che semplicemente mancava a tutti i nerd e a tutti gli hacker che componevano il resto della primissima industria dei microcomputer. Quasi unico fra i suoi contemporanei, Jobs aveva una visione di dove questa roba poteva andare, una visione di un futuro tecnologico che avrebbe attratto non solo il tizio del PC delle pubblicità di cui sopra, ma anche il tizio del Mac. L’industria aveva disperatamente bisogno di un tipo come Jobs (di bell’aspetto, loquace, con una parlantina sciolta, e con un senso innato dell’estetica e del design), che facesse da ambasciatore fra gli hacker e la gente comune. Job era il tipo d’uomo che poteva andare a cena a casa di una ragazza e uscirne con un assegno del padre per fondare la sua startup e una torta fatta in casa dalla madre. Faceva sembrare tutti quegli hacker con i loro codici binari e i loro strumenti da saldatore quasi normali e quasi (anche se solo per trasposizione)... fighi.
C’è un modo di dire che ricorre costantemente fra quelli di quei tempi là, che si ricordano di persona quei giorni e le storie che sono state scritte al riguardo: che quelli erano tempi fondamentalmente innocenti, in cui gli hacker hackeravano per il semplice piacere di farlo e che per quella via hanno accidentalmente creato il mondo moderno. Nel "Triumph of the Nerds", il socio di Jobs nella fondazione della Apple, Steve Wozniak, ha dichiarato:
Io credo a Wozniak, un vero hacker, se mai ce n’è stato uno. Tuttavia immaginare che una sorta di beata armonia nei principi degli hacker unisse coloro che erano alla guida delle società che crearono la prima industria dei computer sarebbe un grave errore. Come è reso più che evidente dal gran numero di società e di modelli di computer che erano apparsi e già spariti nel 1982, l’industria dei PC era un luogo di tagliagole iper-competitivi.
Nello stesso video, Jobs racconta di quei giorni che:
A differenza dei commenti di Wozniak, c’è qualcosa che stona con l’apparente ingenuità di questa affermazione. Per essere uno che si cura così poco delle proprie finanze, sembra un po' strano che Jobs abbia un ricordo così preciso di quanto valeva in ogni esatto momento della sua vita; qualcosa mi dice che Wozniak avrebbe delle difficoltà a produrre dei numeri simili su di sé. Ho già scritto in precedenza su questo blog di come Jobs avesse fregato al suo miglior amico Wozniak i 5.000 dollari del premio per il progetto di Breakout per la Atari. Ovviamente all’epoca Jobs era molto giovane e ognuno di noi ha sicuramente qualcosa che vorrebbe cancellare dalla propria giovinezza, ma questo specifico episodio personalmente mi ha sempre colpito come uno di quei segni indicativi di una personalità; uno di quei segni che dicono qualcosa sulla vera natura di una persona. Successivamente Wozniak avrebbe sminuito quell’incidente nella sua autobiografia, dicendo: “Dopotutto, eravamo solo ragazzi”, ma anche qui non riesco a credere che lui avrebbe fatto lo stesso con Jobs. Un altro segno indicativo di una personalità potrebbe essere questo: Wozniak era così onesto che, dopo aver progettato il computer che sarebbe poi diventato l’Apple I e aver fondato con Jobs la società che doveva venderlo, si ricordò improvvisamente del contratto di lavoro che aveva firmato con la Hewlett Packard (che diceva che tutte le sue opere ingegneristiche appartenevano all’HP per tutta la durata del rapporto di lavoro, che fossero state create a casa o sul luogo di lavoro) e quindi provò a consegnare il suo progetto alla HP. Con gran sollievo di Jobs, l’HP lo guardò divertita e gli disse che era liberissimo di provare (inutilmente) a venderlo da solo.
