Il progetto originale di David Mullich era di scrivere un gioco ispirato a Il Prigioniero, ma non un adattamento diretto (una mossa abbastanza intelligente, considerando che la Edu-Ware non aveva i diritti sulla serie e certo non era nelle condizioni di poterli acquistare). Ma Steffin e Pederson (facendo sfoggio di quel modo di fare cavalleresco verso le altrui proprietà intellettuali che presto li avrebbe portati in giudizio per i giochi della serie Space) non solo insistettero affinché il gioco fosse chiamato proprio The Prisoner, ma volevano perfino usare il logo originale della serie. Comprensibilmente preoccupato, Mullich chiese loro almeno di contattare la ITC Entertainment. E così Steffin e Pederson chiamarono la ITC per chiederle -di tutte le cose- se potevano aprire un ristorante a tema The Prisoner. Quando la ITC dette il suo permesso, Steffin e Pederson riferirono a Mullich che avevano “il permesso”. Furono fortunati. In quel momento la ITC era impegnata a suicidarsi con due lungometraggi ideati in modo pessimo: Can’t Stop the Music , una “disco extravaganza” con i Village People, pubblicato proprio in concomitanza con i grandi movimenti contro le discoteche e Blitz nell'Oceano [titolo originale: Raise the Titanic, ndAncient], un ambizioso thriller che sforò talmente tanto il budget da far affermare al capo della ITC, Lew Grade, che sarebbe stato più facile abbassare l'Oceano Atlantico che sollevare il Titanic. Non solo entrambi i film furono dei grandi insuccessi di pubblico, ma entrambi ebbero l'onore di essere nominati per il primissimo Golden Raspberry Award per il Peggior Film, con Can’t Stop the Music che strappò il premio al suo compagno di scuderia per un soffio. In un tale scenario calamitoso, il saccheggio di una serie TV ormai vecchia di dieci anni da parte di una piccola e sconosciuta società nel campo dei giochi per computer non dovette sembrare una cosa troppo seria agli occhi della ITC. Sì, nel 1980 il panorama dei media era molto diverso da quello odierno...
“Risolto” quel problema, Mullich si mise al lavoro sulla progettazione e sulla programmazione. Creò completamente da solo l'intero gioco in “circa sei settimane”. Non sembra molto, ma ricordatevi che questo è lo stesso tizio che aveva creato e programmato da zero Network in tre giorni. The Prisoner era infatti di gran lunga il progetto più ambizioso e complesso su cui la Edu-Ware o Mullich avessero mai lavorato. Era composto da circa 30 programmi BASIC distinti, che vengono caricati in memoria all'occorrenza da una routine scritta in linguaggio macchina (la sola parte non scritta in BASIC dell'intera struttura).
Il conflitto all'interno della serie TV ruota tutto intorno alla domanda sul perché Numero 6 si sia dimesso dal servizio: le forze che gestiscono il Villaggio vogliono che lui riveli i motivi di questa sua scelta, mentre Numero 6 si rifiuta cocciutamente di farlo (ovviamente, se rispondere a questa domanda sia davvero lo scopo principale del Villaggio, oppure se loro vogliono solamente che lui riveli questa informazione supponendo che poi per loro sarà facile piegarlo, resta ancora oggi una domanda aperta). Tuttavia è molto difficile per un giocatore comunicare un'idea tanto astratta a un programma per computer; lo è oggi, figuriamoci su un Apple II con 48 K. È per questo che Mullich ha sostituito la motivazione dietro le dimissioni di Numero 6 con un “codice dimissioni” di 3 numeri, generato casualmente, che viene mostrato al giocatore una sola volta all'inizio del gioco.
RISERVATO Sotto troverà il suo codice dimissioni. Esso rappresenta il motivo per cui lei sta lasciando la società. Lo mandi a memoria, se lo scriva, ma per nessuna ragione lo riveli mai a nessuno.
CODICE DIMISSIONI: 943 |
Da qui in poi lo scopo dell'Isola sarà quello di far rivelare al giocatore questo codice, per caso o volutamente, mentre sarà lo scopo del giocatore quello di custodire tale segreto a ogni costo.
Avrete notato che mi sono riferito alla "Isola” e non al “Villaggio”. Forse nella speranza di avere una scusa un minimo plausibile, qualora i legali della ITC fossero venuti a bussare alla loro porta, Mullich inserì alcune di queste piccole variazioni. Anziché come Numero 6, il giocatore è noto soltanto come “#”, e l'Isola non è gestita dal Numero 2, ma dal “Custode”. Ma anche così non è che ci sia da sforzarsi molto per trovare la vera ispirazione del gioco: il giocatore vive, come ci si aspetterebbe, nell'Edificio 6 e il Custode nell'edificio 2. Frugando invece un po' nel codice si scopre che uno dei programmi che compongono il gioco si chiama “Village”; evidentemente Mullich aveva iniziato con quel nome e non si è mai preso la briga di cambiare i nomi interni dei programmi.
Tuttavia ci sono anche altre influenze in gioco. 1984 di George Orwell viene citato non meno della serie TV Il Prigioniero. I tre aforismi contraddittori dell'Oceania di Orwell (“Guerra è pace”, “Libertà è schiavitù”, “Ignoranza è forza”) appaiono spesso, da soli o in coppie. Del resto il romanzo era un'influenza importante anche per la serie TV (un cartello appeso nel Villaggio che recita “Le domande sono dei fardelli per gli altri; le risposte sono una prigione per noi stessi” potrebbe venire direttamente da Oceania) [il cartello appare a metà del primo episodio; ndAncient], ma qui il debito è ancora più esplicito. La pagina di Wikipedia del gioco, al momento in cui scrivo, afferma (senza citare alcuna fonte) una forte influenza di Das Schloß (Il Castello) di Kafka, ma di questo, personalmente, non ne sono del tutto convinto. E se la casa del giocatore sull'Isola è effettivamente chiamata il Castello, di certo ci sono state coincidenze del genere molto più sorprendenti nella storia della letteratura e dei videogiochi. Personalmente non percepisco nessun'altra citazione significativa di Kafka e, per quanto ne so, Mullich non lo ha mai citato come un'influenza sulla sua opera (ovviamente se sapete qualcosa di più sulla validità o non validità di questa affermazione su Kafka, rivelatecelo senza indugio nei commenti).
