Lord British
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Per creare un game designer l'ideale è partire da un babbo ingegnere e da una mamma artista. E infatti è proprio questa la combinazione che ci ha dato Richard Garriott.

Già il padre Owen ebbe una carriera di tutto rispetto. Nel 1964, all'età di 33 anni, era un professore di ingegneria elettronica alla Stanford University quando la NASA, impegnata nella corsa alla Luna,  pubblicò il bando per il suo quarto gruppo di astronauti. Questo gruppo di sei persone sarebbe stato diverso dai precedenti perché, nonostante i mugugni interni ed esterni all'organizzazione (non ultimi quelli degli astronauti stessi), sarebbero stati scelti tra le fila degli scienziati e degli ingegneri civili e non fra i piloti militari. Owen si presentò nonostante le scarse probabilità di essere selezionato: in un'America impazzita per la corsa alla luna, altre 1.350 persone avevano avuto la sua stessa idea. Superò però ogni round di esami medici e psicologici e ogni colloquio, finché nel Maggio del 1965, nel bel mezzo di una lezione, fu chiamato niente di meno che da Alan Shepard (il primo americano a volare nello spazio), per informarlo che era appena diventato un astronauta. Owen e famiglia (incluso il giovane Richard, che era nato nel 1961) si trasferirono così a Houston, in un sobborgo chiamato Clear Lake, che era abitato quasi esclusivamente da gente connessa al vicino Manned Spacecraft Center. Mentre Owen si addestrava (primo compito: imparare a pilotare un jet), il resto della famiglia viveva l'eccitante, seppur culturalmente asettica, vita tipica della NASA, circondati da scienza, da dispositivi tecnologici e da ogni altro frutto di quel complesso militare-industriale. Che fosse perché la NASA non si fidava fino in fondo di questi scienziati-astronauti, o per un semplice caso, solo a un membro del gruppo di Owen toccò davvero di andare sulla luna e non fu Owen. Come premio di consolazione, però, Owen volò comunque nello spazio il 28 Luglio del 1973, in qualità di membro della seconda squadra che avrebbe visitato lo Skylab (la prima stazione spaziale semi-permanente d'America) dove trascorse quasi due mesi. Dopo quel volo Owen restò con la NASA e sarebbe tornato nello spazio con lo shuttle nel Novembre del 1983. E questi sono solo i punti salienti e avventurosi di una carriera scientifica e ingegneristica piena di premi, di pubblicazioni e di traguardi importanti.

Un tale padre fu certo di grande ispirazione per il figlio: a partire dalla scuole per l'infanzia fino alle superiori, Richard  presentò, ogni singolo anno, un progetto per la fiera di scienze, ognuno più ambizioso del precedente. Ma un tale esempio può anche intimidire, oltre che ispirare; e di certo non gli fu d'aiuto il fatto che Owen era per natura estremamente riservato, lesinando ai familiari ogni sorta di affettuosità, di complimenti e di esibizione di emozioni. Richard ha descritto il suo disappunto per l'incapacità del padre di parlare perfino della più magica delle sue esperienze in questo modo: “Mio padre non mi ha mai parlato di quando è stato nello spazio. Una volta mi ha detto che è un po' come fare un'immersione, ma non ne ha mai parlato con la minima emozione.” E del resto la carriera di Owen non gli ha lasciato molto tempo per Richard e per i suoi fratelli, due più grandi e una sorella più piccola.

Il ruolo di genitore ricadde quindi prevalentemente su Helen Garriott, una personalità più semplice e bizzarra di quella del padre. La passione di Helen (che perseguì con lo stesso zelo -ma con molti meno riconoscimenti- con cui il marito aveva perseguito la sua carriera scientifica) era l'arte: ceramica, lavorazione dell'argento, pittura e perfino degli esperimenti di arte concettuale. E se Owen solo occasionalmente aveva parole di incoraggiamento, Helen aiutava invece attivamente Richard nei suoi progetti per la fiera delle scienze e nelle altre folli idee che venivano a lui e ai suoi fratelli, come quella volta che lui e il fratello Robert costruirono una centrifuga funzionante nel garage di casa (il “Nauseatore”). Con l'esempio di Owen e il ben più tangibile amore e supporto di Helen, tutti i loro figli, dal momento in cui impararono a camminare, si rivelarono essere dei veri maniaci dei progetti ambiziosi, pronti a gettarsi anima e corpo sia in quelli più meritevoli (come le fiere della scienza), sia in quelli apparentemente più frivoli (come il Nauseatore, nel quale i bambini del vicinato si sfidavano a chi vomitava più tardi). 

Per il primo anno di scuole superiori di Richard (1975-1976), Owen riportò temporaneamente la famiglia a Palo Alto, in California, dove aveva accettato un incarico annuale alla Stanford. Situata com'era nel cuore della Silicon Valley, la scuola superiore di Richard era marcatamente orientata alla tecnologia. Fu qui che incontrò per la prima volta i computer, grazie ai terminali che la scuola aveva installato in ogni aula. Tuttavia non ne rimase particolarmente colpito; ed in effetti i primi in famiglia a convertirsi alla religione dei computer furono i suoi genitori, che al suo ritorno a Houston per il suo secondo anno lo fecero iscrivere all'unico corso di computer semestrale della sua scuola, in cui l'intera classe programmava in BASIC sull'unico ingombrante terminale telescrivente della scuola, connesso in remoto a un mainframe CDC Cyber in qualche ufficio della zona. Richard superò a pieni voti il corso, ma anche quella volta non rimase folgorato dalla materia. E così i suoi genitori ci provarono di nuovo, spingendolo a frequentare un campo informatico di sette settimane che si sarebbe tenuto quell'estate alla Oklahoma University. E questa volta funzionò.

Quelle sette settimane furono un periodo idilliaco per Richard, durante il quale tutti i pezzi  sembrarono ricomporsi in una specie di versione nerd di un infatuamento estivo. Il primissimo giorno al campo i suoi compagni lo soprannominarono “Lord British”, dopo che lui li aveva salutati con un formale “Hello!” invece di un più semplice “Hi!”; fra l'altro per lui il soprannome era doppiamente appropriato, essendo davvero nato in Gran Bretagna durante un breve lasso di tempo nel quale Owen insegnava alla Cambridge University. Quegli stessi studenti lo introdussero a Dungeons and Dragons. Con l'esperienza del GdR cartaceo ancora fresca nella mente, oltre che quella de Il Signore degli Anelli (che aveva appena letto nel corso del precedente anno scolastico), Richard scoprì finalmente un motivo per farsi ispirare dai computer (che del resto erano il vero scopo di quel campo estivo): iniziò a chiedersi se nelle loro memorie non fosse possibile costruire un mondo fantasy virtuale. E poi, sempre in quel campo, trovò anche un amore estivo, che non fa mai male... Così Richard lasciò l'Oklahoma che era profondamente cambiato.

Oltre che dalle sue esperienze al campo estivo, la direzione che avrebbe preso la sua vita, forse, fu dettata anche da una conversazione che aveva avuto qualche anno prima durante un esame medico di routine, condotto (ovviamente) da un dottore delle NASA, che lo informò che la sua vista peggiorava e che avrebbe dovuto mettersi gli occhiali. Ovviamente non era la fine del mondo, ma poi il dottore sganciò la bomba: “Ehi, Richard, mi dispiace dover essere io a dirtelo, ma ormai non hai più i requisiti per diventare un astronauta della NASA.” Richard afferma di non aver mai covato consapevolmente il sogno di seguire le orme del padre, ma la notizia che non avrebbe mai potuto unirsi al ristretto club a cui apparteneva il padre lo colpì comunque come un rifiuto personale. Ancora alla fine del 1983, quando ormai stava accumulando come sviluppatore di giochi una fama e dei guadagni ben oltre quanto suo padre avesse mai guadagnato in vita sua, affermò in un intervista che: “rinuncerei di buon grado a tutto per avere la possibilità di andare nello spazio.” Molto tempo dopo avrebbe, come è noto, coronato quel sogno, ma in quel momento il suo cammino lo avrebbe portato in un'altra direzione. E fu il campo estivo di informatica a indicargliela: sarebbe diventato un creatore di mondi virtuali.

Tornato nel sobborgo di Houston, Richard iniziò a cercare dei giocatori di D&D, iniziando dai bambini del vicinato con cui era cresciuto e proseguendo da lì. Qualche mese dopo l'inizio del terzo anno delle superiori, Richard (con l'aiuto della madre, sempre al suo fianco) ospitava già delle sessioni di D&D lunghe tutto il weekend nella casa di famiglia. All'inizio del 1978 c'erano partite diverse che si svolgevano in parti diverse dalla casa e iniziavano a presentarsi anche alcuni adulti, per giocare oppure solo per fumare, bere e socializzare sotto il portico di casa.

Per capire come potesse essere accaduta una cosa simile c'è un fatto in particolare che dobbiamo comprendere di Richard. Anche se i suoi interessi (la scienza, il D&D, i computer, Il Signore degli Anelli) erano tipici di un nerd, nella personalità e nell'aspetto egli non era per niente il tipico geek introverso delle scuole superiori. Era un ragazzo curato e di bell'aspetto, con una grazia innata che gli teneva lontano i bulli di scuola. Anzi, li faceva passare dall'altra parte: quelle sessioni di D&D del fine settimana erano particolarmente significative, perché riunivano cerchie di ragazzi che normalmente a scuola erano socialmente segregate. Ma, soprattutto, Richard era molto sciolto ed eloquente per la sua età, capace quando voleva di convincere e affascinare chiunque in un modo che ricordava niente di meno che il leggendario burattinaio Steve Jobs in persona. Il suo futuro amico e collega Warren Spector una volta ha detto di Richard che: “poteva alterare la realtà con la sua forza di volontà e il suo carisma personale”, riecheggiando le leggende “del campo di distorsione della realtà” di Jobs. E lui mise a frutto queste qualità per trovare un modo di conseguire il sogno di tutti i nerd dell'epoca: ottenere un accesso regolare e quotidiano a un computer.

Con un solo corso di computer all'attivo, l'unico terminale della scuola restava inutilizzato per la maggior parte del tempo. Il primissimo giorno del suo terzo anno di superiori, Richard marciò nell'ufficio del preside con una proposta. Da Dungeons and Dreamers:

Avrebbe così ideato, sviluppato, e programmato giochi fantasy per computer, usando il terminale della scuola, ed esibendo alla fine di ogni semestre al preside e all'insegnante di matematica un gioco. Non avevano nemmeno un insegnante di informatica che potesse dargli un voto. Per superare l'esame avrebbe dovuto semplicemente presentare un gioco funzionante. Se lo avesse fatto, avrebbe preso una A [il voto massimo; ndAncient]. Se non l'avesse fatto, sarebbe stato bocciato.

Incredibilmente (ed è qui che il campo di distorsione della realtà entra in gioco) il preside accettò. Richard afferma che la scuola aveva deciso di considerare il BASIC come l'insegnamento della sua lingua straniera (una decisione che la dice lunga sullo stato dell'insegnamento delle lingue in America, ma non divaghiamo...).

Perciò, quando non era impegnato con i compiti scolastici, con la fiera della scienza (in cui i suoi progetti junior e senior usavano in modo intensivo il computer), con il D&D cartaceo, o con i Boy Scouts Explorers (a cui si era recentemente unito e di cui -al solito- era rapidamente diventato presidente), Richard spese il suo tempo e le sue energie, nei due anni successivi, su una serie di adattamenti di D&D per computer. L'ambiente di sviluppo che la sua scuola ospitava sul vecchio computer non era dei più semplici; il suo terminale non aveva nemmeno uno schermo, ma solo una telescrivente. Per prima cosa programmava scrivendo laboriosamente a mano il codice BASIC, rileggendolo più e più volte in cerca di errori. A quel punto inseriva il codice su un “tape punch”, uno strumento meccanico che assomigliava ad una macchina da scrivere, ma che inseriva i caratteri su un nastro perforato (una striscia di carta su cui venivano praticati dei fori secondo degli schemi precisi che rappresentavano i vari caratteri possibili). Solo a quel punto poteva dare il nastro al computer vero e proprio, attraverso un apposito lettore di nastri perforati, sperando che tutto andasse bene. Un errore di programmazione, o anche un semplice errore di battitura, significava dover ribattere tutto dall'inizio alla fine. In modo del tutto analogo, questo significava che poteva aggiungere nuove funzioni o miglioramenti solo riscrivendo e ribattendo tutto il programma da zero. Prese così a riempire dei quaderni numerati con codice e  appunti di design: un block-note per ogni iterazione del gioco, che aveva chiamato semplicemente D&D. Alla fine dell'ultimo anno di scuola superiore, era arrivato fino al D&D 28, anche se alcune iterazioni le aveva abbandonate perché inattuabili, per una ragione o per un'altra, prima che potessero arrivare a compimento come giochi giocabili da presentare.