Nel caso di Jobs, se scaviamo oltre la patina del “cool” Californiano e del “trendy” Buddista, troviamo un uomo competitivo in modo ossessivo, esattamente come Gates; entrambi da giovani erano i capi più esigenti, che umiliavano i subordinati e fomentavano deliberatamente i malumori per spingere tutti a dare il massimo attraverso un ambiente altamente competitivo. Gates però non aveva lo charme e la scaltrezza comunicativa che ha permesso a Jobs di restare per sempre il ragazzino d’oro della tecnologia. Anche quando era molto giovane, la gente già parlava del campo di distorsione della realtà che circondava Jobs e che sembrava consentirgli di convincere le altre persone a vedere le cose dal suo punto di vista e a fare come voleva lui.
E se Jobs non è esattamente quell’Uomo Nuovo illuminato che appare dall’immagine che si è abilmente costruito, una simile subdola dissonanza cognitiva è presente anche nella sua società. I prodotti contemporanei della Apple [l’articolo è del 2011; ndAncient] sono innegabilmente belli sotto l’aspetto ingegneristico e, effettivamente, a loro modo sono proprio “empowering”, ma... la cosa si ferma lì. Se torniamo ancora una volta a Stephenson, queste macchine così eleganti hanno “il loro interno sigillato ermeticamente, e quindi il loro vero funzionamento resta un mistero”. Saranno anche “empowering”, ma solo nella logica della Apple. Da un altro punto di vista, esse generano dipendenza (dipendenza dalla Apple), piuttosto che indipendenza. E poi, ovviamente, tutta quella bellezza ed eleganza ha un costo altissimo, al punto tale da farli diventare degli status symbol. L’idea di uno strumento informatico, per quanto costoso, che diventa uno status symbol in un posto che non è una community di nerd era ovviamente un’idea inconcepibile nel 1980 - quindi sì, c’è stato un notevole progresso da questo punto di vista e in gran parte grazie all’influenza di Jobs. Tuttavia a volte viene da confrontare “l’inconoscibilità sigillata” dei prodotti Apple con i PC mercificati che avevano quasi permesso al “malvagio” Bill Gates di conquistare l’intero mondo informatico. Un PC basato su Windows sarà anche potuto essere una station wagon domestica o (secondo un’altra popolare analogia) un pickup, ma proprio come quei veicoli era a buon mercato praticamente per tutti ed era facile aprire il cofano e aggiustarlo. Le creazioni di Apple invece richiedono un viaggio dal metaforico rivenditore di auto esotiche anche solo per cambiare l’olio. Un Macintosh potrà anche scatenare l’artista che è in voi e impressionare tutti quelli che avete intorno al caffè dove state lavorando, ma un PC può essere acquistato per pochi spiccioli -o può essere assemblato con parti di scarto- e facilmente utilizzato nella savana per controllare quelle pompe che portano l’acqua potabile al villaggio. Ci sarebbe molto altro da dire sull’hardware economico, largamente diffuso, e tragicamente “uncool”; e ci sarebbe molto da dire sull’idea (per usare le parole di un altro dei pionieri dei microcomputer) dei “computer per le masse, e non per le classi”.
Ecco che a questo punto potrebbe sembrare opportuno un accenno a Linux, oltre che una più attenta distinzione fra i concetti di hardware e software, ma le metafore che ho usato stanno già scricchiolando sotto tutto il peso di questo discorso. Cercherò quindi di riportare la discussione su Jobs e Woz, la più strana delle coppie.
Wozniak era il classico hacker “old-school”. Anche alle superiori alla fine degli anni ’60 fantasticava sui computer nello stesso modo in cui i tipici adolescenti sono ossessionati dalle ragazze e dalle macchine. Il suo concetto di divertimento era scrivere laboriosamente dei programmi su taccuino (per i quali non aveva nessun computer su cui farli girare) e quindi immaginarli all’opera. Mentre gli altri ragazzi accumulavano riviste con foto di ragazze, Woz (come tutti lo chiamavano) collezionava manuali per ogni computer sul mercato - a volte per poterli riprogettare migliori e più efficienti nella sua immaginazione.