Che sia o non sia un omaggio a Kafka, il gioco vero e proprio inizia nel nostro Castello, che con nostro sommo dispiacere scopriamo essere un grosso labirinto. Ed è qui che ci viene subito presentata la natura ingannevole del gioco. Possiamo diligentemente trovare l'uscita dal labirinto, ma possiamo anche semplicemente premere il tasto ESC per ottenere lo stesso risultato (e, per dirla tutta, ESC dà dei risultati inaspettati in diverse aree dell'Isola, come viene velatamente suggerito in alcune occasioni). Che prendiamo la via facile o quella difficile, non possiamo uscire finché non rispondiamo alla domanda: “Chi sei tu?”. La risposta corretta è ovviamente “#”, ma qui troviamo il primo di molti tentativi del gioco di ingannarci, facendoci rivelare il codice dimissioni. Stavolta avviene in modo piuttosto trasparente, ma non temete... ben presto il gioco si farà ben più ingannevole!
Strutturalmente il gioco è costruito intorno ad un'ossatura centrale, la mappa dell'Isola, attraverso la quale il giocatore può recarsi nelle varie aree di gioco.
Su questa mappa ci sono 20 edifici numerati, ognuno dei quali ospita una diversa esperienza di gioco, realizzata tramite un mini-gioco a sé stante scritto in BASIC. Questi giochi compongono una significativa raccolta dei vari archetipi dei giochi BASIC della primissima era dei microcomputer e degli ultimi anni dei grandi computer istituzionali; gli stessi concept che in un universo alternativo sarebbero potuti apparire su un sistema HP-2000 o nel libro BASIC Computer Games. Oltre al labirinto dell'Edificio 6, abbiamo un paio di esercizi di simulazione di conversazione in stile ELIZA e un gioco reminiscenza del vecchio gioco di strategia agricola Hamurabi (anche se qui il ruolo del giocatore consiste nel gestire la quantità di energia destinata ai vari sistemi dell'Isola, piuttosto che occuparsi degli acri di terra e del raccolto).
A differenza dei loro amichevoli predecessori, questi giochi sono particolarmente spietati. E i loro messaggi sono sempre inquietanti. Per esempio, due degli screenshot qui sopra mostrano una citazione famosa di John Donne, che il gioco rigira in qualcosa di sinistro sullo stile degli slogan di 1984. Se vinciamo il gioco in stile Hamurabi otteniamo un orologio d'oro e un “luogo dove ritirarsi” (che è, ovviamente, l'Isola stessa): un'agghiacciante testimonianza sul destino di coloro che non sono più considerati economicamente utili per la società. Tutto questo si combina insieme per generare nel giocatore un costante senso di disagio e di paranoia. Le istruzioni dei singoli giochi sono spesso assenti e comunque non sono mai complete; le interfacce sono inutilmente discordanti fra loro. A volte, per esempio, possiamo muovere il nostro avatar con tasti che raffigurano le direzioni cardinali reali (“N,” “E,” “S,” “O”), altre volte invece dobbiamo usare le direzioni relative allo schermo di gioco (“SU”, “GIU'”; “SINISTRA”, DESTRA”). Ci sono inganni e omissioni ovunque, al punto che a volte si avverte la necessità di premere sistematicamente ogni tasto della tastiera in cerca di quei comandi di cui il gioco non ha perso tempo a parlarci, ma che magari rappresentano l'unico modo per vincere. Senza considerare poi che i giochi sono ingannevoli anche sotto altri aspetti.
Nello screenshot qui sotto ci viene detto di attraversare il fossato (rappresentato dal grande quadrato bianco) usando “ogni mezzo a nostra disposizione”. Il problema è che tutto quello che possiamo fare è muovere il nostro piccolo avatar (rappresentato, naturalmente, dal “#”): non c'è un comando per saltare, per costruire un ponte, niente. Che diamine fare?
Attraversa il fossato con qualunque mezzo a disposizione. Però non devi aggirarlo e non devi caderci dentro. |
Ebbene, se ci muoviamo sistematicamente in ogni quadretto a nostra disposizione, alla fine scopriamo una fune. A quel punto il gioco ci chiede: “Cosa vuoi fare con la fune?” Noi rispondiamo “Attraversa fossato”. Il gioco ci risponde: “Non credo”. E infatti provando ad attraversare continuiamo a cadere nel fossato e a essere riportati al Castello come pena. Ritorniamo e riproviamo. Stavolta scopriamo che, continuando a cercare, dopo aver trovato la fune, troviamo una “fascina di legna”. Ma non serve a niente, cadiamo di nuovo. Torniamo ancora una volta e troviamo un terzo oggetto, una “vecchia vasca da bagno rugginosa”. E noi cadiamo di nuovo nel fossato. Alla fine, al quarto oggetto, troviamo un “gommone gonfiabile” che farà al caso nostro.
Questo enigma è frustrante, ma il contenuto di altri edifici è addirittura incomprensibile. La biblioteca ci interroga sulle nostre letture preferite, per poi usare queste informazioni in chissà che modo per decidere se rivelarci un indizio vitale oppure bruciare un libro in nostro onore. Non sono ancora riuscito a comprendere come funzioni il suo algoritmo e forse proprio ciò è parte del messaggio che il gioco vuole trasmettere.
Il Nuovo Testamento Religioni del Mondo Quali preferisci? |
Altri edifici passano dall'incomprensibile all'inquietante. L'edificio 17 ospita la versione dell'Isola del (tristemente) famoso Esperimento di Milgram, nel quale ai soggetti dell'esperimento veniva ordinato da un'autorità di somministrare delle scosse elettriche ad un altra persona fino ad ucciderla e un numero sconvolgentemente alto di soggetti acconsentirono a farlo. Qui, se lo desideriamo, possiamo fare lo stesso.
Attraverso tutto ciò il gioco prova costantemente a farci rivelare il nostro codice dimissioni, con stratagemmi a volte ovvi, a volte subdoli. Il più subdolo di tutti è quello dell'Ospedale. Nel mezzo di un assurdo test della personalità ad associazione libera, di colpo veniamo riportati al BASIC con quello che sembrerebbe un messaggio d'errore.
Obbedienza Libertà Errore di sintassi in 943 |
La reazione naturale a tale messaggio è quella di digitare LIST LINE 943, per vedere di che problema si tratta. Se lo facciamo, però, abbiamo appena perso. Il numero 943 è infatti il nostro codice dimissioni e con un inganno ci hanno appena spinti a rivelarlo! Non c'è infatti mai stato alcun errore; siamo ancora all'interno del programma. Siamo ancora il Prigioniero.
Proprio come la serie TV, il gioco ci offre costantemente delle apparenti vie di fuga, per poi toglierci la terra sotto i piedi. In certe situazioni riusciamo a evadere dal complesso principale e ad avventurarci nei desolati dintorni. Queste sono le uniche occasioni in cui il gioco utilizza la modalità grafica hi-res dell'Apple II; tutte le altre schermate infatti sono realizzate utilizzato la grafica a caratteri in bassa risoluzione (peraltro assolutamente adatta al gioco – le rigide schermate in bianco e nero restituiscono un feeling quasi Costruttivista).