Nel creare i suoi giochi, Richard operava in gran parte al buio, provando in prima persona ogni cosa per vedere se avrebbe funzionato. Aveva visto coi suoi occhi l'originale Adventure quando i suoi  Boy Scouts Explorers visitarono la fabbrica di computer a Lockheed, ma (unico fra tutti i personaggi di cui ho parlato in questo blog) non ne rimase particolarmente impressionato: “Era molto diverso dalle cose che volevo scrivere io, che volevano essere molto più libere e con tante opzioni a disposizione del giocatore, piuttosto che qualcosa con una struttura a 'nodi' come Adventure. All'epoca non conoscevo nessun altro gioco che ti permetteva di andare ovunque e di fare qualunque cosa.” Fin dall'inizio, quindi, Richard si è schierato fermamente dalla parte della simulazione e della narrativa emergente, senza interessarsi mai neppure minimamente al neonato fenomeno della avventure testuali. È probabile che i primi proto-GdR per computer sul network PLATO sarebbero stati maggiormente di suo gusto, ma sembra che Richard non li avesse mai visti. E così i suoi giochi D&D, in pratica, erano unicamente l'espressione della sua visione, che si era costruito letteralmente da zero, iterazione dopo iterazione.

Ma come funzionavano questi giochi? Poiché erano immagazzinati solo su dei rotoli di carta, non li abbiamo a disposizione per giocarli tramite emulazione. Tuttavia Richard ha donato un nastro perforato di uno dei suoi giochi alla University of Texas come parte della “Richard Garriott Papers collection”; quindi se qualcuno là potesse recuperare un lettore di nastri perforati funzionanti per leggerlo, o - qualora qualcuno lì fosse eccezionalmente dedito alla causa - si impegnasse a tradurre a mano i fori, i risultati sarebbero estremamente affascinanti. In ogni caso abbiamo un'idea abbastanza precisa di come funzionassero: più primitivi, ma anche incredibilmente simili ai giochi commerciali che di lì a poco avrebbero reso famoso Richard. Non a caso Richard ha spesso scherzato sul fatto che praticamente ha passato i suoi primi quindici anni circa di game designer a rifare continuamente lo stesso gioco. I giochi di D&D, come gli Ultima, hanno una visuale dall'alto che mostra l'avatar del giocatore e ciò che lo circonda. Non sono in tempo reale, ma a turni. Il giocatore interagisce col gioco attraverso una serie di comandi che vengono attivati con un singolo tasto: “N” per andare a nord, “S” per vedere le statistiche vitali, “A” per attaccare, la barra spaziatrice per non fare niente in quel turno, ecc. Poiché i giochi funzionavano su una telescrivente, gli scenari e i mostri potevano essere rappresentati solo con caratteri ASCII; una “G” poteva rappresentare un goblin, e così via. E, a differenza dei giochi venuti dopo, la visuale dall'alto restava tale anche nei dungeon. Questa descrizione vi ricorderà gli odierni rogue-like e, ovviamente, i loro antenati sul sistema PLATO. È quindi interessante che Richard sia arrivato a una soluzione simile lavorando in modo del tutto autonomo (ma del resto è anche vero il contrario: in quale altro modo avrebbe potuto rappresentare il suo gioco?). Per giocare a questi titoli serviva non meno pazienza che per scriverli e si doveva anche essere disponibili a consumare risme e risme di carta, poiché l'unica scelta a disposizione di Richard era quella di ridisegnare completamente lo “schermo” su un nuovo foglio ogni volta che il giocatore faceva una mossa.

Quando ormai il suo tempo alle superiori stava scadendo, nella primavera del 1979, Richard attraversò una specie di crisi: non solo non avrebbe più potuto lavorare su D&D, ma più in generale avrebbe perso il suo accesso privilegiato a un computer. Ovviamente era ben consapevole della prima generazione di PC, che ormai era sul mercato da quasi due anni, ma fino a quel punto suo padre aveva resistito all'idea di comprarne uno per la famiglia, non vedendo alcun futuro in quei piccoli giocattoli (piccoli, se paragonati agli imponenti sistemi con cui era diventato familiare alla NASA). Disperato, Richard attivò il campo di distorsione della realtà e marciò nella tana di Owen con una proposta: se fosse riuscito a rendere funzionante e giocabile, senza nessun bug,  l'ultima e più complicata iterazione di D&D, allora Owen gli avrebbe comprato il sistema Apple II che desiderava. Essendo il padre di Richard, Owen probabilmente era più resistente della maggior parte delle persone al campo di distorsione del figlio, ma accettò di contribuire per metà delle spese, se Richard ci fosse riuscito. Ovviamente Richard ci riuscì (come Owen ben sapeva che avrebbe fatto), e alla fine dell'estate i proventi del suo lavoro estivo, uniti al contributo di Owen, gli portarono il modello II Plus che la Apple aveva appena messo in vendita.

Rispetto a ciò col quale aveva lavorato fin lì, l'Apple II con il suo schermo a colori e le sue capacità grafiche, la sua reattività in tempo reale e la sua capacità di modificare e ritoccare un programma dalla memoria, dovevano essergli sembrati un sogno. Perfino il lettore di cassette, che era inizialmente costretto ad usare, era comunque un miglioramento significativo rispetto alla necessità di praticare dei fori su di un nastro di carta. Richard aveva appena iniziato ad esplorare le capacità della sua nuova macchina, quando venne il momento di partire per Austin, dove si era iscritto al corso di Ingegneria Elettronica (quanto di più vicino ad un corso di Informatica offrisse allora l'università) presso l'Università del Texas.

I primi mesi di Richard all'Università del Texas si rivelarono difficili e scombussolanti, come avviene per tante matricole. Del resto aveva lasciato il nido sicuro della cittadina di Clear Lake, dove conosceva tutti ed era considerato una bizzarra star da tutto il vicinato (un po' come una specie di Ferris Bueller, il protagonista di "Su e Giù per il College", ma senza tutta la sua ansia), per la grande e culturalmente variegata città di Austin e per l'Università del Texas, dove era soltanto uno delle decine di migliaia di studenti che riempivano le immense aule. Quando non tornava a casa a  Houston (cosa che faceva frequentemente) passava la gran parte del suo tempo - in modo del tutto anomalo per lui - rinchiuso tutto solo nel suo dormitorio, impegnato sull'Apple. Fu solo nel suo secondo semestre che si imbatté in un volantino che parlava di qualcosa chiamata la “Società per l'Anacronismo Creativo”, un gruppo che abbiamo già incontrato in questo blog e che, nell'eclettica Austin, aveva una presenza particolarmente grande e attiva. Con la passione che gli era caratteristica, si buttò a capofitto nella SCA. In poco tempo Richard, che già in passato aveva dato di scherma, si trovò a partecipare a duelli medievali, ad accampamenti all'aperto, a costruire e indossare le sue armature, discutendo di cavalleria e filosofia nelle taverne e imparando a tirare con la balestra. Considerando l'appellativo “Lord British” un po' troppo audace per l'ultimo arrivato, dentro la SCA prese il nome di “Shamino” (traendo ispirazione dal cambio Shimano della sua bicicletta), impersonando il ruolo di un tagliaboschi campagnolo, il cui analogo più prossimo nel D&D potrebbe essere un ranger. Il mondo sociale della SCA di Austin giocherà un ruolo importantissimo nei giochi futuri di Richard e la maggior parte dei suoi migliori amici riceveranno un sosia nel computer.

Al contempo continuò ad esplorare l'Apple II. Un genere semplice e popolare all'epoca erano i “maze game”, nei quali il computer generava un labirinto e spettava al giocatore trovarne l'uscita; pensate a Hunt the Wumpus con grafica e senza tutti i pericoli da evitare. La maggior parte degli esponenti di questo genere usavano la visuale dall'alto tipica dell'era, ma Richard si imbatté in un maze game scritto da Silas Warner della Muse Software, chiamato semplicemente Escape!, che immergeva il giocatore in una rappresentazione tridimensionale di un labirinto, calandolo proprio al suo interno. “Come vidi il labirinto in quella prospettiva dal basso, capii subito che con una semplice equazione si sarebbe potuto generare casualmente un labirinto a singola uscita. Quel momento mi cambiò il mondo.”

Se volete dare un occhio a questo gioco che ispirò Richard, potete scaricare una copia dell'immagine del dico dell'Apple II. Dopo aver avviato il disco sul vostro emulatore o sul vostro vero Apple II, digitate “RUN ESCAPE” al prompt per iniziare.

Escape! ispirò Richard per cercare di riprodurre il medesimo effetto nei dungeon del suo gioco D&D, che stava cercando di convertire per Apple II. Incerto su come implementarlo, si rivolse ai suoi genitori, che l'aiutarono ognuno a modo suo. Per prima, sua madre gli spiegò come un artista usa la prospettiva per creare l'illusione della profondità; poi suo padre lo aiutò a mettere a punto una serie di equazioni di geometria e di trigonometria che gli avrebbero permesso di tradurre l'intuizione artistica della madre in codice per computer. Richard iniziò a chiamare la versione per Apple II del suo gioco D&D 28B, poiché nella sostanza era una conversione per Apple II dell'ultima versione scritta per la telescrivente, anche se questa aveva l'aggiunta dei dungeon 3D.

Richard passò l'estate del 1980, a casa, a Houston, con la sua famiglia, lavorando al ComputerLand cittadino per guadagnare dei soldi. Il suo capo di lì, John Mayer, notò il gioco con cui trafficava, che a quel tempo era già diventato piuttosto popolare fra gli amici e i colleghi di negozio di Richard. Mayer fece a Richard il favore di una vita, suggerendogli  di impacchettarlo e venderlo in negozio. E così Richard assemblò una confezione tipica dell'epoca, infilando una stampa ciclostilata del testo d'aiuto del gioco e un disegno abbozzato da sua madre dentro un sacchetto Ziploc, insieme al dischetto vero e proprio del gioco (a questo punto infatti aveva già acquistato un lettore di floppy per il suo Apple II). Ribattezzò il gioco Akalabeth, come una delle sue ambientazioni del D&D cartaceo. Profondamente scettico su tutta questa impresa, ne fece tra le 15 e le 200 copie (le fonti differiscono molto sul numero esatto) e passò il resto dell'estate a vederle lentamente sparire dalla “parete del software” di ComputerLand. E così, in un modo tanto incerto, era iniziata una carriera che sarebbe diventata leggendaria.

La prossima volta esamineremo in dettaglio proprio Akalabeth.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Edu-Ware
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Nel 1978 il Minnesota Educational Consortium (MECC), la casa di Don Rawitsch e del suo The Oregon Trail, era all'avanguardia nell'uso dei computer a scopi educativi: tanto è vero che, prima che il mondo delle aziende o il grande pubblico si accorgesse di ciò che stava accadendo, iniziarono a valutare come portare i microcomputer nelle aule del Minnesota, al fianco delle telescriventi, dei “dumb terminals” e dei grandi sistemi in time-sharing che all'epoca erano all'ordine del giorno. Fu così che il MECC si recò dai grandi produttori di microcomputer con una gara di appalto. Nella lista c'era ovviamente anche Radio Shack, che rispose col suo solito stile disinteressato.