Nel 1970, durante un periodo sabbatico in cui lavorava, il ventenne Woz incontrò il quindicenne Jobs. Nonostante la differenza di età, divennero rapidamente amici, uniti da un comune amore per la tecnologica, la musica e le burle. Ma presto scoprirono un’altra comune ossessione: il “phone phreaking”, l’hacking del servizio telefonico per poter fare telefonate a lunga distanza gratuite. La loro prima “joint business venture” (istigata -come sempre, quando si trattava di queste cose- da Jobs) consisteva nella vendita di “scatole blu” fatte in casa che potevano generare i toni necessari per comandare la commutazione delle comunicazioni a lunga distanza.
Jobs invece non era… il classico hacker “old-school”. Esternamente, almeno, era il classico hippy con una passione per la filosofia orientale e per Bob Dylan, un estroverso con ben poca pazienza per la programmazione o l’ingegneria. Nonostante questo, il suo campo di distorsione della realtà gli consentì di guadagnarsi a parole un posto come tecnico presso l’emergente produttore di cabinati Atari. Convinse perfino Atari a concedergli un’estate libera e un volo aereo per l’India finalizzato a una “ricerca spirituale”. Nonostante tutto questo, tuttavia, l'apparentemente incapace Jobs continuava a fare ciò che ci si aspettava da lui. E ci riusciva, ovviamente, grazie a Woz, che all’epoca già lavorava a tempo pieno per Hewlett Packard di giorno e che di notte faceva il lavoro di Jobs. Il dinamico duo raggiunse il proprio apice all’Atari con il cabinato di Breakout. In quella che, almeno dall’esterno, ha tutti i segni di una classica relazione di codipendenza, al povero Woz fu detto che avevano solo quattro giorni per completare il progetto; in verità Jobs voleva semplicemente finire prima perché voleva partecipare alla raccolta delle mele in una comune agricola dell'Oregon (lo so, si stenta a crederci…). Woz rispettò la scadenza, rinunciando a dormire per quattro giorni consecutivi, e ci riuscì usando un numero di chip talmente ridotto che il tutto risultò non producibile. Al riguardo, l’ingegnere dell’Atari Al Alcorn:
Ma Jobs andò al festival delle mele ed ebbe anche il bonus da 5.000 $ (di cui non disse mai niente a Woz) da spendere là. Nel 1984 Woz credeva ancora che lui e Jobs avessero guadagnato solo 700$ per un progetto che era diventato il grande successo arcade del 1976.
Possiamo solo fare speculazioni su cosa spingesse Woz a sopportare un trattamento del genere; ma le speculazioni sono divertenti e quindi eccole qua! Woz era uno di quei tipi dal cuore tenero, a cui piacciono gli altri e a cui piace piacere agli altri, ma che (a causa di una scarsa empatia, o forse perché voleva piacere a tutti i costi) appare invece sempre fuori luogo nei contesti sociali, facendo sembrare tutto un po' imbarazzante. Woz rideva sempre un po' troppo forte o un po' troppo a lungo, sembrava che non sapesse mai quando era il momento di smettere di raccontare la sua ampia gamma di barzellette sui polacchi, oppure quando i suoi infiniti scherzetti stavano superando il confine fra innocui e crudeli. Per una persona così l'opportunità di frequentare un animale spiccatamente sociale come Jobs doveva essere una tentazione durissima a cui resistere, per quanto il loro rapporto apparisse iniquo.