Se riusciamo a scansare i Rover (dei guardiani semi-senzienti, ispirati direttamente a quelli della serie TV) possiamo tentare di scappare attraverso una ferrovia dalla collocazione alquanto improbabile. Lo facciamo. Torniamo a casa. E a quel punto chiamiamo la “Società” per la quale lavoravamo.
Ci chiedono il nostro codice dimissioni e, quando ci rifiutiamo di darglielo, ci ritroviamo direttamente al punto di partenza. Questa intera sequenza è fin troppo diretta nel richiamare episodi della serie TV come “I rintocchi del Big Ben”, “Cento di questi giorni”, e “Una mente per due corpi”, in cui il Numero 6 sembra fare ritorno a casa sua, a Londra, per poi scoprire che la sua prigione l'ha seguito fin lì.
Questo tipo di tranelli ci fa sentire un po' come Charlie Brown alle prese con una stimolante partita a football con Lucy. E così, quando incontriamo quella che sembrerebbe un'organizzazione della resistenza chiamata la Confraternita, siamo portati ad aspettarci qualcosa di simile.
La Confraternita vive |
E del resto le domande che ci pongono quando li incontriamo non è che siano molto rassicuranti:
“Sei disposto a dare la vita, a commettere omicidio, a commettere atti di sabotaggio che potrebbero comportare la morte di persone innocenti, a ingannare, a manipolare, a ricattare, a distribuire droghe che creano dipendenza, il tutto per la causa della libertà?” |
Oltre ad illustrare come una società totalitaria riesce a corrompere perfino coloro che credono di combatterla, tali domande rispecchiano fin troppo da vicino le domande che la Confraternita di Orwell pone a Winston e Julia in 1984:
“Siete pronti a ingannare, a manipolare, a corrompere le menti dei bambini, a distribuire droghe che creano dipendenza, a incoraggiare la prostituzione, a disseminare malattie veneree – a fare qualunque cosa possa causare la demoralizzazione e l'indebolimento del Partito?” |
Quella Confraternita poi si rivela essere una trappola elaborata predisposta dai vertici del Partito per catturare gli aspiranti ribelli come Winston e Julia. A questo punto quindi non ci aspettiamo niente di meno.
Ma, con un certo stupore, la Confraternita del videogioco si rivela essere ciò che dice di essere. Il fatto che ci troviamo così inclini a dubitare di loro è una buona dimostrazione dell'effetto che il sospetto costante e l'incertezza in una società totalitaria hanno su coloro che potenzialmente potrebbero diventare membri di una resistenza; perfino coloro che hanno il coraggio e l'inclinazione per combattere sono impotenti a causa della mancanza di qualcuno di cui sentono di potersi fidare (e questa stessa idea è illustrata benissimo anche dalla serie TV in più occasioni). Se alla fine decidiamo di fidarci, possiamo svolgere alcune modeste missioni di sabotaggio e di pressione culturale. Per una di queste dobbiamo cambiare i titoli di un giornale locale.
Nessun governo dovrebbe essere privo di censori; e dove la stampa è libera, nessun altro lo sarà mai. - Thomas Jefferson |
Lo screenshot qui sopra mostra una delle migliori epifanie del gioco, un gradevole sollievo dal costante senso di impotenza e oppressione: dobbiamo inserire ogni carattere usando il suo codice ASCII.
Completare queste missioni non ci permette di fare niente di grandioso come sovvertire il regime dell'isola. Tuttavia esse ci fruttano dei punti e questo è molto importante, perché varie opzioni diventano disponibili e molti eventi avvengono, solo dopo che il nostro punteggio ha raggiunto un certo valore. Questo aggiunge un ulteriore strato di offuscamento all'esperienza di gioco, perché l'intero mondo ci appare in costante mutamento in base al variare del nostro punteggio. Per questo dobbiamo costantemente ritornare in ogni location e riprovare le medesime azioni per vedere se un punteggio più alto fa la differenza in ciò che credevamo di sapere. E questo punteggio non lo possiamo nemmeno utilizzare per valutare quanti progressi abbiamo fatto. Anche se il gioco segna il punteggio come “XX” di “XX”, il secondo valore cambia al cambiare del primo, senza nessuna apparente logica, in quello che è a tutti gli effetti l'ennesimo inganno psicologico a cui siamo sottoposti.
E allora come è possibile che qualcuno, che non sia un masochista con la pazienza di un santo, possa finire questa cosa? La risposta è: barando. La chiave sta nel fatto che tutto il gioco è scritto in BASIC. Possiamo spulciare tutti i singoli programmi per capire cosa succede in ognuno di essi, deducendo in questo modo la strada per la vittoria. Se siamo impazienti possiamo perfino cambiare alcuni dei programmi per farci dare un punteggio più alto o per rendere le cose più facili in qualche altro modo. Del resto, coinvolgendoci in una vera e propria guerriglia psicologica, è il gioco stesso a incoraggiarci a violare le regole anche dalla nostra parte del campo. Non sono certo il primo ad osservare che “barare” in questo caso non sembra sbagliato, ma anzi sembra perfettamente in linea con lo spirito del gioco. Del resto Numero 6 non è mai arrivato da nessuna parte comportandosi con onore nei confronti di coloro che lo opprimevano; ha ingannato e mentito e manipolato, proprio come loro, e noi lo amiamo esattamente per questo. Perché qui dovrebbe essere diverso? Ignorare le presunte regole e iniziare a frugare nel codice porta con sé un piccolo brivido. Non so se Mullich avesse ideato The Prisoner proprio con questo scopo, ma di certo nella pratica il tutto funziona, eccome!
Quale sia la strada con cui ci arriviamo, alla fine vinciamo il gioco, visitando il Custode e rivelandogli che “l'Isola è solo un gioco per computer” (è d'obbligo precisare che prima di allora non abbiamo un punteggio abbastanza alto per essere “pronti per tale rivelazione”, contraddicendo quindi quanto afferma Mullich nell'intervista a Tea Leaves, secondo cui sarebbe possibile vincere il gioco già all'inizio, limitandosi ad andare dal Custode per fargli tale rivelazione). Con questa nuova consapevolezza alle spalle, possiamo staccare il computer e scappare.
NESSUN UOMO È UN'ISOLA
Nota del produttore: per staccare la spina, premere ESC una volta, premere D una volta, premere → quattro volte, e poi premere INVIO. |
E dopo un ultimo, poco convinto, tentativo di strapparci il nostro codice dimissioni, il gioco ci libera.
Libertà!