Alcune di queste compagnie, e in particolare Radio Shack, erano tutt'altro che innamorate delle procedure di appalto e la ritennero una cosa innaturale (in particolare le regole di offerta e quelle di accesso alla gara) e non furono troppo meticolosi nel rispondere. Dicemmo a Radio Shack: “Dovete comprendere che, se non ci rispondente nel modo giusto, noi non possiamo accettare la vostra offerta”, ma loro non furono disposti ad adeguarsi. Del resto le cose per loro andavano a gonfie vele e stavano vendendo i TRS-80 a più non posso.

Anche se i più all'interno dell'amministrazione del MECC avrebbero preferito avere a che fare con la grande e stabile Radio Shack, la minuscola Apple presentò un'offerta aggressiva ed entusiasta, e la spuntò. Il MECC ordinò 500 Apple II; un ordine gigantesco in un anno in cui la Apple avrebbe venduto in tutto solo 7.600 macchine. Bisogna però precisare che la Apple si era aggiudicata l'asta a un prezzo talmente scontato che, probabilmente, ci guadagnò poco o niente. Ma questo dettaglio era del tutto irrilevante. In una leggendaria carriera piena di scaltre scelte di marketing, Steve Jobs non ne ha mai fatte di più scaltre di questa.

Non solo il MECC iniziò a portare gli Apple nelle classi del Minnesota, ma iniziò anche a convertirvi la sua gigantesca libreria di programmi educativi scritti in BASIC. Fermiamoci quindi un attimo a riflettere su cosa potesse significare questo passaggio. Il MECC era già noto in tutta la nazione come il leader indiscusso nell'educazione tramite computer; era l'esempio che tutte le altre istituzioni didattiche (più conservatrici e con meno fondi a disposizione) tendevano a seguire in costante ritardo. E così, quando tutte queste istituzioni iniziarono a pensare ai microcomputer per le loro aule, si chiesero inevitabilmente che cosa stesse usando il MECC: l'Apple II. E quando valutarono il software da adottare, ancora una volta non poterono che prendere in considerazione la ricca libreria del MECC; una libreria che veniva rapidamente convertita per un unico microcomputer: l'Apple II.

Per spingere ancora di più l'adozione in ambito educativo, nel 1979 l'Apple iniziò a promuovere pesantemente l'Apple II come strumento didattico, utilizzando pubblicità di questo tenore:

Jobs comprese che introdurre i suoi computer nelle scuole era la chiave per conquistare un mercato molto più grande, quello casalingo. Del resto i motivi didattici erano una delle ragioni citate più frequentemente fra i motivi per i quali una famiglia acquistava un computer. Quando Mamma e Papà valutavano quale computer comprare a Junior, l'Apple II (il computer che aveva tutti i software didattici, il computer che Junior usava anche a scuola, il computer di cui lo stesso Junior aveva parlato in casa e che già sapeva adoperare) sembrò per molti la scelta più logica, anche se costava un po' di più e anche se, col passare del tempo, non aveva più delle specifiche tecniche così impressionanti in confronto alla concorrenza. Quegli Apple II venduti a un prezzo scontato alle scuole funsero da articoli di richiamo per i consumatori, e si ripagarono abbondantemente negli anni. E in seguito la Apple, appena ebbe abbastanza soldi per poterlo fare, si fece ancora più munifica, offrendosi di regalare un Apple II a ogni scuola elementare della nazione. Mosse come questa crearono una presa talmente forte che neppure la Apple stessa riuscì a spezzarla per molti anni, quando avrebbe semplicemente voluto che l'Apple II andasse a morire, per lasciare spazio all'Apple III e -in seguito- al Macintosh. Dal numero del 24 Settembre 1990 di InfoWorld:

A 10 anni di distanza le scuole elementari continuano a comprare la tecnologia Apple II. In conseguenza di ciò, tale strategia ha contribuito a mantenere nel mercato mainstream un sistema che molti osservatori nell'industria ritengono troppo costoso e tecnicamente obsoleto. E ha virtualmente incatenato la Apple al mercato delle scuole elementari fino al giorno d'oggi.

Detto ciò, dietro al dominio dell'Apple II nelle aule, c'era però qualcosa di più di un marketing azzeccato. Grazie al chip di Woz (e al suo progetto nel complesso, che riduceva al minimo i circuiti, nonché alla natura ancora piuttosto basilare della macchina in sé) c'era ben poco nell'Apple II che potesse creare problemi. E, esternamente, era una specie di carrarmato. Questi fattori consentirono a quelle macchine di sopravvivere (letteralmente) per anni agli abusi perpetrati dalle mani di un'intera generazione di studenti, che percuotevano le tastiere in preda alla frustrazione, che puntavano le proprie dita appiccicose sugli schermi, e che occasionalmente ficcavano i floppy al contrario nei lettori! Gli insegnanti impararono ad amare questi loro piccoli colleghi resistenti, che gli offrivano degli occasionali momenti di tranquillità in classi di bambini strillanti.

Né sarebbe giusto, indipendentemente dalla purezza (o dalla mancanza di purezza) che spinse la Apple a promuovere così pesantemente l'aspetto didattico, incorniciare la discussione solo in termini di vendite e di quote di mercato. La creazione da vero hacker di Woz si ritrovò infatti a essere un giocatore chiave nel dibattito in corso sul miglior modo di avvicinarsi alla didattica digitale. Questo lo capiamo bene se osserviamo la carriera di una persona in particolare: Sherwin Steffin. Molto di ciò che segue è tratto dal ritratto di Steffin e della sua società (la Edu-Ware) apparso nel numero di Maggio1981 della rivista Softalk:

Steffin non era uno dei bambini prodigio della rivoluzione dei microcomputer. Quando gli Apple II iniziarono ad arrivare nelle aule, lui aveva quasi 45 anni, con alle spalle già un'impressionante carriera di docente. Oltre ad avere un bachelor’s degree in Psicologia Sperimentale e un master’s degree in Tecnologia Didattica, Steffin aveva anche fatto volontariato contro le bande giovanili a Detroit, aveva insegnato alle scuole superiori per sette anni, aveva lavorato come “media director” per un distretto scolastico di Chicago, aveva lavorato come coordinatore dello sviluppo dei sistemi didattici alla Northeastern University per quattro anni, e aveva sviluppato la televisione didattica per il National Technical Institute for the Deaf di Rochester (a New York). Dal 1977 ha lavorato come “senior research analyst” all'UCLA. Le presunte crisi nel sistema educativo che dovette affrontarvi sono tristemente familiare anche oggi:

La didattica tradizionale era in seria difficoltà. Il prodotto finale era percepito come meno competente, dotato di meno abilità, meno curioso, e del tutto carente nel desiderio di apprendere.
Le scuole erano piene di frustrazione. Gli insegnanti subivano la grande animosità pubblica senza aver nessun mandato chiaro all'interno del quale lavorare. Insegnare a leggere, scrivere, e fare di calcolo sembrava importante quanto insegnare le abilità sociali con lo scopo di rendere gli studenti più patriottici, tenerli lontani dalle droghe e trasmettere loro un'educazione sessuale (senza però rivelare loro niente del sesso).

Gli esperti di tecnologia educativa della generazione di Steffin erano profondamente innamorati delle teorie dello psicologo  B.F. Skinner, l'inventore del comportamentismo. Skinner credeva che tutti i comportamenti umani fossero predeterminati dalla genetica e dalle esperienze precedenti; per lui l'idea di un quasi mistico “libero arbitrio” era solo un'inutile chimera. Scrisse un libro (“The Technology of Teaching”) in cui applicava il Comportamentismo alla didattica, definendo così la sua idea di “istruzione programmata”. Skinner propose una didattica basata essenzialmente su una ripetizione di atti di apprendimento mnemonico: allo studente viene posta una domanda, lui risponde, e gli viene immediatamente comunicato se la sua risposta è corretta, ad infinitum. Seguendo questa teoria, gli esperti di tecnologia educativa svilupparono delle “macchine di apprendimento programmato”: strumenti automatizzati che implementavano il concetto di istruzione programmata. Non c'è da sorprendersi se non furono un grande successo. In un rarissimo caso di unità, sia i professori sia gli studenti le odiavano. Utilizzarle non era solo monotono, ma gli insegnanti in particolare le consideravano totalmente disumanizzanti (un'opinione che Skinner -considerando la natura delle sue idee in proposito- probabilmente avrebbe abbracciato in pieno). Affermavano (correttamente) che molti aspetti della didattica, come l'arte e la capacità di apprezzare la letteratura e il pensiero critico, non potevano proprio essere trasmessi attraverso un mero apprendimento mnemonico.

Steffin iniziò a prendere le distanze dai suoi colleghi, ritenendo che le macchine di apprendimento programmato fossero inadeguate. A parte tutte le loro numerose mancanze, esse erano buone solo per ciò che lui definiva “il pensiero convergente, nel senso che vengono posti dei problemi e tutti gli studenti sono indotti a dare la medesima risposta”. Il pensiero divergente (cioè l'incoraggiamento delle abilità di pensiero e di opinioni critiche individuali) era come minimo altrettanto importante, perché lui era convinto che “il pensiero fosse il sentiero per la libertà”. Con l'arrivo dei microcomputer come l'Apple II a prezzi relativamente bassi, Steffin vi intravide degli strumenti didattici molto più flessibili delle rigidissime macchine di apprendimento programmato. Senza avere nessuna esperienza di programmazione e nessuna particolare attitudine innata, sviluppò un programma chiamato Compu-Read per insegnare a leggere, prima sul grande sistema istituzionale dell'UCLA e in seguito sull'Apple II, che aveva comprato per le sue ricerche. Come tanti altri programmatori semi-professionali / semi-amatoriali di quei primissimi anni dell'informatica, inizialmente sviluppò il suo software come secondo lavoro, cedendo la licenza di Compu-Read al più grande dei publisher degli albori dell'Apple II, la Programma International. Tuttavia, nella primavera del 1979, Steffin fu licenziato dal suo posto di lavoro all'UCLA e, piuttosto che cercare un'altra occupazione, decise di buttarsi a piè pari nella didattica digitale, fondando la  Edu-Ware insieme a uno studente dell'UCLA, Steve Pederson. Insieme iniziarono a sfornare software a ritmi vorticosi, copiando da soli i dischetti e vendendoli nelle buste Ziploc tipiche dell'epoca.

L'offerta di Edu-Ware può essere divisa in tre ampie categorie. La maggior parte erano programmi istruttivi realizzati con competenza, ma piuttosto poveri, che a dire il vero non erano poi troppo differenti dalle vecchie macchine di apprendimento programmato. I loro nomi erano eccitanti quanto i loro contenuti: Compu-Read, Fractions, Decimals, Arithmetic Skills, Compu-Spell, Algebra (se non altro, non si poteva dire che i nomi traessero in inganno il consumatore...)

C'è da dire che di lì a pochissimo tempo altri programmi della Edu-Ware andarono ad occupare il vago spazio vuoto all'intersezione fra strumenti didattici, gioco, e simulazione. Windfall: The Oil Crisis Game metteva il giocatore al comando di una grande (seppur immaginaria) compagnia petrolifera. Il giocatore poteva (e, presumibilmente, voleva) vincere il gioco, ma nel farlo avrebbe inevitabilmente appreso del complesso sistema che era quasi andato in frantumi, producendo la crisi petrolifera del 1979. Network invece metteva il giocatore a capo di un'emittente televisiva, col compito di bilanciare i programmi, la programmazione, gli indici di ascolto e sperimentando nel frattempo le pressioni dei mass media. Terrorist, invece, si concentrava su un altro argomento di grande attualità, a causa della crisi iraniana che continua a trascinarsi avanti, mettendo il giocatore nel ruolo di un terrorista o di un'autorità governativa, inscenando il sequestro di ostaggi, il dirottamento di aerei, o degli scenari di ricatto nucleare.