Non era però un rapporto a senso unico; non completamente, almeno. Quando Woz stava lavorando al progetto che sarebbe poi diventato l'Apple I, bramava un nuovo tipo di chip di RAM dinamica, che i due non potevano permettersi. Jobs allora chiamò il produttore e applicò il suo campo di distorsione della realtà per convincerlo a mandargli dei “campioni”. Jobs era il facilitatore di Woz, nel senso migliore del termine; aveva una dote naturale per far sì che le cose venissero fatte. Infatti, in un quadro più generale, possiamo sicuramente dire che è Woz a essere in debito con Jobs. È infatti palese che Jobs avrebbe lasciato il segno nell'emergente industria dei microcomputer anche se non avesse mai incontrato Woz, tale era la sua determinazione. Per dirla chiaramente: Jobs avrebbe trovato sicuramente un altro Woz. Senza Jobs, invece, Woz si sarebbe eclissato (felicemente, badate bene!) in qualche oscuro laboratorio ingegneristico, a tessere in silenzio la sua miniaturizzata magia di silicio, per poi andare probabilmente in pensione con una manciata di oscuri brevetti a cui affidare il proprio nome per i posteri.
Non sorprende quindi, dati i loro background e i loro interessi, che Woz e Jobs fossero entrambi membri del famoso Homebrew Computer Club; Woz fin dal primissimo incontro del 05 Marzo 1975. Là la gerarchia sociale era invertita: era Woz (con la sua profonda conoscenza dei computer) a essere la star, mentre Jobs era l'outsider leggermente a disagio.
Woz progettò la macchina che divenne l'Apple I per divertimento. Era praticamente unica all'interno dell'Homebrew Computer Club, perché usava la nuova CPU MOS 6502, invece dell'Intel 8080 dell'Altair originale, per la più che buona ragione che Woz non aveva tutti quei soldi da spendere e il 6502 costava 25 dollari contro i 175 dollari dell'8080. L'intero processo di creazione fu realizzato quasi collettivamente; Woz (che aveva il raro e prezioso dono di non avere un ego quando si trattava di progettazione) portava il suo “work-in-progress” ad ogni riunione bi-settimanale dell'Homebrew Computer Club, spiegando quel che aveva fatto, descrivendo dove incontrava dei problemi, e chiedendo consigli e critiche. Il risultato fu decisamente impressionante. La macchina poteva interfacciarsi con un televisore (ben altra cosa rispetto alle luci lampeggianti dell'Altair), utilizzava una tastiera (e non degli interruttori), e poteva far funzionare un semplice interprete BASIC programmato da Woz in persona. Woz ha dichiarato che: “ho progettato l'Apple I perché volevo darlo gratuitamente ad altre persone. Distribuii gli schemi per costruire il mio computer alla prima riunione a cui partecipai”.
Steve Jobs mise subito un freno a queste pericolose tendenze. Si intromise per convincere Woz a fare quello che da solo non avrebbe mai fatto: trasformare il suo progetto di hacker in un vero prodotto fornito da una vera società. Woz vendette quindi il suo prezioso calcolatore HP e Jobs il suo furgoncino Volkswagen (chi è che aveva detto che il bello degli stereotipi è che molto spesso sono veri?) per creare la Apple Computer; era il 01 Aprile 1976. L'Apple I non era un computer già assemblato come la “trinità del 1977”, ma era comunque un passo intermedio fra quelli e l'Altair. Invece che uno scatolone di chip sciolti, ti veniva consegnata una motherboard, finita e completamente saldata, da montare con il tuo case, la tua fonte di alimentazione, la tua tastiera e il tuo monitor. Il proprietario del The Byte Shop (un importante negozio di computer, fra i primi al mondo a essere aperto) ne volle comprare immediatamente 50. Il problema era che Jobs e Woz non avevano i soldi per comprare le parti necessarie per costruirli tutti. Nessun problema: Jobs impiegò il suo campo di distorsione della realtà per convincere un'azienda di elettrodomestici all'ingrosso a dare a questi due hippy diecimila dollari di hardware in cambio della promessa di pagarli entro un mese. Fu così che la Apple vendette 175 Apple I nel corso dell'anno successivo, ognuno dei quali assemblato nel garage dei genitori di Jobs, per mano di Jobs, di Woz, di un altro amico, e di un familiare o due.
E, mentre succedeva tutto questo, Woz progettò il suo capolavoro: l'Apple II.