Inserisci il tuo codice dimissioni per calcolare il tuo punteggio finale: |
La verità ti ha reso libero. Sei fuggito dal tuo Apple e ora sei tu al comando. Perché non sei stato sempre tu al comando, maestro? Vincere è perdere |
Questo abbattimento finale della quarta parete è decisamente brillante. Proprio come coloro che affermano che in realtà Numero 6 sia solo il prigioniero di se stesso (come rivelato dallo smascheramento di Numero 1 nel corso dell'ultimo episodio), anche noi abbiamo volontariamente scelto di spendere il nostro tempo all'interno dell'incubo distopico che è questo gioco per computer. In ogni momento saremmo potuti “fuggire” semplicemente investendo diversamente il nostro tempo. “Vincere è perdere” ci dice il gioco col suo ultimo messaggio, descrivendo bene la sensazione che tutti i giocatori conoscono, quella di lottare per giorni o settimane con un gioco, desiderando la vittoria finale, solo per poi malinconicamente realizzare che a quel punto... tutto è finito. Hai davvero vinto? Il Numero 6 è davvero scappato?
The Prisoner è violento fino in fondo, difficile in modo sconvolgente, ma c'è qualcosa di estetico nella sua crudeltà; un qualcosa che è invece assente negli altri primissimi giochi d'avventura. Se gli errori di design di Scott Adams e Roberta Williams sono quelli di due game designer inesperti che lavorano in un nuovo medium con una tecnologia primitiva, gli errori di The Prisoner hanno un preciso scopo artistico. La prima opera del genere prodotta dalla nascente industria dei videogiochi, una dimostrazione di ciò per cui sarebbe potuto essere usato questo nuovo medium, se non addirittura (mi spingo a dire) una lotta per l'affermazione dell'Arte. Come gran parte dell'arte concettuale, The Prisoner non accetta compromessi, e non è certo un titolo che può essere distrattamente consigliato come “un gioco divertente”, ma è comunque assolutamente affascinante nell'impegno con cui persegue la sua causa. Il suo approccio, quello di essere una specie di videogioco olistico che rende la sua interfaccia, il suo codice, e perfino il fatto che l'esperienza di gioco venga vissuta su un computer Apple II, parte dell'esperienza ludica stessa (invece che dei meri percorsi alternativi all'interno della stessa) non è stato praticamente mai ripetuto. Sui sistemi moderni, infinitamente più complessi, ma con utenti meno abili tecnologicamente, ciò probabilmente non sarebbe neppure possibile.
Per questo The Prisoner ha un grande valore storico, è un argomento affascinante di cui parlare ed è stata un'opera tremendamente coraggiosa da parte di Mullich e della Edu-Ware... ma, no, non sono sicuro di potervelo raccomandare. Oltre alle solite sfide che i giochi della sua era presentano al giocatore moderno, per essere portato a termine esso richiede o la pazienza di Giobbe, oppure un buon bagaglio di obsolete conoscenze tecniche (o entrambe le cose). Se volete fare un esperimento, dovete essere consapevoli che il gioco scrive dati sul disco mentre giocate: quindi la maggior parte delle immagini su internet contengono delle partite in corso. Se volete una copia pulita con cui iniziare sul vostro Apple II o su un emulatore, ve ne ho preparata una qui. Lo zip contiene anche la rivista 1983 SoftSide Selections con le istruzioni per giocare. (The Prisoner fu ripubblicato sul dischetto della rivista SoftSide dopo che la pubblicazione del migliorato The Prisoner II rese sconveniente per la Edu-Ware venderlo direttamente).
Alla prossima!
The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto
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Con la Guerra Fredda che minacciava sempre più frequentemente di tramutarsi in una Terza Guerra Mondiale, le storie di spionaggio era molto in voga negli anni '60. C'erano i romanzi e i film di James Bond, che oggi tutti ricordiamo, ma anche Organizzazione U.N.C.L.E., Le Spie, La Spia Che Venne dal Freddo, la canzone “Secret Agent Man”, e ovviamente Get Smart, che li prendeva tutti per il culo. Alla televisione inglese c'era il programma della ITC Entertainment, Gioco Pericoloso, in cui, fra il 1960 e il 1966, (in mezzo alla solita profusione di gadget, di incerte alleanze, e di trame convulse) Patrick McGoohan salvò per 86 volte il mondo libero nel ruolo della super spia John Drake. Ma poi, proprio mentre Gioco Pericoloso si stava ormai affermando anche nel Nord America col nome di Secret Agent e mentre la serie stava completando il suo passaggio alle trasmissioni a colori, McGoohan decise che ne aveva avuto abbastanza. Staccò così la spina dopo due soli episodi a colori, che avrebbero dovuto segnare l'inizio di una nuova e più opulenta era per la serie, proponendo a Lew Grade (il capo della ITC) una nuova serie che la rimpiazzasse e in cui tutti i membri della produzione attuale potevano essere facilmente trasferiti. Quell'idea divenne The Prisoner [Il Prigioniero, in Italia; ndAncient], una serie di 17 episodi andati in onda per la prima volta sulla televisione Britannica fra il 1967 e il 1968.
Nel primo episodio quella che sembra essere una spia (anche stavolta interpretata da McGoohan), decide di colpo di ritirarsi dal servizio, rifiutandosi di dare qualunque spiegazione ai suoi superiori. Al suo ritorno a casa viene addormentato con un gas e si risveglia in un posto noto solamente come Il Villaggio. All'apparenza si tratta di un luogo idilliaco, un resort sul mare dal panorama mozzafiato, dall'aria pulita e dagli abitanti sorridenti. Tuttavia a tali abitanti non è concesso di andarsene e sono stati oltretutto privati delle loro identità. A ogni persona sull'isola è stato assegnato un numero al posto del proprio vecchio nome, e tutti sono noti solo tramite tale identificativo: il nostro eroe per esempio, da quel momento in poi, sarà conosciuto solo come Numero 6. Scoprirà presto che il Villaggio è un luogo sinistro di trucchi e di torture mentali (e talvolta anche fisiche) dove ogni abitante vive nella paranoia generata da una costante sorveglianza elettronica da parte del capo di quel luogo, una persona nota come Numero 2 (la domanda su chi sia Numero 1 è una delle costanti ossessioni della serie e viene svelata in modo ambiguo solo nell'ultimo episodio). In modo piuttosto insolito, tutto un cast di Numeri 2 si sussegue a rotazione per i 17 episodi, impersonato prevalentemente da personaggi fastidiosi e miseri, che simboleggiano la banalità del male. Lo scopo di tutti loro è quello di piegare Numero 6, convincendolo a rivelare perché ha scelto di rassegnare le proprie dimissioni. Il grosso degli episodi ruota intorno alla sequenza di trucchi che essi impiegano per provare a raggiungere il loro scopo, per poi essere sempre respinti dall'impenetrabile resistenza di Numero 6.