Creati in un tempo in cui la maggior parte degli altri software o ignoravano completamente il mondo reale, o se ne occupavano esclusivamente dal punto di vista dell'hardware militare, questi programmi sono significativi per il modo in cui si occupano deliberatamente di questioni sociali vere e pressanti. Ma non sono solo delle sterili simulazioni. Ognuna ha uno scopo preciso, ha una posizione specifica rispetto alle vicende del mondo, diventando così quello che è probabilmente il primo esempio di quelli che saranno successivamente chiamati “persuasive game”. La loro retorica procedurale riflette con chiarezza la visione liberare del mondo che doveva essere propria della Edu-Ware. Network potrebbe perfino essere definita la prima satira procedurale, essendo ispirato all'omonima “black comedy” del 1976.

E la terza categoria? Non volevano essere simulazioni, ma solo giochi veri e propri, ma non per questo erano meno affascinanti. Ne parlerò più approfonditamente la prossima volta.

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L'Apple II
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Il senso del design e dell'estetica di Steve Jobs -assolutamente unici- hanno dominato ogni progetto tecnologico da lui guidato dopo l'Apple II; per il meglio (il moderno Macintosh, l'iPhone, l'iPod, l'iPad), per il peggio (l'Apple III), e per le vie di mezzo (il Macintosh originale del 1984, le workstation NeXT). 
L'Apple II però fu un'altra cosa. Anche se sopra c'era il marchio di fabbrica di Jobs, esso recava anche il marchio di un personalità molto diversa, quella di Steve Wozniak. L'Apple II era una specie di macchina dei sogni, un prodotto autenticamente capace di essere cose molto diverse per persone diverse, perché univa in sé l'anima da hacker di Woz con l'efficienza, la struttura aperta, e le possibilità tipiche del dono che aveva Jobs per la creazione di esperienze eleganti destinate a utenti finali ordinari. Le due visioni che racchiudeva in sé presto sarebbero andate rapidamente in conflitto fra loro (sia all'interno della Apple, che in tutta l'industria nel suo complesso), ma in questo preciso momento storico, e solo in questa macchina, esse avevano trovato un equilibrio perfetto.
 
Definire Jobs un ingegnere mediocre probabilmente significa dargli fin troppo credito: internamente l'Apple II era tutto frutto di Woz. 
Steven Levy descrive così le motivazioni che lo avevano spinto a costruirlo così:
 
Era la fertile atmosfera dell'Homebrew che aveva guidato Steve Wozniak attraverso la fase di incubazione dell'Apple II. Lo scambio di informazioni, l'accesso a esoterici consigli tecnici, la vorticosa energia creativa, la possibilità di infiammare le menti altrui con un programma o un progetto ben ideato... tutti incentivi che non facevano che accrescere il già intenso desiderio di Steve Wozniak di costruire il computer con cui lui stesso avrebbe voluto giocare. I computer del resto erano l'unico orizzonte dei suoi desideri; non era perseguitato dalla brama di ricchezze o di fama, né era ossessionato dal sogno di un mondo in cui ogni consumatore era seduto davanti a un computer.
 
Quando si apre un Apple II, si vedono un sacco di slot e un sacco di spazio vuoto.
Tutti questi slot erano la chiave della visione di Woz di una macchina come "giocattolo" definitivo di ogni hacker: ogni slot era un invito a estendere la macchina in un qualche modo interessante. Non sorprende che Jobs fosse stupefatto dall'insistenza di Woz di dedicare tutto quello spazio a ipotetiche possibilità future, visto che ciò non collimava affatto con la sua visione dell'Apple II come prodotto elettronico di consumo che l'utente finale avrebbe solo dovuto attaccare alla presa della corrente e utilizzare. Certamente uno o due slot potevano bastare, tentò di rilanciare Jobs. E normalmente Jobs (di gran lunga la personalità più forte fra le due) finiva con l'uscire vincitore da questo tipo di dispute, ma stavolta Woz restò inusualmente fermo nella sua posizione e ottenne i suoi slot.
 
E fu una vera fortuna che ci sia riuscito. In pochi mesi gli hacker, le società di terze parti, e la Apple stessa iniziarono a trovare dei modi per utilizzare tutti quegli slot: schede sonore, schede video da 80 colonne, hard disk, interfacce per stampanti, modem, coprocessori e schede acceleratrici, interfacce per mouse, schede grafiche con risoluzioni maggiori, digitalizzatori audio e video, e così via ad infinitum. Gli slot, uniti alla caparbia insistenza di Woz che volle che ogni più piccola sfumatura tecnica del suo progetto fosse meticolosamente documentata a beneficio degli hacker di tutto il mondo, trasformò l'Apple II da una singola macchina statica in un motore dinamico di possibilità. Sono proprio questi slot la caratteristica che più di ogni altra distingueva l'Apple II dai suoi contemporanei (il PET e il TRS-80) e che gli permise di avere una vita più lunga di oltre dieci anni rispetto a loro. Nel giro di pochi mesi dalla pubblicazione dell'Apple II, perfino Jobs ebbe di che ringraziare Woz per la loro esistenza.
 
Tutti i computer della trinità del 1977 inizialmente facevano affidamento sulle cassette. Sia il PET che il TRS-80 infatti erano equipaggiati di base con un lettore di cassette, mentre l'Apple II includeva solo un'interfaccia per un tale lettore, nel quale l'utente doveva collegare il proprio. Bastarono pochi mesi di esperienza con questo metodo di archiviazione (che era la definizione stessa di difficile da operare, lento, e non affidabile) per convincere tutti che serviva qualcosa di meglio se queste nuove macchine dovevano passare dall'essere dei semplici giocattoli tecnologici a diventare anche utili per il lavoro vero e proprio. La soluzione più ovvia furono i floppy disk da 5 1/4 pollici, recentemente sviluppati da una piccola compagnia chiamata Shugart Associates.  Woz si mise rapidamente al lavoro, producendo un progetto che gli ingegneri che si intendono di queste cose ancora oggi considerano con reverenza per la sua semplicità, la sua affidabilità, e la sua efficienza. Il prodotto, noto come Disk II, arrivò sul mercato a metà del 1978 per circa 600 dollari, aumentando notevolmente l'utilizzabilità e l'utilità dell'Apple II. Grazie all'espandibilità che Woz aveva garantito all'Apple II fin dall'inizio, la macchina fu in grado di incorporare senza alcuno sforzo la nuova tecnologia. Anche a 600 dollari (un prezzo all'epoca molto competitivo per un floppy disk) il design minimalistico di Woz unito alle capacità di espansione dell'Apple II, garantivano alla Apple dei margini di profitto enormi sul prodotto; in "West of Eden", Frank Rose afferma che il sistema Disk II a conti fatti fu importante per l'iniziale successo della Apple almeno quanto lo fu il primo Apple II. Alla fine anche il PET e il TRS-80 ebbero dei loro floppy disk, solo molto più brutti; per esempio, un possessore di TRS-80 che avesse voluto passare al floppy disk avrebbe dovuto comprare prima "l'interfaccia d'espansione" di Radio Shack (ingombrante, brutta, e costosa), e poi un'ulteriore grosso scatolone contenente quegli slot che l'Apple II aveva già al suo interno.
 
Invece un'altra killer application resa possibile dall'architettura aperta dell'Apple II venne da una fonte del tutto inaspettata: la Microsoft. Nel 1980 quella società introdusse il suo primo prodotto hardware: una CPU Zilog Z80 montata su una scheda che fu chiamata SoftCard. Un Apple II equipaggiato con essa non solo aveva accesso alla crescente libreria di software dell'Apple II, ma anche a quella del CP/M e delle sue centinaia di applicazioni orientate al settore business. Ciò dette ai possessori di Apple II il meglio di entrambi i mondi per una spesa aggiuntiva di soli 350 dollari. Non c'è da meravigliarsi se di tale scheda furono vendute decine di migliaia di esemplari negli anni successivi, fino a che la lenta decadenza del software per CP/M (cosa di cui -ironicamente- fu responsabile la stessa Microsoft con il suo nuovo standard MS-DOS) non la rese irrilevante.
 
Mentre molti computer basati sul 6502 erano considerati macchine da casa e da gioco, di scarsa utilità "seriosa", prodotti come la SoftCard e le varie schede video che gli permettevano di mostrate  80 colonne di testo a schermo (un requisito assolutamente necessario per fare della vera videoscrittura) donò all'Apple II la fama di una macchina utile tanto per il lavoro quanto per il gioco. Anche questa fama, e le vendite che essa indubbiamente generò, dipese comunque in definitiva sempre da quei pazzi slot. In questo senso l'Apple II assomigliava più da vicino alla comodità della struttura dei futuri PC (pensata per la prima volta dall'IBM nel 1981), che ai successivi prodotti della stessa Apple.
 
Un altro significativo vantaggio dell'Apple II sui suoi competitor era la sua abilità di visualizzare la grafica bitmap. Come sicuramente vi ricorderete, il TRS-80 e il PET erano sostanzialmente limitati alla sola visualizzazione del testo. E, se anche si potevano disegnare delle semplici figure utilizzando dei semplici glifi, che queste macchine fornivano in aggiunta alle classiche lettere e ai simboli della punteggiatura (al riguardo vi invito a leggere il mio post su Temple of Apshai per il TRS-80), questa tecnica era inevitabilmente limitata. L'Apple II invece aveva un'autentica griglia di 280x192 pixel individualmente indirizzabili. Utilizzare questa capacità non era facile per i programmatori, ed era comunque accompagnata da tutta una serie di condizioni e di restrizioni. Per esempio sull'originale Apple II erano disponibili solo 4 colori e, a causa di alcune peculiarità della progettazione, non sempre ogni singolo pixel poteva essere dello specifico colore desiderato. Proprio da questo dipendevano le peculiari aberrazioni cromatiche che rendono ancora oggi immediatamente riconoscibile il display dell'Apple II. Nonostante questo, l'Apple II rappresentava senza dubbio l'eccellenza grafica nei microcomputer del 1977 (tornerò a parlare del sistema grafico dell'Apple II e delle sue limitazioni quando nei prossimi post mi occuperò di alcuni suoi giochi specifici).
 
Insomma, Woz era un po' dappertutto nell'Apple II, in questi dettagli e in molti altri ancora. Ma Jobs invece dov'era?
 
Per prima cosa rivestiva il ruolo che aveva sempre rivestito nei suoi primi progetti con Woz: quello di supervisore e facilitatore. Lasciato a sé stesso, Woz si sarebbe perso per settimane nei più minuti e sostanzialmente insignificanti aspetti progettuali, oppure si sarebbe distratto alla prima idea che gli fosse venuta di una burla da realizzare tramite qualche strumento elettronico. È per questo che Jobs si era dato il compito di tenere costantemente sotto controllo Woz e la coppia di giovani ingegneri che lavoravano al suo fianco, per tenerli concentrati e fargli rispettare i tempi previsti. E poi risolveva per loro anche i problemi pratici, alla maniera inimitabile di Steve Jobs. Ad esempio, quando fu chiaro che sarebbe stato molto difficile progettare il modulatore di frequenza necessario per collegare il computer alla televisione (i monitor dedicati all'epoca erano un lusso raro e costoso) senza infrangere gli standard federali sulle interferenze, fece rimuovere completamente a Woz questa parte dal computer, consegnando direttamente le specifiche a una società chiamata M&R Electronics. Infatti, se venduto separatamente e da un'altra società, il modulatore di frequenza non doveva rispettare i medesimi stringenti standard; gli utenti dell'Apple II si sarebbero dovuti semplicemente limitare ad acquistare il loro modulatore di frequenza separatamente, a un costo contenuto, e tutti sarebbe stati contenti (e la M&R più di tutti, che in poco tempo si trovò a vendere migliaia di unità dei suoi piccoli apparecchi)
 