The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto
Articoli precedenti:
- Sulle tracce di The Oregon Trail
- In difesa del BASIC
- A Caccia del Wumpus
- L'Avventura di Crowther
- TOPS-10 in a Box
- L'Avventura completata
- Tutto il TRaSh del TRS-80
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È ormai una convinzione comune, per essere stata diffusa dalle ricostruzioni romanzate tipo I Pirati di Silicon Valley e per essere stata rigurgitata da giornalisti svogliati di tutto il globo, che il personal computer sia stato inventato in un garage a Palo Alto da un affascinante filibustiere di nome Steve Jobs e dal suo compare Steve Wozniak (quest'ultimo forse un po' troppo eccentrico e nerd, ma pur sempre accettabile come personaggio di secondo piano). Considerato il suo ruolo e la sua personalità, non c'è da stupirsi che Jobs non abbia mai fatto niente per liberare il mondo da questo "mito di fondazione". In un certo senso è più deludente che non lo abbia fatto Wozniak, che dei due è quello con cui da sempre prenderei più volentieri una birra. Anzi, Woz [diminutivo di "Wozniak"; ndTraduttore] è perfino arrivato a scrivere nel sottotitolo della sua auto-biografia "Come Ho Inventato il Personal Computer", quando la verità dei fatti è che il leggendario Apple II non è stato né il primo personal computer completamente assemblato in vendita (quello fu il Commodore PET), né quello di maggior successo dagli albori dei personal computer (quello fu il Tandy / Radio Shack TRS-80 - l'oggetto di questo mio articolo). Certo la Apple può sicuramente vantarsi di aver prodotto il migliore computer di questo dinamico trio datato 1977, ma questa è tutta un'altra storia.
(AGGIORNAMENTO: Nel corso delle mie ricerche ho rinvenuto dei nuovi fatti che intorbidiscono le acque di questa mia ricostruzione. È vero che la Commodore ha annunciare il primo PC "pronto all'uso", nella forma del PET, al Winter Consumer Electronics Show nel Gennaio del 1977, portandosi anche dietro un prototipo sostanzialmente funzionante - o, almeno, funzionante l'ultimo giorno della manifestazione). Tuttavia la Commodore non iniziò a spedire i PET definitivi ai clienti fino a Settembre 1977, quando gli Apple II erano già in consegna da almeno tre mesi. Per ciò possiamo affermare che la Apple è stata la prima a distribuire un PC "pronto all'uso", ma non la prima a svilupparne uno [Cosa ha fatto in tutto questo tempo la Commodore? Se non riuscite a immaginarlo, significa che non conoscete la Commodore...]. Nonostante questo, personalmente continuo a ritenere che il ruolo della Apple nei primi dieci anni dell'era dei PC sia, per quanto importante, ampiamente esagerato dalla sindrome del "vincitore che scrive la storia".)
I motivi di questa convinzione diffusa sulla storia dei PC non sono difficili da immaginare. Il fatto che la storia venga scritta dai vincitori potrà essere anche un luogo comune, ma non per questo è meno vero; e, con la Commodore morta e sepolta da 17 anni al momento in cui scrivo queste righe e con Radio Shack (o "RadioShack", come preferiscono essere chiamati oggi) che ha abbandonato la produzione di computer più o meno altrettanto tempo fa, chi siano i vincitori è abbastanza palese.
C'è anche da aggiungere che la storia dell'Apple Computer, di questi due impavidi visionari Americani che hanno inventato il futuro nel loro garage, è esattamente il tipo di storia che i media mainstream amano raccontare. Come può la Commodore (un ex-produttore di calcolatrici e di arredi per l'ufficio, guidata da un uomo irritante e avanti con gli anni) competere con i "due Steve"? Come potrebbe mai farlo la Tandy Corporation, conservatrice, noiosa, con un immagine da negozianti di bottega, proprietaria di una catena di elettrodomestici Radio Shack?