Due sono le persone principalmente responsabili dell'ideazione de Il Prigioniero: McGoohan in persona (che oltre a recitare ne è stato anche il produttore esecutivo, ne ha scritto numerosi copioni e ne ha diretto alcuni episodi) e poi George Markstein, che si è occupato degli script della maggior parte della serie. Proprio come McGoohan, anche Markstein era un esule di Gioco Pericoloso. Il Prigioniero ha preso forma in gran parte dalla tensione creatasi fra le idee di questi due uomini. Markstein la vedeva sostanzialmente come una continuazione di Gioco Pericoloso: una storia confusa ma in ultimo sensata e comprensibile. E infatti egli ha sempre assunto tacitamente che Numero 6, a cui non viene mai dato altro nome, sia in realtà il John Drake di Gioco Pericoloso, alle prese con un'altra inaspettata fase della sua “carriera”. McGoohan invece vedeva la serie come una storia allegorica della lotta dell'Uomo Qualunque contro la società moderna. La tensione nell'arte non è sempre una cosa negativa e in questo caso ha donato a Il Prigioniero la possibilità di esplorare le idee più esaltanti di McGoohan senza però sganciarsi completamente dalla realtà. Però, dopo 13 episodi, il conflitto latente fra i due uomini esplose, e Markstein lasciò la produzione dopo un litigio così acrimonioso che i due uomini non si parlarono mai più e non parlarono mai più dell'altro, se non in tono di assoluto disprezzo (Markstein conservò anche un ampio disprezzo per la serie in sé, definendo l'adorazione che continua a ricevere un caso di “vestiti nuovi dell'imperatore” e definendo patetici i fan più sfegatati). Questa rottura permise a McGoohan di concludere la serie con un ultimo episodio che abbandona ogni contatto con la realtà e che si rivela essere, in base al vostro punto di vista, o eccezionale o un casino senza senso (o, magari, entrambe le cose insieme).
Quando non si perdono nel tentativo di tracciare un arco narrativo coerente e di individuare un ordine più consono in cui guardare gli episodi di quella che è una serie molto caotica e tutt'altro che “seriale”, i dibattiti fra i fan de Il Prigioniero possono spingersi in inebrianti territori intellettuali. Il fascino intramontabile della serie deriva dalle domande che pone sui diritti degli individui e sui bisogni della società; domande a cui, per scelta, non risponde mai in modo definitivo. Nel primo episodio Numero 6 annuncia: “Non sarò convinto, archiviato, timbrato, indicizzato, riassunto, resocontato, né numerato. La mia vita appartiene solo a me”. Anche se la serie sembra chiederci implicitamente di considerare Numero 6 come un eroe, un collettivista convinto potrebbe considerarlo un ritratto ironico, perché da quel punto di vista Numero 6 ci appare come un egomaniaco egoista, che si rifiuta di rispettare le necessarie restrizioni della società civile. Al tempo stesso i seguaci della filosofia di Aym Rand possono vedere Numero 6 come il loro modello di paragone dell'individualismo egoistico. E poi ci sono milioni di altre interpretazioni fra questi due estremi... e probabilmente altrettanti anche al di là di essi.
Per sua stessa natura Il Prigioniero sembra incoraggiare i fan a trovare ispirazioni, anche le più improbabili. Per fare un esempio: negli anni sono stati organizzati un certo numero di corsi universitari dedicati alla serie, in cui si affermava comunemente che Il Prigioniero era pesantemente ispirato a Franz Kafka. Certo il Villaggio e tutta l'ambientazione de Il Prigioniero assomigliano moltissimo a Das Schloß (Il Castello) e l'assurda pantomima del processo nell'episodio “La Danza dei Morti”, nonché il finale della serie, sembrano avere Der Prozeß (Il Processo) stampato sopra. In un'intervista agli inizi degli anni '90, però, McGoohan mise definitivamente una pietra sopra queste “palesi” ispirazioni, affermando: “non ho mai letto Kafka”. Questo non significa che Kafka non viva da qualche parte dentro Il Prigioniero, solo che vi è arrivato attraverso la successive, più concrete e palesemente politiche, versioni delle distopie da letteratura dell'assurdo di 1984 di George Orwell e de Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley (ed entrambe sono infatti riconosciute come ispirazioni ufficiali da McGoohan) e attraverso certi singoli copioni non scritti direttamente da McGoohan. Perfine le scene del processo di cui sopra potrebbero essere ispirate alla versione cinematografica di Orson Welles de Il Processo, piuttosto che aalla fonte originale di Kafka.
Alcuni poi si sono spinti ancora oltre nella loro ricerca di ciò che ha ispirato la serie. C'è un grande momento in una delle apparizioni televisive di McGoohan in cui uno studente gli chiede se Angelo (un nano maggiordomo al servizio dei vari Numeri 2, che è l'unico personaggio, oltre a Numero 6, ad apparire in tutti gli episodi) fosse ispirato al nano che accompagna Una e il Cavaliere dalla Croce Rossa ne La Regina delle Fate di Spenser; il povero McGoohan, che palesemente non aveva idea di ciò di cui stesse parlando il ragazzo, non sa bene cosa rispondere. E lo stesso vale per la maggior parte delle opere che vengono comunemente citate come ispirazione della serie. Sembra che la gente trovi ne Il Prigioniero ciò che vuole vederci: il che non è necessariamente un male. Del resto non c'è dubbio che anche le opere dello stesso Kafka avessero questa stessa qualità.
C'è però una differenza immediatamente evidente fra Il Prigioniero e le opere di Kafka, Orwell, e Huxley: Numero 6 non si piega mai. Anche se molti episodi terminano in modo infausto, o con un rovesciamento dello status quo, dopo una fuga quasi riuscita, lui non si piega mai e non dice mai a Numero 2 quel che lui vorrebbe sapere. Capita anche che faccia saltare il tavolo, vincendo una mano e umiliando al contempo colui che vorrebbe opprimerlo. In “Dormire, Forse Sognare” cerca di strappargli la verità iniettandogli una droga speciale per controllare i suoi sogni, ma Numero 6 la sostituisce con dell'acqua e lo costringe a una elaborata e inutile ricerca nella terra dei sogni; ne “L'Incudine e il Martello” (una vera citazione di Goethe, per il diletto di tutti gli studenti del mondo) Numero 6 dice a un Numero 2 particolarmente odioso che “la pagherà”, dopo che una donna riesce a sfuggire alle torture di Numero 2 solo suicidandosi, e poi infatti mantiene la promessa; nel penultimo episodio Numero 2 e Numero 6 si affrontano in una lunga battaglia psicologica che termina con un Numero 2 piegato, che trema per terra e segna l'apparente vittoria di Numero 6 sulle forze del Villaggio. Non può non balzare all'occhio il contrasto con i fragili protagonisti di Kafka, Orwell, o Huxley, tutti sconfitti prima ancora di iniziare a lottare.