A parte questo ruolo di risolutore di problemi tecnici, nel prodotto finito c'è sicuramente anche tutta la visione unica di Jobs. Fu Jobs a insistere che il progetto di Woz fosse ospitato in un sottile case di plastica stampata a iniezione, che sembrasse leggermente futuristico, ma non così tanto da cozzare con gli arredi di una casa tipo. Fu sempre Jobs che dette alla macchina il suo aspetto professionale, con tutte le viti nascoste sotto e con il colorato logo della Apple (un riferimento alle capacità grafiche uniche della macchina) frontale e centrale.
Jobs, esibendo il suo celebre fastidio per il rumore delle ventole (fastidio che non lo avrebbe mai abbandonato, nemmeno negli anni a seguire), insistette affinché Woz e i suoi collaboratori trovassero un altro modo per raffreddarlo, cosa che riuscirono a conseguire attraverso un astuto sistema di prese d'aria collocate alla perfezione. E fu sempre Jobs che dette alla macchina il suo tocco unico di accessibilità, attraverso un top scorrevole che garantiva facile accesso agli slot d'espansione e, qualche tempo dopo, attraverso una documentazione insolitamente completa e professionale presentata sotto forma di grandi manuali patinati e colorati. 
Effettivamente si può dire che l'esperienza di possedere un Apple II non era poi così diversa dall'esperienza di possedere un odierno prodotto Apple. Jobs lavorava incessantemente per far sentire i possessori di Apple II parte di un club esclusivo, più raffinato e sofisticato di quello molto ordinario dei possessori di PET e di TRS-80, spedendo loro di quando in quando omaggi e aggiornamenti (come, appunto, i manuali di cui sopra). E, proprio come la Apple di oggi, non era particolarmente interessato a competere in modo troppo aggressivo nella guerra dei prezzi. Se un Apple II costava un po' di più (molto di più, a dire il vero praticamente il doppio di PET e TRS-80), erano soldi in più ben spesi. E poi, cosa aggiunge a un prodotto un'aura di esclusività se non proprio un prezzo più alto?
Quello che abbiamo qui è quindi una macchina più costosa, ma anche migliore della concorrenza, e (anche se solo un paio di anni più avanti, quando la sua libreria software iniziò a essere all'altezza) perfetta per fare bene in molti ruoli diversi per molte persone diverse, dall'hacker hardcore, fino all'uomo d'affari, passando per l'insegnante e per il videogiocatore adolescente.
 
Quando l'Apple II fece il suo debutto alla prima West Coast Computer Faire dell'Aprile del 1977, gli istinti promozionali di Jobs si fecero nuovamente notare. A differenza degli altri stand (che solitamente avevano cartelli scritti a mano con pennarelli neri), quello della Apple aveva un pannello in plexiglas retroilluminato che metteva in evidenza il nuovo logo della società; farebbe la sua sporca figura ancora oggi.
Alla luce della confusione che persiste ancora oggi su chi debba prendersi il merito di aver venduto il primo PC completamente assemblato, dovremo forse prenderci un momento per osservare la cronologia della trinità del 1977. 
Commodore fece la prima mossa, esibendo al Winter Consumer Electronics Show del Gennaio del 1977 un prototipo estremamente grezzo del suo PET. Poi proseguì mostrando prototipi via via meno grezzi all'Hanover Messe di Marzo (un momento particolarmente significativo nella storia dell'informatica europea) e alla West Coast Computer Faire. Tuttavia il suo progetto non fu completamente finalizzato fino a Luglio, e le prime unità non raggiunsero i negozi prima di Settembre. Anche allora però il PET rimase notoriamente difficile da reperire, almeno fino al 1978 inoltrato, per colpa del caos interno e dll'inefficienza che sembrano assolutamente endemici a tutta la storia della Commodore. Ironicamente Jobs e Woz avevano mostrato privatamente la tecnologia dell'Apple II alla Commodore e all'Atari nel 1976, offrendosi di vendergliela per "qualche centinaio di migliaia di dollari" e per una posizione all'interno dello staff del progetto. L'offerta fu rifiutata: la Commodore, avendo sottostimato immensamente la difficoltà dell'opera, ritenne di poter creare un progetto simile e iniziare a produrlo in pochi mesi...
Dall'altro lato il TRS-80 non fu annunciato prima dell'Agosto del 1977, ma apparve in gran quantità nei negozi di Radio Shack poche settimane dopo il PET, per poi diventare di molti ordini di grandezza il più venduto della trinità. 
E l'Apple II? La macchina di Woz alla West Coast Computer Faire era in uno stato molto avanzato, e iniziò a essere spedito ai rivenditori nel Giugno del 1977, rispettando i tempi previsti. Quindi, anche se alla Commodore va il merito di essere stata la prima ad aver annunciato la futura pubblicazione di un PC pre-assemblato, fu invece la Apple la prima a dare davvero seguito alle parole e a consegnarne uno come prodotto finito e acquistabile. Infine a Radio Shack va il premio di consolazione per aver prodotto il primo PC a vendere in grandi numeri (100.000 unità solo nei pochi mesi restanti del 1977, quasi il doppio di quanto avessero venduto tutti insieme nel corso dell'intero anno gli altri microcomputer pre-assemblati e da assemblare).
 
Il che ci porta ad un'altra interessante osservazione: se è certo che la Apple è stata il produttore del primo PC, è altrettanto vero che la sua ascesa non è stata “meteoritica” come le storie popolari di quel periodo sembrerebbero suggerire. Per quanto notevoli fossero l'Apple II e la sua elegante presentazione studiata da Jobs, la Apple faticò non poco per attirare l'attenzione del pubblico alla West Coast Computer Faire, in mezzo com'era a qualcosa come 175 prodotti concorrenti, la maggior parte dei quali molto più grandi, se non più rifiniti, di quello della Apple. Byte magazine per esempio nel suo ampio resoconto della mostra si limita a una semplice breve menzione della Apple. 
Anche dopo la sua pubblicazione, non è che le vendite furono da strapparsi i capelli. La Apple infatti vendette solo 650 Apple II nel 1977 e si ritrovò quasi strangolata da Radio Shack con la sua gigantesca rete di negozi e la sua immensa capacità produttiva. L'anno successivo andò meglio (vendute 7.600 unità), l'anno dopo ancora meglio (vendute 35.000 unità, grazie alla crescente forza del catalogo software e hardware). Tuttavia l'Apple II non supererà in vendite annuali il TRS-80 prima del 1983, quando era ormai lanciato verso il suo picco di 1.000.000 di unità vendute nel 1984 (l'anno che, ironicamente, viene comunemente ricordato dalla stampa come l'Anno del Macintosh).
 
La Apple pubblicò una versione migliorata del II nel 1979, l'Apple II Plus. Questo modello veniva solitamente venduto con 48 K di RAM (una quantità impressionante per l'epoca – l'Apple II originale di base ne aveva appena 4 K). Da segnalare anche che nella ROM fu sostituito l'originale  Integer BASIC (scritto da Woz in persona, quando aveva appena iniziato a frequentare le riunioni dell'Homebrew Computer Club) con il così detto AppleSoft BASIC. Esso andava a correggere un difetto essenziale dell'originale Integer BASIC: la sua incapacità di gestire i numeri in virgola mobile (es. i decimali). Questa implementazione molto più ricca di funzionalità era fornita (come praticamente tutti i BASIC dei microcomputer di allora) dalla Microsoft; come ci dimostrano l'AppleSoft BASIC e altri prodotti come la SoftCard, durante questo primo periodo la Microsoft lavorava spesso a stretto contatto con la Apple, in netto contrasto con il logoro rapporto che legherà le due società negli anni futuri. Woz mise anche appunto il sistema di visualizzazione del II Plus affinché potesse gestire 6 colori (invece che 4) in modalità hi-res.
 
Nel 1980 l'Apple II, tramite il II Plus, aveva raggiunto una sorta di maturità, anche se continuava ad avere una serie di buchi (e principalmente la mancanza di supporto per le lettere minuscole senza l'acquisto di uno speciale hardware aggiuntivo). Non fu la macchina che vendette di più del 1980, e certamente era ben lungi dall'essere la meno costosa, ma da alcuni punti di vista era sicuramente la più desiderabile. Il design veloce e affidabile del Disk II di Woz, abbinato alla (relativamente) gigantesca RAM del II Plus e alle sue capacità di grafica bitmap, ispirò tutta una nuova generazione di avventure e di GdR, più grandi e più ambiziosi dei predecessori. La prossima volta inizieremo a esaminare questi sviluppi.
 
Dopo il primo e relativamente modesto successo dell'Apple II, Jobs iniziò a lavorare per assicurarsi che i successivi prodotti della Apple riflettessero solo ed esclusivamente la sua personale visione dell'informatica, sfilando delicatamente Woz dalla posizione centrale che aveva avuto fin qui. Iniziò a trattare Woz come fosse una specie di cane sciolto da tenere attentamente sotto controllo, dopo che Woz aveva rischiato di rovinare la leggendaria Offerta Pubblica Iniziale del 1980 vendendo (o addirittura promettendo di regalare) delle ampie fette del suo personale stock di azioni ai vari dipendenti della Apple che secondo lui stavano facendo un buon lavoro e che meritavano quindi una ricompensa, che diamine!!!
L'Apple III, anche lui introdotto nel 1980, fu così il prodotto di un processo ingegneristico più tradizionale, sviluppato collegialmente da un gruppo di lavoro nel quale a Woz fu data ben poca voce in capitolo. Fu anche il primo fallimento della Apple, in gran parte dovuto all'esagerata arroganza di Jobs e al suo rifiuto di ascoltare ciò che i suoi ingegneri gli andavano dicendo. In particolare Jobs insistette perché  l'Apple III (proprio come era avvenuto con l'Apple II)  venisse prodotto senza una ventola di raffreddamento. Stavolta però non poteva esserci nessuna astuta scappatoia ingegneristica che impedisse alle macchine di fondersi a migliaia. 
Forse a causa di un aspetto della sua personalità molto da hacker (e assolutamente non da Jobs), Jobs aveva ripetutamente provato a uccidere l'Apple II, senza però riuscirci minimamente: esso restò il prodotto più venduto dalla società, nonché la sua principale fonte di introiti fino a quando nel 1985 Jobs non lasciò, offeso, la Apple in seguito a una disputa interna.
 
Nel febbraio del 1981 Woz fece un incidente con il piccolo aeroplano che aveva appena imparato a pilotare, subendo un forte trauma alla testa. Questo evento segnò la fine dei suoi anni di ingegnere sulla cresta dell'onda, all'Apple e anche altrove. Forse prese l'incidente come una chiamata a occuparsi di tutte quelle altre meraviglie della vita che aveva trascurato durante gli anni passati immerso in circuiti e codice. È anche vero però che il tipo di ingegneria “da funamboli” che aveva praticato Woz per tutti gli anni '70 (non solo alla Apple e privatamente, ma anche alla Hewlett Packard) era particolarmente intensa mentalmente e forse il cervello di Woz era uscito cambiato dall'esperienza quel tanto che bastava da non rendergliela più possibile. Fatto sta che iniziò a interessarsi di altre cose: tornò all'università sotto nome assunto per conseguire quella laurea che non aveva mai portato a termine, organizzò due enormi festival di musica e cultura all'aperto (gli “US Festivals” del 1982 e del 1983), sviluppò e cercò di commercializzare un telecomando universale. Ufficialmente è ancora un dipendente della Apple, ma non lavora regolarmente in ufficio dal Febbraio 1987. Alcuni anni fa ha scritto un'autobiografia (con il consueto aiuto di uno scrittore professionista), mantiene un piccolo sito web, contribuisce a varie cause benefiche come l'Electronic Frontier Foundation, e -cosa alquanto bizzarra- ha recentemente fatto un'apparizione a Ballando con le Stelle.
 
Quando nel 2000 gli venne chiesto se si considerava un imprenditore, Woz ebbe a dire:
 
Non adesso. Non ci provo nemmeno, perché non ho intenzione di investire 20 ore al giorno del mio tempo in niente. E non intendo nemmeno tornare all'ingegneria. Per come la facevo io, ogni lavoro era da 10 e lode. Lavoravo con una tale concentrazione e avevo costantemente in testa centinaia di cose oscure d'ingegneria e di programmazione. Da questo punto di vista ero davvero eccezionale. Fu qualcosa di così intenso che non poteva durare troppo a lungo: lo puoi fare solo da giovane. Adesso sono nel consiglio di amministrazione di un paio di società, che potrebbero essere definite delle start-up, quindi in un certo senso do il mio supporto, ma non le vivo fino in fondo. Più divento vecchio e più mi piace prendermela con calma.
 