A vantaggio di chi non è americano o di chi si è perso questo pezzo della storia della vendita al dettaglio americana, cercherò di descrivere Radio Shack per come era fino a una dozzina di anni fa. Del resto tanto è passato dall'ultima volta che ho avuto a che fare con uno dei loro negozi; è del tutto possibile che il nuovo millennio, o il coraggioso passaggio da "Radio Shack" a "RadioShack", abbia cambiato tutto. Però ne dubito: Radio Shack mi ha sempre colpito come una di quelle istituzioni apparentemente eterne, come Montgomery Ward che è sempre stato solo ciò che era finché un giorno -puff!- è sparito del tutto. Devo invece ammettere con una certa sorpresa che Radio Shack invece è sempre in piedi nel 2011. Sembra appartenere a un altro tempo, ammuffito esemplare di usurata merce d'esposizione americana, inspiegabilmente ancora viva e vegeta. E, anche se in questo articolo mi accingo a prenderli un po' in giro, saperli ancora attivi in un certo qual modo mi fa veramente piacere.
Radio Shack aveva due tipi di clientela.
Il primo era lo zio Jerry, che lavorava in una miniera, che ogni fine settimana beveva una confezione da dodici di Bud, e che girava in una Ford Granada. Jerry faceva acquisti da Radio Shack per la stessa ragione per cui aveva comprato la Granada: un vago senso di dovere patriottico. E, proprio come la Granada, gli stereo e le televisioni che comprava da Radio Shack facevano sostanzialmente il loro dovere, anche se le manopole tendevano a staccarsi, la vernice a scolorarsi, e di quando in quando comparivano dei misteriosi fruscii che poi sparivano di lì a poco. Far funzionare queste cose era sempre un po' più complicato di quanto non sarebbe dovuto essere, e per quanto riguarda l'estetica... beh, diciamo che l'estetica non era una priorità di Radio Shack e tanto basti...
Poi c'era tuo cognato Don, agente immobiliare e inventore frustrato. Don, fra le tante riviste, era abbonato a Popular Electronics e a Radio-Electronics, e ne leggeva avidamente ogni numero dalla prima all'ultima pagina. Nel suo garage non c'era più spazio per le auto, pieno come era di attrezzatura da radioamatore, di ogni singola televisione che i vicini avevano gettato negli ultimi dieci anni (Don era certo che tutte quelle TV prima o poi sarebbero servite a qualcosa), e quella soda fountain fatta in casa che ancora non aveva spillato un singolo sorso bevibile di soda, ma che era già esplosa diverse volte in modo preoccupante. Quando Don entrava da Radio Shack, superava di corsa gli zii Jerry e gli espositori di elettronica di consumo con il marchio "Realistic", per fiondarsi nel retro del negozio dove c'erano i transistor, i diodi, i condensatori, e chissà che altro - un'area del negozio che era incomprensibile per chiunque altro, inclusi i poveri commessi confusi che bighellonavano nei locali del negozio. Presumo che questi commessi fossero pagati a percentuale, ma stranamente sembravano non esserne consapevoli e prevalentemente si limitavano a cercare di appioppare delle pile a tutti quelli che entravano in negozio, per qualche ragione nota soltanto ai dirigenti di Radio Shack.
Di quando in quando poteva capitare in negozio un esemplare diverso dalla solita fauna di Radio Shack; del resto i negozi erano tantissimi, letteralmente migliaia sparsi su tutto il territorio nazionale, e quindi c'era chi li sceglieva in automatico, fosse anche solo per comprare delle pile, soprattutto in quelle località dove le alternative erano -diciamo così- limitate. Considerata la passione dei commessi per le pile, uno si aspetterebbe che questi clienti venissero accolti a braccia aperte, ma non era così. Radio Shack aveva infatti una politica aziendale che quasi certamente li avrebbe fatti uscire dal negozio in preda alla frustrazione, spingendoli a non fermarsi mai più nel comodo negozio di Radio Shack del luogo, per andare invece altrove, da qualunque altra parte.