Si potrebbe legittimamente controbattere che questa differenza è dettata dalla natura di spettacolo televisivo de Il Prigioniero e dalla realtà economica, con i quali doveva fare i conti; del resto la serie era già impegnativa di suo, senza dover chiedere agli spettatori di abbracciare il nichilistico piacere di vedere l'eroe venir sconfitto e disumanizzato all'infinito, settimana dopo settimana. Tuttavia, secondo me, qui c'è dell'altro. McGoohan si è sempre cocciutamente rifiutato di dire “qual è il significato”, limitandosi ad affermare che la serie è un'allegoria; tuttavia possiamo trovare degli indizi (per quanto ciò sarebbe assolutamente contrario al New Criticism) nella sua biografia e in ciò in cui lui credeva.
Per essere il creatore di una serie TV che è stata percepita come il simbolo degli allucinati anni '60, McGoohan in realtà era un po'... moralista. Si dice che avesse rifiutato il ruolo di James Bond, perché non gli piacevano i modi femminili e la mancanza di principi di 007 e anche interpretando Gioco Pericoloso fu il primo e più meticoloso censore della serie. Continuò così anche ne Il Prigioniero, dove non si è mai esibito in un singolo bacio su schermo e dove (a parte il “Western pastiche” de "Lo Straniero") non ha mai usato armi da sparo. Ha sempre ripetuto con insistenza che Il Prigioniero era pensato per essere un passatempo divertente e orientato alle famiglie (un'affermazione che mi è sempre sembrata strana; ci sono tanti modi per descrivere Il Prigioniero, ma “orientato alle famiglie” non mi è mai sembrato uno di questi). Infatti per tutta la sua vita McGoohan è stato un Cattolico devoto. Qualunque cosa pensiate della sua religiosità, non si può che ammirare l'uomo per il modo in cui si è sempre rigorosamente attenuto alla sua fede, fino al punto di affondare la sua potenziale carriera di 007 di Hollywood. Semplicemente McGoohan non voleva baciare nessun altro che non fosse sua moglie, sia fuori che dentro il grande schermo; come criticare una persona così? Di certo spicca come un ottimo esempio di uomo religioso che pratica anziché predicare.
Includere nella scena il Cattolicesimo di McGoohan ci porta in nuovi scenari interessanti. Forse possiamo trovare ne Il Prigioniero un argomento a favore dell'ineffabilità umana, a favore dell'inconoscibilità ultima dell'anima (uso questo termine, in mancanza di uno migliore). Rappresenta cioè il tentativo di respingere coloro che definiscono la consapevolezza come una raccolta di processi fisici da catalogare e comprendere – il tentativo di respingere, per esempio, le idee di B.F. Skinner, della filosofia del Comportamentismo (di cui ho brevemente parlato un paio di post fa). Nell'episodio “Il Sosia”, Numero 2 costruisce implicitamente uno strumento per mettere alla prova l'affermazione di Skinner secondo cui l'identità è interamente un costrutto sociale. Introduce una copia perfetta di Numero 6 e riferisce a Numero 6 che quella copia è il suo vero sé stesso, circondandolo di prove che sembrano confermarlo. Arriva perfino a utilizzare un elettroshock per cambiare la sua manualità, lasciando al sosia invece la possibilità di continuare a usare la mano corretta. Eppure, in una vittoria della Natura sulla Natura, Numero 6 resta aggrappato al suo vero io e alla fine la spunta, sconfiggendo su tutta la linea Numero 2 e il suo amico sosia. In un altro episodio, “Il Generale”, viene invece lanciato un attacco all'approccio di Skinner all'educazione. Il Villaggio ha istituito un programma chiamato “Apprendimento Veloce”, in cui materie come la storia vengono ridotte a una raccolta di dati e di fatti, che vengono quindi inseriti nella testa degli abitanti con “Lezioni di 15 Secondi”, che sembrano basarsi su una sorta di ipnosi. Dopodiché gli abitanti del villaggio se ne vanno in giro a interrogarsi a vicenda, come automi, con domande che hanno una singola risposta, una singola interpretazione corretta. Sfumature, dibattito e perfino il pensiero sono stati eviscerati. Il finale dell'episodio, nel quale Numero 6 distrugge il computer alla radice del programma in pieno stile Capitano Kirk in un esplosione di fiamme e fumo e la mistica domanda “Perché?”, è debole, ma il messaggio è forte.
Questo, almeno, è ciò che Il Prigioniero significa per me. Prima di tornare ai videogiochi, però, voglio fare un appunto sulle qualità formali, spesso trascurate, della serie. Anche se le scene d'azione e gli effetti speciali sono un po' scadenti e la recitazione è un po' incerta, c'è tuttavia una certa audacia nel modo in cui la serie si presenta; un'audacia che io trovo eccitante, anche (e, forse, soprattutto) negli episodi che non contribuiscono molto ai temi della serie. Ad esempio “Cento di Questi Giorni” non presenta una singola parola di dialogo in inglese almeno fino alla metà dell'episodio. “Lo Straniero” inserisce invece Numero 6 in un Western e lo fa credendoci fino in fondo, arrivando addirittura a rimpiazzare i titoli d'apertura; solo negli ultimi dieci minuti veniamo riportarti nella familiare ambientazione del Villaggio. Mi è perfino difficile immaginare come deve essersi sentito lo spettatore del 1967 che aveva messo Il Prigioniero per poi ritrovarsi a guardare un Western dove il protagonista era lo stesso tizio che interpretava Numero 6. E poi c'è quell'ultimo episodio, delineato da McGoohan in un fine settimana e poi improvvisato a partire da lì. È un tumulto di immagini folli, con un Numero 1 (su cui a lungo si era speculato) che, dietro la maschera di uno scimmione, si rivela essere un Numero 6 che ride sonoramente, con un furioso scontro a fuoco sulle note di “All You Need is Love” dei Beatles, e con gran parte del Villaggio che viene lanciato nello spazio su un razzo, mentre Numero 6 danza “Dry Bones” sull'autostrada A20 di Londra. L'ultimo terzo dell'episodio è nuovamente privo di dialoghi, stavolta perché nessuno aveva avuto tempo di scriverli. Io la penso in gran parte come quelli che dicono che non c'è il minimo senso, ma... cielo se lo adoro! Tutto pulsa dell'ultima cosa che ti aspetteresti di trovare in uno scenario cupo come quello de Il Prigioniero: la gioia estemporanea di fare arte. E quando tutto è finito, rimane la meraviglia di pensare che qualcosa di così anticonvenzionale è andato in onda in televisione in prima serata.
Questo è un assaggio del materiale con cui David Mullich ha dovuto lavorare per realizzare una versione per computer de Il Prigioniero. La prossima volta vedremo come se l'è cavata.