E Woz di certo si è guadagnato il diritto di "prendersela con calma". Tuttavia c'è comunque qualcosa che mi rattrista un po' nella sua carriera successiva all'Apple II, perché mi sembra la storia di un uomo che non ha mai capito davvero cosa fare della seconda parte della sua vita. 
E in più in lui è ancora presente quella nota stonata di subordinazione a Jobs; dalla stessa intervista:
 
Sapete cosa? Steve Jobs è sempre molto gentile con me. Mi consente di restare un dipendente della società e questo per me è uno dei più grandi onori. Altra gente non si comporterebbe come lui. Ha la fama di essere cattivo, ma io credo che lo sia solo quando deve gestire una società. Non si è mai fatto vedere in quel modo vicino a me. Non mi attacca mai, come invece ho sentito che fa con altra gente. Eppure anche io ho i miei momenti strambi.
 
È come se Woz -che Dio benedica la sua innocenza!- ancora non capisse che in realtà Jobs lo ha trattato piuttosto male e che (da un punto di vista molto concreto) è stato lui a... creare Jobs. Sotto questa luce è più che normale che Jobs si trattenga dal vessarlo come farebbe con uno qualunque dei suoi dipendenti.
 
Parlando di Jobs, invece... beh, presumo che tutti voi sappiate già tutto di lui, dico bene?.

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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto

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- I Primi Giochi di Ruolo per Computer
- Temple of Apshai
- Un 1980 Indaffarato
- L'Interactive Fiction di Robert Lafore
- Cestinando il Trash del TRS-80
- Jobs e Woz



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Jobs e Woz
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Mentre sto scrivendo queste righe [09 Settembre 2011; ndAncient], sui media e sui blog di settore si sta appena attenuando l’orgia di commenti e retrospettive scatenate da uno Steve Jobs palesemente malato che si dimette dal suo ruolo di CEO della Apple. L’evento segna la fine di un’era. Con Bill Gates che si è ritirato dalla gestione quotidiana della Microsoft alcuni anni fa, i due grandi sopravvissuti degli albori dei computer alla fine degli anni ‘70 e all'inizio degli ’80 non gestiscono più le due iconiche compagnie che iniziarono a costruire così tanti anni fa.

Per molti Bill e Steve rappresentano due approcci sostanzialmente opposti alla tecnologia. Da un lato c’era Gates, l’ambizioso goffo e tradizionalista, che nemmeno da multi-miliardario è mai sembrato pienamente a suo agio nei propri panni, con i suoi fogli di calcolo e i database, costantemente ossessionato dall'andamento finanziario della Microsoft. Dall’altro lato c’era Jobs, il paradigma del fighetto della California, che non ha mai incontrato nessuno che non fosse riuscito ad ammaliare, con la sua vena artistica e i software per la produzione di musica, che parlava incessantemente di come la tecnologia ci avrebbe permesso di vivere vite migliori e più eleganti. Questi modi di essere erano rispecchiati anche dai prodotti delle loro rispettive compagnie. In "In the Beginning... Was the Command Line" Neil Stephenson ha confrontato il Macintosh con un'elegante berlina europea, mentre Windows con una station wagon “con l’appeal estetico di un condominio da operai sovietici, che perde olio, che ha la marmitta sfondata, e che [ovviamente] ha un successo enorme.” Questi contrasti (o dovremmo dire caricature?) avevano radici profonde. E di certo li aveva ben presenti la Apple quando fece la sua serie di pubblicità, ormai classica, “I’m a Mac / I’m a PC” per sancire il suo grande ritorno nel nuovo millennio con Jobs al comando.

Già alla fine degli anni ’70, quando era ancora giovane, Jobs sapeva percepire intuitivamente come la tecnologia avrebbe dovuto funzionare e aveva un senso estetico che semplicemente mancava a tutti i nerd e a tutti gli hacker che componevano il resto della primissima industria dei microcomputer. Quasi unico fra i suoi contemporanei, Jobs aveva una visione di dove questa roba poteva andare, una visione di un futuro tecnologico che avrebbe attratto non solo il tizio del PC delle pubblicità di cui sopra, ma anche il tizio del Mac. L’industria aveva disperatamente bisogno di un tipo come Jobs (di bell’aspetto, loquace, con una parlantina sciolta, e con un senso innato dell’estetica e del design), che facesse da ambasciatore fra gli hacker e la gente comune. Job era il tipo d’uomo che poteva andare a cena a casa di una ragazza e uscirne con un assegno del padre per fondare la sua startup e una torta fatta in casa dalla madre. Faceva sembrare tutti quegli hacker con i loro codici binari e i loro strumenti da saldatore quasi normali e quasi (anche se solo per trasposizione)... fighi.

C’è un modo di dire che ricorre costantemente fra quelli di quei tempi là, che si ricordano di persona quei giorni e le storie che sono state scritte al riguardo: che quelli erano tempi fondamentalmente innocenti, in cui gli hacker hackeravano per il semplice piacere di farlo e che per quella via hanno accidentalmente creato il mondo moderno. Nel "Triumph of the Nerds", il socio di Jobs nella fondazione della Apple, Steve Wozniak, ha dichiarato:

Era solo una piccola società di hobbisti, come tante altre, senza nessun particolare progetto. Non è che pensavamo che sarebbe durata molto. Pensavamo che lo stavamo facendo per divertimento, ma ci fu una breve finestra di tempo in cui una persona, che sapeva sedersi e fare dei bei progetti puliti, poteva trasformare il tutto in qualcosa di gigantesco, come l’Apple II.

Io credo a Wozniak, un vero hacker, se mai ce n’è stato uno. Tuttavia immaginare che una sorta di beata armonia nei principi degli hacker unisse coloro che erano alla guida delle società che crearono la prima industria dei computer sarebbe un grave errore. Come è reso più che evidente dal gran numero di società e di modelli di computer che erano apparsi e già spariti nel 1982, l’industria dei PC era un luogo di tagliagole iper-competitivi.

Nello stesso video, Jobs racconta di quei giorni che:

Io valevo oltre un milione di dollari quando avevo 23 anni, e oltre dieci milioni quando ne avevo 24, e oltre 100 milioni quanto ne avevo 25, e non era poi così importante, perché comunque non l’ho mai fatto per i soldi.

A differenza dei commenti di Wozniak, c’è qualcosa che stona con l’apparente ingenuità di questa affermazione. Per essere uno che si cura così poco delle proprie finanze, sembra un po' strano che Jobs abbia un ricordo così preciso di quanto valeva in ogni esatto momento della sua vita; qualcosa mi dice che Wozniak avrebbe delle difficoltà a produrre dei numeri simili su di sé. Ho già scritto in precedenza su questo blog di come Jobs avesse fregato al suo miglior amico Wozniak i 5.000 dollari del premio per il progetto di Breakout per la Atari. Ovviamente all’epoca Jobs era molto giovane e ognuno di noi ha sicuramente qualcosa che vorrebbe cancellare dalla propria giovinezza, ma questo specifico episodio personalmente mi ha sempre colpito come uno di quei segni indicativi di una personalità; uno di quei segni che dicono qualcosa sulla vera natura di una persona. Successivamente Wozniak avrebbe sminuito quell’incidente nella sua autobiografia, dicendo: “Dopotutto, eravamo solo ragazzi”, ma anche qui non riesco a credere che lui avrebbe fatto lo stesso con Jobs. Un altro segno indicativo di una personalità potrebbe essere questo: Wozniak era così onesto che, dopo aver progettato il computer che sarebbe poi diventato l’Apple I e aver fondato con Jobs la società che doveva venderlo, si ricordò improvvisamente del contratto di lavoro che aveva firmato con la Hewlett Packard (che diceva che tutte le sue opere ingegneristiche appartenevano all’HP per tutta la durata del rapporto di lavoro, che fossero state create a casa o sul luogo di lavoro) e quindi provò a consegnare il suo progetto alla HP. Con gran sollievo di Jobs, l’HP lo guardò divertita e gli disse che era liberissimo di provare (inutilmente) a venderlo da solo.

Nel caso di Jobs, se scaviamo oltre la patina del “cool” Californiano e del “trendy” Buddista, troviamo un uomo competitivo in modo ossessivo, esattamente come Gates; entrambi da giovani erano i capi più esigenti, che umiliavano i subordinati e fomentavano deliberatamente i malumori per spingere tutti a dare il massimo attraverso un ambiente altamente competitivo. Gates però non aveva lo charme e la scaltrezza comunicativa che ha permesso a Jobs di restare per sempre il ragazzino d’oro della tecnologia. Anche quando era molto giovane, la gente già parlava del campo di distorsione della realtà che circondava Jobs e che sembrava consentirgli di convincere le altre persone a vedere le cose dal suo punto di vista e a fare come voleva lui.

E se Jobs non è esattamente quell’Uomo Nuovo illuminato che appare dall’immagine che si è abilmente costruito, una simile subdola dissonanza cognitiva è presente anche nella sua società. I prodotti contemporanei della Apple [l’articolo è del 2011; ndAncient] sono innegabilmente belli sotto l’aspetto ingegneristico e, effettivamente, a loro modo sono proprio “empowering”, ma... la cosa si ferma lì. Se torniamo ancora una volta a Stephenson, queste macchine così eleganti hanno “il loro interno sigillato ermeticamente, e quindi il loro vero funzionamento resta un mistero”. Saranno anche “empowering”, ma solo nella logica della Apple. Da un altro punto di vista, esse generano dipendenza (dipendenza dalla Apple), piuttosto che indipendenza. E poi, ovviamente, tutta quella bellezza ed eleganza ha un costo altissimo, al punto tale da farli diventare degli status symbol. L’idea di uno strumento informatico, per quanto costoso, che diventa uno status symbol in un posto che non è una community di nerd era ovviamente un’idea inconcepibile nel 1980 - quindi sì, c’è stato un notevole progresso da questo punto di vista e in gran parte grazie all’influenza di Jobs. Tuttavia a volte viene da confrontare “l’inconoscibilità sigillata” dei prodotti Apple con i PC mercificati che avevano quasi permesso al “malvagio” Bill Gates di conquistare l’intero mondo informatico. Un PC basato su Windows sarà anche potuto essere una station wagon domestica o (secondo un’altra popolare analogia) un pickup, ma proprio come quei veicoli era a buon mercato praticamente per tutti ed era facile aprire il cofano e aggiustarlo. Le creazioni di Apple invece richiedono un viaggio dal metaforico rivenditore di auto esotiche anche solo per cambiare l’olio. Un Macintosh potrà anche scatenare l’artista che è in voi e impressionare tutti quelli che avete intorno al caffè dove state lavorando, ma un PC può essere acquistato per pochi spiccioli -o può essere assemblato con parti di scarto- e facilmente utilizzato nella savana per controllare quelle pompe che portano l’acqua potabile al villaggio. Ci sarebbe molto altro da dire sull’hardware economico, largamente diffuso, e tragicamente “uncool”; e ci sarebbe molto da dire sull’idea (per usare le parole di un altro dei pionieri dei microcomputer) dei “computer per le masse, e non per le classi”.

Ecco che a questo punto potrebbe sembrare opportuno un accenno a Linux, oltre che una più attenta distinzione fra i concetti di hardware e software, ma le metafore che ho usato stanno già scricchiolando sotto tutto il peso di questo discorso. Cercherò quindi di riportare la discussione su Jobs e Woz, la più strana delle coppie.

Wozniak era il classico hacker “old-school”. Anche alle superiori alla fine degli anni ’60 fantasticava sui computer nello stesso modo in cui i tipici adolescenti sono ossessionati dalle ragazze e dalle macchine. Il suo concetto di divertimento era scrivere laboriosamente dei programmi su taccuino (per i quali non aveva nessun computer su cui farli girare) e quindi immaginarli all’opera. Mentre gli altri ragazzi accumulavano riviste con foto di ragazze, Woz (come tutti lo chiamavano) collezionava manuali per ogni computer sul mercato - a volte per poterli riprogettare migliori e più efficienti nella sua immaginazione.