Infatti, quando si arrivava alla cassa con il proprio pacchetto da 3 dollari di pile, il commesso fin qui apatico si rianimava, chiedendoci in preda all'eccitazione se eravamo già sulla mailing list. Ed era inutile rispondere speranzosi, allungando la banconota da 5 dollari: "No, grazie, vorrei solo comprare le pile". Il fatto è che a quel punto il commesso aveva per i nostri soldi lo stesso interesse che provava nei confronti dei condensatori nel retro del negozio; l'unica cosa che gli interessava era inserire "nel sistema" noi e il nostro indirizzo, a qualunque costo. Solo dopo esserci riuscito (e farlo era una procedura laboriosa che spesso prevedeva un paio di false partenze e un lungo armeggiare con i cocciuti terminali...) si sarebbe interessato ai nostri soldi e a guadagnarsi la sua commissione su quel pacco di pile per cui eravamo entrati e che ci siamo presi da soli dallo scaffale. E tutto questo non era opzionale: o si forniva nome e indirizzo insieme ai soldi, oppure si poteva sloggiare e andare a fare acquisiti da qualche altra parte!
Considerata l'alta priorità che Radio Shack riponeva nell'acquisire queste informazioni, ci si aspetterebbe che poi la usassero come una risorsa preziosa. Stranamente non era così. In pieni anni '90 (ben dopo che le altre catene avevano messo in rete i loro sistemi) Radio Shack -il "technology store"- apparentemente non aveva ancora un database condiviso dei clienti. In ragione di ciò ogni volta che entravi in uno dei 237 negozi della tua città per comprare delle pile, dovevi sorbirti da capo l'intera procedura. Ma, cosa ancora più bizzarra, perfino all'interno del singolo negozio c'erano soltanto il 50% di probabilità che le informazioni che lasciavi fossero ancora lì al momento della tua visita successiva. A tutti gli effetti Radio Shack aveva fatto dello scocciare il cliente una forma d'arte. Tutto questo poteva essere sopportato solo da Jerry (perché era suo dovere "comprare americano") e da Don (perché solo lì poteva trovare quelle porcherie che gli interessavano).
Se prendiamo in considerazione tutti questi fattori, ci è chiaro il perché Radio Shack nel 1977 aveva un problema di immagine. Il che non è una cosa insolita per questa società: avere un problema di immagine è parte integrante di ciò che è Radio Shack, un elemento imprescindibile come i labirinti lo sono per Adventure. Radio Shack è sempre stato, e sempre sarà, l'anti-Apple Store per eccellenza, l'antitesi di tutto ciò che è "hipster cool".
Così, quando quell'anno decisero di mettere in vendita un loro computer, non poterono esserci dubbi su chi avesse ideato quell'aggeggio sgraziato ma adorabile che ne venne fuori.
The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Articoli precedenti:
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- L'Avventura di Crowther
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- L'Avventura completata
I cinque elementi sono caduti in tentazione! Nel giardino ove l'Albero del Mana si staglia maestoso nella sua mistica magnificenza, hanno compiuto il gesto più rischioso e dissacrante, non curandosi delle possibili conseguenze. Hanno colto (l'occasione di parlare de) la Mela. No, non è la prima Mela, bensì la seconda, quella più gustosa e ricca di aneddoti ed accadimenti. Quei cinque debosciati di Archeologia Videoludica hanno profanato un antico tempio e messo a repentaglio Italian Podcast Network per raccontarvi la storia dell'Apple II!
Simone Pizzi, Peppe "Professor Jones" Scaletta, Roberto "Marcus Brody" Bertoni di Oldgamesitalia e il primo dei peccatori Marco "il Distruggitore" Gualdi sfidano quel tipo lassù nella stanza dei bottoni, Andrea "Vintage" Milana, conducendo una puntata sopra le righe e tutta da scoprire in occasione delle celebrazioni per il primo anno di Archeologia Videoludica e di IPN tutto.