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Nei primissimi giorni dei microcomputer, ogni grande città aveva un negozio che non solo vendeva hardware e software, ma che fungeva da punto di incontro per gli appassionati. Il ruolo che The Byte Shop giocò nella Silicon Valley e che The Computer Emporium giocò in Des Moines fu assunto a Los Angeles da Rainbow Computing. David Gordon (fondatore della Programma International) e Ken Williams avevano entrambi acquistato lì il loro primo Apple II ed erano diventati subito clienti abituali. Sherwin Steffin della Edu-Ware era un altro cliente fisso. Anzi, era qualcosa di più di un cliente: aveva infatti stipulato un accordo con Gene Sprouse (il proprietario), secondo cui Sprouse doveva fornire alla Edu-Ware un secondo sistema Apple II per il suo socio Steve Pederson, mentre Sprouse avrebbe avuto a prezzo di costo il primo gioco della Edu-Ware, Space.
Progettato e programmato - come tutti i primi sforzi della Edu-Ware - da Steffin e Pederson in persona, Space era un gioco di ruolo per computer a tema fantascientifico, il primo di una serie di giochi “veri e propri”, che la Edu-Ware aveva battezzato Interactive Fantasies per distinguerli dai loro prodotti didattici. Il giocatore genera un personaggio usando un modulo e poi (proprio come avviene in Eamon) lo importa in uno scenario per giocarci e (se sopravvive) lo esporta di nuovo per poi poterlo utilizzare in altri scenari. Ideato come il primo di una serie, Space I presentava cinque scenari oltre al generatore di personaggi. La sua palese ispirazione (dolorosamente palese, visto che in seguito la Edu-Ware sarebbe stata citata in giudizio per questo) era il gioco di ruolo cartaceo Traveller (1977) del Game Designers’ Workshop, il primo gioco di ruolo fantascientifico di lungo corso, nonché uno dei primi a essere pubblicato da un distributore che non fosse la TSR.
Un aspetto unico di Traveller è il suo dettagliatissimo sistema di generazione del personaggio. Anziché limitarsi a tirare delle statistiche, scegliere una classe e qualche incantesimo, comprare dell'equipaggiamento, per poi gettarsi all'avventura come avviene in Dungeons and Dragons, in Traveller la creazione del personaggio è un vero e proprio sotto-gioco di per sé: una specie di GdR dentro il GdR, seppur di un tipo che si svolge a un livello molto astratto. Il giocatore non crea solo delle statistiche vitali per il suo avatar, ma anche un'intera storia, che segue tutta la sua carriera nella milizia interstellare attraverso i suoi incarichi ufficiali. Ogni incarico porta abilità ed esperienza, ma anche età, che dopo un po' inizierà ad avere i suoi effetti debilitanti. Il giocatore deve così bilanciare l'esperienza con l'età, decidendo quando è il momento opportuno per abbandonare il servizio militare e iniziare la propria carriera d'avventuriero. Occupando più di 20 pagine del manuale originale, la creazione del personaggio era così dettagliata e appassionante che alcuni iniziarono a creare dei personaggi solo per il gusto di farlo.
Space può essere descritto non tanto come un adattamento di Traveller nel suo insieme, ma come un adattamento del suo sistema di generazione del personaggio. Tuttavia, anche una volta terminato il processo di creazione in sé, i singoli scenari si volgono a un insolito livello di astrattezza, facendoli apparire come una sorta di continuazione di tale processo. Se, come taluni affermano, l'essenza dei giochi di ruolo su computer è la creazione del personaggio, allora Space è uno degli esempi più puri mai esistiti.
Tuttavia Steffin e Pederson non poterono esprimersi al meglio in Space, né potevano esprimere al meglio molte altre loro idee, a causa della mancanza di un'istruzione formale nella programmazione e delle relative abilità. Quindi, quando alla Rainbow incontrarono un giovane programmatore dotato delle capacità tecniche che a loro mancavano e con una testa piena di idee, lo accolsero come la manna dal cielo. Il suo nome era David Mullich.
Mullich era arrivato ai computer per una strada piuttosto atipica. Da piccolo non era infatti rimasto affascinato dalla matematica e dalla scienza, come accadeva alla maggior parte degli hacker; come si addice a un ragazzo cresciuto a Los Angeles, Mullich era un appassionato di teatro e di film. Col sogno di diventare regista, aveva valutato seriamente di indirizzare i suoi studi universitari verso quel mondo, ma cambiò idea quando arrivò a Cal State Northridge e vide “centinaia di altri studenti che avevano la stessa ambizione”. Guardandosi in giro in cerca di un'alternativa, Mullich provò un corso di informatica e si innamorò dei computer e della programmazione. In breve si ritrovò laureato in informatica: un bambino con vocazioni artistiche diventato un hacker. Accadde che il suo professore del corso di COBOL fosse Russ Sprouse, il fratello di Gene, che assunse Mullich per il suo primo lavoro come programmatore e che in seguito lo fece assumere come dipendente regolare alla Rainbow.
Steffin e Pederson avevano inizialmente assunto Mullich (che all'epoca doveva ancora terminare l'università) come lavoratore part-time. Fu con tale contratto di lavoro che Mullich programmò del software didattico, ma scrisse anche un secondo pacchetto di scenari per Space, oltre ai giochi originali di Windfall e Network. È giusto precisare che non si limitò a programmare questi ultimi due, ma li ideò e progettò da zero in prima persona, e anche in tempi rapidissimi. Network, ad esempio, nacque quando Steffin chiamò Mullich e gli disse che gli serviva un nuovo gioco per una mostra commerciale che si sarebbe tenuta la settimana dopo. Mullich progettò e programmò Network in tre giorni precisi.
Appena Mullich ebbe terminato l'università nel 1980, si unì a Steffin, Pederson, e al direttore commerciale Mike Leiberman alla Edu-Ware come Dipendente n° 4. Lì iniziò a lavorare sul progetto più ambizioso che avesse mai affrontato: un videogioco basato sul celebre telefilm Britannico The Prisoner.
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Nel 1978 il Minnesota Educational Consortium (MECC), la casa di Don Rawitsch e del suo The Oregon Trail, era all'avanguardia nell'uso dei computer a scopi educativi: tanto è vero che, prima che il mondo delle aziende o il grande pubblico si accorgesse di ciò che stava accadendo, iniziarono a valutare come portare i microcomputer nelle aule del Minnesota, al fianco delle telescriventi, dei “dumb terminals” e dei grandi sistemi in time-sharing che all'epoca erano all'ordine del giorno. Fu così che il MECC si recò dai grandi produttori di microcomputer con una gara di appalto. Nella lista c'era ovviamente anche Radio Shack, che rispose col suo solito stile disinteressato.