Nel 1970, durante un periodo sabbatico in cui lavorava, il ventenne Woz incontrò il quindicenne Jobs. Nonostante la differenza di età, divennero rapidamente amici, uniti da un comune amore per la tecnologica, la musica e le burle. Ma presto scoprirono un’altra comune ossessione: il “phone phreaking”, l’hacking del servizio telefonico per poter fare telefonate a lunga distanza gratuite. La loro prima “joint business venture” (istigata -come sempre, quando si trattava di queste cose- da Jobs) consisteva nella vendita di “scatole blu” fatte in casa che potevano generare i toni necessari per comandare la commutazione delle comunicazioni a lunga distanza.

Jobs invece non era… il classico hacker “old-school”. Esternamente, almeno, era il classico hippy con una passione per la filosofia orientale e per Bob Dylan, un estroverso con ben poca pazienza per la programmazione o l’ingegneria. Nonostante questo, il suo campo di distorsione della realtà gli consentì di guadagnarsi a parole un posto come tecnico presso l’emergente produttore di cabinati Atari. Convinse perfino Atari a concedergli un’estate libera e un volo aereo per l’India finalizzato a una “ricerca spirituale”. Nonostante tutto questo, tuttavia, l'apparentemente incapace Jobs continuava a fare ciò che ci si aspettava da lui. E ci riusciva, ovviamente, grazie a Woz, che all’epoca già lavorava a tempo pieno per Hewlett Packard di giorno e che di notte faceva il lavoro di Jobs. Il dinamico duo raggiunse il proprio apice all’Atari con il cabinato di Breakout. In quella che, almeno dall’esterno, ha tutti i segni di una classica relazione di codipendenza, al povero Woz fu detto che avevano solo quattro giorni per completare il progetto; in verità Jobs voleva semplicemente finire prima perché voleva partecipare alla raccolta delle mele in una comune agricola dell'Oregon (lo so, si stenta a crederci…). Woz rispettò la scadenza, rinunciando a dormire per quattro giorni consecutivi, e ci riuscì usando un numero di chip talmente ridotto che il tutto risultò non producibile. Al riguardo, l’ingegnere dell’Atari Al Alcorn

Ironicamente il progetto era così minimizzato che i comuni mortali non riuscivano a comprenderlo. Per andare in produzione dovemmo farlo testare ai tecnici, affinché lo potessero capire. Se una sola parte non avesse funzionato, l’intero progetto sarebbe andato a pezzi. E poiché Jobs non lo comprendeva davvero e al tempo stesso non voleva che noi sapessimo che non l’aveva fatto lui, finimmo col doverlo riprogettare tutto prima di poterlo consegnare.

Ma Jobs andò al festival delle mele ed ebbe anche il bonus da 5.000 $ (di cui non disse mai niente a Woz) da spendere là. Nel 1984 Woz credeva ancora che lui e Jobs avessero guadagnato solo 700$ per un progetto che era diventato il grande successo arcade del 1976.

Possiamo solo fare speculazioni su cosa spingesse Woz a sopportare un trattamento del genere; ma le speculazioni sono divertenti e quindi eccole qua! Woz era uno di quei tipi dal cuore tenero, a cui piacciono gli altri e a cui piace piacere agli altri, ma che (a causa di una scarsa empatia, o forse perché voleva piacere a tutti i costi) appare invece sempre fuori luogo nei contesti sociali, facendo sembrare tutto un po' imbarazzante. Woz rideva sempre un po' troppo forte o un po' troppo a lungo, sembrava che non sapesse mai quando era il momento di smettere di raccontare la sua ampia gamma di barzellette sui polacchi, oppure quando i suoi infiniti scherzetti stavano superando il confine fra innocui e crudeli. Per una persona così l'opportunità di frequentare un animale spiccatamente sociale come Jobs doveva essere una tentazione durissima a cui resistere, per quanto il loro rapporto apparisse iniquo.

Non era però un rapporto a senso unico; non completamente, almeno. Quando Woz stava lavorando al progetto che sarebbe poi diventato l'Apple I, bramava un nuovo tipo di chip di RAM dinamica, che i due non potevano permettersi. Jobs allora chiamò il produttore e applicò il suo campo di distorsione della realtà per convincerlo a mandargli dei “campioni”. Jobs era il facilitatore di Woz, nel senso migliore del termine; aveva una dote naturale per far sì che le cose venissero fatte. Infatti, in un quadro più generale, possiamo sicuramente dire che è Woz a essere in debito con Jobs. È infatti palese che Jobs avrebbe lasciato il segno nell'emergente industria dei microcomputer anche se non avesse mai incontrato Woz, tale era la sua determinazione. Per dirla chiaramente: Jobs avrebbe trovato sicuramente un altro Woz. Senza Jobs, invece, Woz si sarebbe eclissato (felicemente, badate bene!) in qualche oscuro laboratorio ingegneristico, a tessere in silenzio la sua miniaturizzata magia di silicio, per poi andare probabilmente in pensione con una manciata di oscuri brevetti a cui affidare il proprio nome per i posteri. 

Non sorprende quindi, dati i loro background e i loro interessi, che Woz e Jobs fossero entrambi membri del famoso Homebrew Computer Club; Woz fin dal primissimo incontro del 05 Marzo 1975. Là la gerarchia sociale era invertita: era Woz (con la sua profonda conoscenza dei computer) a essere la star, mentre Jobs era l'outsider leggermente a disagio.

Woz progettò la macchina che divenne l'Apple I per divertimento. Era praticamente unica all'interno dell'Homebrew Computer Club, perché usava la nuova CPU MOS 6502, invece dell'Intel 8080 dell'Altair originale, per la più che buona ragione che Woz non aveva tutti quei soldi da spendere e il 6502 costava 25 dollari contro i 175 dollari dell'8080. L'intero processo di creazione fu realizzato quasi collettivamente; Woz (che aveva il raro e prezioso dono di non avere un ego quando si trattava di progettazione) portava il suo “work-in-progress” ad ogni riunione bi-settimanale dell'Homebrew Computer Club, spiegando quel che aveva fatto, descrivendo dove incontrava dei problemi, e chiedendo consigli e critiche. Il risultato fu decisamente impressionante. La macchina poteva interfacciarsi con un televisore (ben altra cosa rispetto alle luci lampeggianti dell'Altair), utilizzava una tastiera (e non degli interruttori), e poteva far funzionare un semplice interprete BASIC programmato da Woz in persona. Woz ha dichiarato che: “ho progettato l'Apple I perché volevo darlo gratuitamente ad altre persone. Distribuii gli schemi per costruire il mio computer alla prima riunione a cui partecipai”.

Steve Jobs mise subito un freno a queste pericolose tendenze. Si intromise per convincere Woz a fare quello che da solo non avrebbe mai fatto: trasformare il suo progetto di hacker in un vero prodotto fornito da una vera società. Woz vendette quindi il suo prezioso calcolatore HP e Jobs il suo furgoncino Volkswagen (chi è che aveva detto che il bello degli stereotipi è che molto spesso sono veri?) per creare la Apple Computer; era il 01 Aprile 1976. L'Apple I non era un computer già assemblato come la “trinità del 1977”, ma era comunque un passo intermedio fra quelli e l'Altair. Invece che uno scatolone di chip sciolti, ti veniva consegnata una motherboard, finita e completamente saldata, da montare con il tuo case, la tua fonte di alimentazione, la tua tastiera e il tuo monitor. Il proprietario del The Byte Shop (un importante negozio di computer, fra i primi al mondo a essere aperto) ne volle comprare immediatamente 50. Il problema era che Jobs e Woz non avevano i soldi per comprare le parti necessarie per costruirli tutti. Nessun problema: Jobs impiegò il suo campo di distorsione della realtà per convincere un'azienda di elettrodomestici all'ingrosso a dare a questi due hippy diecimila dollari di hardware in cambio della promessa di pagarli entro un mese. Fu così che la Apple vendette 175 Apple I nel corso dell'anno successivo, ognuno dei quali assemblato nel garage dei genitori di Jobs, per mano di Jobs, di Woz, di un altro amico, e di un familiare o due.

E, mentre succedeva tutto questo, Woz progettò il suo capolavoro: l'Apple II.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto

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Sulle tracce di The Oregon Trail
In difesa del BASIC
A Caccia del Wumpus
L'Avventura di Crowther
TOPS-10 in a Box
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Tutto il TRaSh del TRS-80 - Parte 1
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

È ormai una convinzione comune, per essere stata diffusa dalle ricostruzioni romanzate tipo I Pirati di Silicon Valley e per essere stata rigurgitata da giornalisti svogliati di tutto il globo, che il personal computer sia stato inventato in un garage a Palo Alto da un affascinante filibustiere di nome Steve Jobs e dal suo compare Steve Wozniak (quest'ultimo forse un po' troppo eccentrico e nerd, ma pur sempre accettabile come personaggio di secondo piano). Considerato il suo ruolo e la sua personalità, non c'è da stupirsi che Jobs non abbia mai fatto niente per liberare il mondo da questo "mito di fondazione". In un certo senso è più deludente che non lo abbia fatto Wozniak, che dei due è quello con cui da sempre prenderei più volentieri una birra. Anzi, Woz [diminutivo di "Wozniak"; ndTraduttore] è perfino arrivato a scrivere nel sottotitolo della sua auto-biografia "Come Ho Inventato il Personal Computer", quando la verità dei fatti è che il leggendario Apple II non è stato né il primo personal computer completamente assemblato in vendita (quello fu il Commodore PET), né quello di maggior successo dagli albori dei personal computer (quello fu il Tandy / Radio Shack TRS-80 - l'oggetto di questo mio articolo). Certo la Apple può sicuramente vantarsi di aver prodotto il migliore computer di questo dinamico trio datato 1977, ma questa è tutta un'altra storia. 

(AGGIORNAMENTO: Nel corso delle mie ricerche ho rinvenuto dei nuovi fatti che intorbidiscono le acque di questa mia ricostruzione. È vero che la Commodore ha annunciare il primo PC "pronto all'uso", nella forma del PET, al Winter Consumer Electronics Show nel Gennaio del 1977, portandosi anche dietro un prototipo sostanzialmente funzionante - o, almeno, funzionante l'ultimo giorno della manifestazione). Tuttavia la Commodore non iniziò a spedire i PET definitivi ai clienti fino a Settembre 1977, quando gli Apple II erano già in consegna da almeno tre mesi. Per ciò possiamo affermare che la Apple è stata la prima a distribuire un PC "pronto all'uso", ma non la prima a svilupparne uno [Cosa ha fatto in tutto questo tempo la Commodore? Se non riuscite a immaginarlo, significa che non conoscete la Commodore...]. Nonostante questo, personalmente continuo a ritenere che il ruolo della Apple nei primi dieci anni dell'era dei PC sia, per quanto importante, ampiamente esagerato dalla sindrome del "vincitore che scrive la storia".)
 
I motivi di questa convinzione diffusa sulla storia dei PC non sono difficili da immaginare. Il fatto che la storia venga scritta dai vincitori potrà essere anche un luogo comune, ma non per questo è meno vero; e, con la Commodore morta e sepolta da 17 anni al momento in cui scrivo queste righe e con Radio Shack (o "RadioShack", come preferiscono essere chiamati oggi) che ha abbandonato la produzione di computer più o meno altrettanto tempo fa, chi siano i vincitori è abbastanza palese.
C'è anche da aggiungere che la storia dell'Apple Computer, di questi due impavidi visionari Americani che hanno inventato il futuro nel loro garage, è esattamente il tipo di storia che i media mainstream amano raccontare. Come può la Commodore (un ex-produttore di calcolatrici e di arredi per l'ufficio, guidata da un uomo irritante e avanti con gli anni) competere con i "due Steve"? Come potrebbe mai farlo la Tandy Corporation, conservatrice, noiosa, con un immagine da negozianti di bottega, proprietaria di una catena di elettrodomestici Radio Shack?