Mettetevi comodi e divertitevi ascoltando gli sproloqui dei vostri eroi, con un pizzico di fanboysmo ma soprattutto tanta tanta passione, come quella che ci ha contraddistinto in questo lungo anno di AV. Ringraziandovi per il feedback ricevuto nell'ultima puntata canonica (la 2x05) vi invitiamo ad essere più sboccati e pungenti nel modo che riterrete più offensivo, oppure tirate in ballo gli amici di OGI nel topic ufficiale sul forum. Che la Forza s... no, che la pace sia con vo... uff... buon ascolto!
Non serve l'ormai leggendario Tenente per capire che abbiamo rispolverato una delle rubriche più amate di sempre da tutti voi ascoltatori, ovvero... l'Uovo del Tempo! Tra invenzioni che hanno segnato il tempo la storia dell'umanità e improbabili miti da sfatare, accenneremo a ciò che accadde nel 1977, anno di nascita dell'Apple II.
Tratteggiando quel che era stato il predecessore, parliamo delle contorsioni mentali che hanno portato i fondatori di Apple (quelli veri, non quello smidollato di Ron Wayne) alla concezione del primo computer "integrato in ogni sua parte" di largo successo, senza nulla togliere al PET o al TRS-80 (conosciuti assieme come la Trinità del 1977). Cosa aveva in mente la buonanima di Steve Jobs? Riuscirono a procurarsi gli ingenti finanziamenti di cui avevano bisogno per la realizzazione della macchina? Quanto fu importante il marketing e l'immagine per il successo dell'Apple II? Ma soprattutto, perché cavolo il terzo fondatore di Apple fu così furbo da abbandonare un'azienda che l'avrebbe fatto straricco? Scopriamolo assieme grazie alle ricerche del Professore.
Vedremo come Woz ingegnerizzò l'hardware del suo gioiellino con "qualcosa" di videogiocoso in mente, chi l'avrebbe mai detto! Da un personalissimo BASIC, passando per un'inedita possibilità espansiva, fino a giungere all'utilizzo dei colori (!). Ciò contribuì a renderla una potenziale macchina dei videogiochi. Ma fu realmente così? Ascoltiamo cosa ha da dirci il nostro studioso più tecnico, Marcus Brody! Segue una breve carrellata delle varie incarnazioni dell'Apple II, che diede luogo ad una vera e propria series che accompagnò la casa di Cupertino per quasi un ventennio.
Il Distruggitore è stato incaricato di svelare le magagne dei cloni di questa macchina. In un fruttilegio di nomi imbarazzanti, ecco prostrarsi ai nostri piedi tutta un'altra series di improbabili ed arraffazzonati doppioni. Esilaranti quanto effimeri. Fortunatamente, solo la Mela sopravviverà!
In Quel Bar su Mêlée Island ci inebriamo con i ringraziamenti ai nostri nuovi amici, un abbraccio a quelli vecchi e un saluto ai tanti contatti che si sono fatti vivi nell'ultima puntata followando il nostro account Twitter e seguendoci nella pagina Facebook. Grazie a tutti e... diffondete il Verbo spammando nei vostri social, moltiplicatevi!!
Double Dragon, 1st Level remix - Vintage (Andrea Milana)
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L'ultimo mostro della serie: il IIgs
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L'attacco dei cloni
L'acidulo gusto del Lemon
Quale regalo migliore per una buona Pasqua se non il nuovo, fantastico episodio di Archeologia Videoludica? Siamo dalle parti dell'Apple II, mitica macchina che vide una generazione di game designer farsi le ossa per proprorre i loro primi titoli.
All'interno di questo viaggio ripercorreremo così la sua genesi, i suoi punti di forza e quelli che sono state le vere innovazioni di una macchina che ha davvero fatto la storia.
Buona ascolto!
Link all'episodio 2x06
Il sito di Archeologia Videoludica
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