A vantaggio di chi non è americano o di chi si è perso questo pezzo della storia della vendita al dettaglio americana, cercherò di descrivere Radio Shack per come era fino a una dozzina di anni fa. Del resto tanto è passato dall'ultima volta che ho avuto a che fare con uno dei loro negozi; è del tutto possibile che il nuovo millennio, o il coraggioso passaggio da "Radio Shack" a "RadioShack", abbia cambiato tutto. Però ne dubito: Radio Shack mi ha sempre colpito come una di quelle istituzioni apparentemente eterne, come Montgomery Ward che è sempre stato solo ciò che era finché un giorno -puff!- è sparito del tutto. Devo invece ammettere con una certa sorpresa che Radio Shack invece è sempre in piedi nel 2011. Sembra appartenere a un altro tempo, ammuffito esemplare di usurata merce d'esposizione americana, inspiegabilmente ancora viva e vegeta. E, anche se in questo articolo mi accingo a prenderli un po' in giro, saperli ancora attivi in un certo qual modo mi fa veramente piacere.

Radio Shack aveva due tipi di clientela.

Il primo era lo zio Jerry, che lavorava in una miniera, che ogni fine settimana beveva una confezione da dodici di Bud, e che girava in una Ford Granada. Jerry faceva acquisti da Radio Shack per la stessa ragione per cui aveva comprato la Granada: un vago senso di dovere patriottico. E, proprio come la Granada, gli stereo e le televisioni che comprava da Radio Shack facevano sostanzialmente il loro dovere, anche se le manopole tendevano a staccarsi, la vernice a scolorarsi, e di quando in quando comparivano dei misteriosi fruscii che poi sparivano di lì a poco. Far funzionare queste cose era sempre un po' più complicato di quanto non sarebbe dovuto essere, e per quanto riguarda l'estetica... beh, diciamo che l'estetica non era una priorità di Radio Shack e tanto basti...

Poi c'era tuo cognato Don, agente immobiliare e inventore frustrato. Don, fra le tante riviste, era abbonato a Popular Electronics e a Radio-Electronics, e ne leggeva avidamente ogni numero dalla prima all'ultima pagina. Nel suo garage non c'era più spazio per le auto, pieno come era di attrezzatura da radioamatore, di ogni singola televisione che i vicini avevano gettato negli ultimi dieci anni (Don era certo che tutte quelle TV prima o poi sarebbero servite a qualcosa), e quella soda fountain fatta in casa che ancora non aveva spillato un singolo sorso bevibile di soda, ma che era già esplosa diverse volte in modo preoccupante. Quando Don entrava da Radio Shack, superava di corsa gli zii Jerry e gli espositori di elettronica di consumo con il marchio "Realistic", per fiondarsi nel retro del negozio dove c'erano i transistor, i diodi, i condensatori, e chissà che altro - un'area del negozio che era incomprensibile per chiunque altro, inclusi i poveri commessi confusi che bighellonavano nei locali del negozio. Presumo che questi commessi fossero pagati a percentuale, ma stranamente sembravano non esserne consapevoli e prevalentemente si limitavano a cercare di appioppare delle pile a tutti quelli che entravano in negozio, per qualche ragione nota soltanto ai dirigenti di Radio Shack.

Di quando in quando poteva capitare in negozio un esemplare diverso dalla solita fauna di Radio Shack; del resto i negozi erano tantissimi, letteralmente migliaia sparsi su tutto il territorio nazionale, e quindi c'era chi li sceglieva in automatico, fosse anche solo per comprare delle pile, soprattutto in quelle località dove le alternative erano -diciamo così- limitate. Considerata la passione dei commessi per le pile, uno si aspetterebbe che questi clienti venissero accolti a braccia aperte, ma non era così. Radio Shack aveva infatti una politica aziendale che quasi certamente li avrebbe fatti uscire dal negozio in preda alla frustrazione, spingendoli a non fermarsi mai più nel comodo negozio di Radio Shack del luogo, per andare invece altrove, da qualunque altra parte. 
Infatti, quando si arrivava alla cassa con il proprio pacchetto da 3 dollari di pile, il commesso fin qui apatico si rianimava, chiedendoci in preda all'eccitazione se eravamo già sulla mailing list. Ed era inutile rispondere speranzosi, allungando la banconota da 5 dollari: "No, grazie, vorrei solo comprare le pile". Il fatto  è che a quel punto il commesso aveva per i nostri soldi lo stesso interesse che provava nei confronti dei condensatori nel retro del negozio; l'unica cosa che gli interessava era inserire "nel sistema" noi e il nostro indirizzo, a qualunque costo. Solo dopo esserci riuscito (e farlo era una procedura laboriosa che spesso prevedeva un paio di false partenze e un lungo armeggiare con i cocciuti terminali...) si sarebbe interessato ai nostri soldi e a guadagnarsi la sua commissione su quel pacco di pile per cui eravamo entrati e che ci siamo presi da soli dallo scaffale. E tutto questo non era opzionale: o si forniva nome e indirizzo insieme ai soldi, oppure si poteva sloggiare e andare a fare acquisiti da qualche altra parte!

Considerata l'alta priorità che Radio Shack riponeva nell'acquisire queste informazioni, ci si aspetterebbe che poi la usassero come una risorsa preziosa. Stranamente non era così. In pieni anni '90 (ben dopo che le altre catene avevano messo in rete i loro sistemi) Radio Shack -il "technology store"- apparentemente non aveva ancora un database condiviso dei clienti. In ragione di ciò ogni volta che entravi in uno dei 237 negozi della tua città per comprare delle pile, dovevi sorbirti da capo l'intera procedura. Ma, cosa ancora più bizzarra, perfino all'interno del singolo negozio c'erano soltanto il 50% di probabilità che le informazioni che lasciavi fossero ancora lì al momento della tua visita successiva. A tutti gli effetti Radio Shack aveva fatto dello scocciare il cliente una forma d'arte. Tutto questo poteva essere sopportato solo da Jerry (perché era suo dovere "comprare americano") e da Don (perché solo lì poteva trovare quelle porcherie che gli interessavano).

 

 

Se prendiamo in considerazione tutti questi fattori, ci è chiaro il perché Radio Shack nel 1977 aveva un problema di immagine. Il che non è una cosa insolita per questa società: avere un problema di immagine è parte integrante di ciò che è Radio Shack, un elemento imprescindibile come i labirinti lo sono per Adventure. Radio Shack è sempre stato, e sempre sarà, l'anti-Apple Store per eccellenza, l'antitesi di tutto ciò che è "hipster cool".
Così, quando quell'anno decisero di mettere in vendita un loro computer, non poterono esserci dubbi su chi avesse ideato quell'aggeggio sgraziato ma adorabile che ne venne fuori.

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Articoli precedenti:
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AV 2x06 - Non è la prima mela

Titolo:
Non è la prima mela
Serie:
Archeologia Videoludica
Durata:
2h 2min
Pubblicato il:
8 aprile 2012
Download: AV 2x06 - mirror

I cinque elementi sono caduti in tentazione! Nel giardino ove l'Albero del Mana si staglia maestoso nella sua mistica magnificenza, hanno compiuto il gesto più rischioso e dissacrante, non curandosi delle possibili conseguenze. Hanno colto (l'occasione di parlare de) la Mela. No, non è la prima Mela, bensì la seconda, quella più gustosa e ricca di aneddoti ed accadimenti. Quei cinque debosciati di Archeologia Videoludica hanno profanato un antico tempio e messo a repentaglio Italian Podcast Network per raccontarvi la storia dell'Apple II!

Simone Pizzi, Peppe "Professor Jones" Scaletta, Roberto "Marcus Brody" Bertoni di Oldgamesitalia e il primo dei peccatori Marco "il Distruggitore" Gualdi sfidano quel tipo lassù nella stanza dei bottoni, Andrea "Vintage" Milana, conducendo una puntata sopra le righe e tutta da scoprire in occasione delle celebrazioni per il primo anno di Archeologia Videoludica e di IPN tutto.

Mettetevi comodi e divertitevi ascoltando gli sproloqui dei vostri eroi, con un pizzico di fanboysmo ma soprattutto tanta tanta passione, come quella che ci ha contraddistinto in questo lungo anno di AV. Ringraziandovi per il feedback ricevuto nell'ultima puntata canonica (la 2x05) vi invitiamo ad essere più sboccati e pungenti nel modo che riterrete più offensivo, oppure tirate in ballo gli amici di OGI nel topic ufficiale sul forum. Che la Forza s... no, che la pace sia con vo... uff... buon ascolto!

L'uovo di Colombo

Non serve l'ormai leggendario Tenente per capire che abbiamo rispolverato una delle rubriche più amate di sempre da tutti voi ascoltatori, ovvero... l'Uovo del Tempo! Tra invenzioni che hanno segnato il tempo la storia dell'umanità e improbabili miti da sfatare, accenneremo a ciò che accadde nel 1977, anno di nascita dell'Apple II.

Genesi di un capolavoro

Tratteggiando quel che era stato il predecessore, parliamo delle contorsioni mentali che hanno portato i fondatori di Apple (quelli veri, non quello smidollato di Ron Wayne) alla concezione del primo computer "integrato in ogni sua parte" di largo successo, senza nulla togliere al PET o al TRS-80 (conosciuti assieme come la Trinità del 1977). Cosa aveva in mente la buonanima di Steve Jobs? Riuscirono a procurarsi gli ingenti finanziamenti di cui avevano bisogno per la realizzazione della macchina? Quanto fu importante il marketing e l'immagine per il successo dell'Apple II? Ma soprattutto, perché cavolo il terzo fondatore di Apple fu così furbo da abbandonare un'azienda che l'avrebbe fatto straricco? Scopriamolo assieme grazie alle ricerche del Professore.

Un credo videoludico

Vedremo come Woz ingegnerizzò l'hardware del suo gioiellino con "qualcosa" di videogiocoso in mente, chi l'avrebbe mai detto! Da un personalissimo BASIC, passando per un'inedita possibilità espansiva, fino a giungere all'utilizzo dei colori (!). Ciò contribuì a renderla una potenziale macchina dei videogiochi. Ma fu realmente così? Ascoltiamo cosa ha da dirci il nostro studioso più tecnico, Marcus Brody! Segue una breve carrellata delle varie incarnazioni dell'Apple II, che diede luogo ad una vera e propria series che accompagnò la casa di Cupertino per quasi un ventennio.

Macedonia blasfema

Il Distruggitore è stato incaricato di svelare le magagne dei cloni di questa macchina. In un fruttilegio di nomi imbarazzanti, ecco prostrarsi ai nostri piedi tutta un'altra series di improbabili ed arraffazzonati doppioni. Esilaranti quanto effimeri. Fortunatamente, solo la Mela sopravviverà!

La moltiplicazione del chip e del grog

In Quel Bar su Mêlée Island ci inebriamo con i ringraziamenti ai nostri nuovi amici, un abbraccio a quelli vecchi e un saluto ai tanti contatti che si sono fatti vivi nell'ultima puntata followando il nostro account Twitter e seguendoci nella pagina Facebook. Grazie a tutti e... diffondete il Verbo spammando nei vostri social, moltiplicatevi!!

Brani in questo episodio

Double Dragon, 1st Level remix - Vintage (Andrea Milana)

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Archeologia videoludica 2x06: Non la prima mela

Quale regalo migliore per una buona Pasqua se non il nuovo, fantastico episodio di Archeologia Videoludica? Siamo dalle parti dell'Apple II, mitica macchina che vide una generazione di game designer farsi le ossa per proprorre i loro primi titoli.

All'interno di questo viaggio ripercorreremo così la sua genesi, i suoi punti di forza e quelli che sono state le vere innovazioni di una macchina che ha davvero fatto la storia.

Buona ascolto!

Link all'episodio 2x06
Il sito di Archeologia Videoludica
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