Alcune di queste compagnie, e in particolare Radio Shack, erano tutt'altro che innamorate delle procedure di appalto e la ritennero una cosa innaturale (in particolare le regole di offerta e quelle di accesso alla gara) e non furono troppo meticolosi nel rispondere. Dicemmo a Radio Shack: “Dovete comprendere che, se non ci rispondente nel modo giusto, noi non possiamo accettare la vostra offerta”, ma loro non furono disposti ad adeguarsi. Del resto le cose per loro andavano a gonfie vele e stavano vendendo i TRS-80 a più non posso. |
Anche se i più all'interno dell'amministrazione del MECC avrebbero preferito avere a che fare con la grande e stabile Radio Shack, la minuscola Apple presentò un'offerta aggressiva ed entusiasta, e la spuntò. Il MECC ordinò 500 Apple II; un ordine gigantesco in un anno in cui la Apple avrebbe venduto in tutto solo 7.600 macchine. Bisogna però precisare che la Apple si era aggiudicata l'asta a un prezzo talmente scontato che, probabilmente, ci guadagnò poco o niente. Ma questo dettaglio era del tutto irrilevante. In una leggendaria carriera piena di scaltre scelte di marketing, Steve Jobs non ne ha mai fatte di più scaltre di questa.
Non solo il MECC iniziò a portare gli Apple nelle classi del Minnesota, ma iniziò anche a convertirvi la sua gigantesca libreria di programmi educativi scritti in BASIC. Fermiamoci quindi un attimo a riflettere su cosa potesse significare questo passaggio. Il MECC era già noto in tutta la nazione come il leader indiscusso nell'educazione tramite computer; era l'esempio che tutte le altre istituzioni didattiche (più conservatrici e con meno fondi a disposizione) tendevano a seguire in costante ritardo. E così, quando tutte queste istituzioni iniziarono a pensare ai microcomputer per le loro aule, si chiesero inevitabilmente che cosa stesse usando il MECC: l'Apple II. E quando valutarono il software da adottare, ancora una volta non poterono che prendere in considerazione la ricca libreria del MECC; una libreria che veniva rapidamente convertita per un unico microcomputer: l'Apple II.
Per spingere ancora di più l'adozione in ambito educativo, nel 1979 l'Apple iniziò a promuovere pesantemente l'Apple II come strumento didattico, utilizzando pubblicità di questo tenore:
Jobs comprese che introdurre i suoi computer nelle scuole era la chiave per conquistare un mercato molto più grande, quello casalingo. Del resto i motivi didattici erano una delle ragioni citate più frequentemente fra i motivi per i quali una famiglia acquistava un computer. Quando Mamma e Papà valutavano quale computer comprare a Junior, l'Apple II (il computer che aveva tutti i software didattici, il computer che Junior usava anche a scuola, il computer di cui lo stesso Junior aveva parlato in casa e che già sapeva adoperare) sembrò per molti la scelta più logica, anche se costava un po' di più e anche se, col passare del tempo, non aveva più delle specifiche tecniche così impressionanti in confronto alla concorrenza. Quegli Apple II venduti a un prezzo scontato alle scuole funsero da articoli di richiamo per i consumatori, e si ripagarono abbondantemente negli anni. E in seguito la Apple, appena ebbe abbastanza soldi per poterlo fare, si fece ancora più munifica, offrendosi di regalare un Apple II a ogni scuola elementare della nazione. Mosse come questa crearono una presa talmente forte che neppure la Apple stessa riuscì a spezzarla per molti anni, quando avrebbe semplicemente voluto che l'Apple II andasse a morire, per lasciare spazio all'Apple III e -in seguito- al Macintosh. Dal numero del 24 Settembre 1990 di InfoWorld:
A 10 anni di distanza le scuole elementari continuano a comprare la tecnologia Apple II. In conseguenza di ciò, tale strategia ha contribuito a mantenere nel mercato mainstream un sistema che molti osservatori nell'industria ritengono troppo costoso e tecnicamente obsoleto. E ha virtualmente incatenato la Apple al mercato delle scuole elementari fino al giorno d'oggi. |
Detto ciò, dietro al dominio dell'Apple II nelle aule, c'era però qualcosa di più di un marketing azzeccato. Grazie al chip di Woz (e al suo progetto nel complesso, che riduceva al minimo i circuiti, nonché alla natura ancora piuttosto basilare della macchina in sé) c'era ben poco nell'Apple II che potesse creare problemi. E, esternamente, era una specie di carrarmato. Questi fattori consentirono a quelle macchine di sopravvivere (letteralmente) per anni agli abusi perpetrati dalle mani di un'intera generazione di studenti, che percuotevano le tastiere in preda alla frustrazione, che puntavano le proprie dita appiccicose sugli schermi, e che occasionalmente ficcavano i floppy al contrario nei lettori! Gli insegnanti impararono ad amare questi loro piccoli colleghi resistenti, che gli offrivano degli occasionali momenti di tranquillità in classi di bambini strillanti.
Né sarebbe giusto, indipendentemente dalla purezza (o dalla mancanza di purezza) che spinse la Apple a promuovere così pesantemente l'aspetto didattico, incorniciare la discussione solo in termini di vendite e di quote di mercato. La creazione da vero hacker di Woz si ritrovò infatti a essere un giocatore chiave nel dibattito in corso sul miglior modo di avvicinarsi alla didattica digitale. Questo lo capiamo bene se osserviamo la carriera di una persona in particolare: Sherwin Steffin. Molto di ciò che segue è tratto dal ritratto di Steffin e della sua società (la Edu-Ware) apparso nel numero di Maggio1981 della rivista Softalk:
Steffin non era uno dei bambini prodigio della rivoluzione dei microcomputer. Quando gli Apple II iniziarono ad arrivare nelle aule, lui aveva quasi 45 anni, con alle spalle già un'impressionante carriera di docente. Oltre ad avere un bachelor’s degree in Psicologia Sperimentale e un master’s degree in Tecnologia Didattica, Steffin aveva anche fatto volontariato contro le bande giovanili a Detroit, aveva insegnato alle scuole superiori per sette anni, aveva lavorato come “media director” per un distretto scolastico di Chicago, aveva lavorato come coordinatore dello sviluppo dei sistemi didattici alla Northeastern University per quattro anni, e aveva sviluppato la televisione didattica per il National Technical Institute for the Deaf di Rochester (a New York). Dal 1977 ha lavorato come “senior research analyst” all'UCLA. Le presunte crisi nel sistema educativo che dovette affrontarvi sono tristemente familiare anche oggi:
La didattica tradizionale era in seria difficoltà. Il prodotto finale era percepito come meno competente, dotato di meno abilità, meno curioso, e del tutto carente nel desiderio di apprendere. Le scuole erano piene di frustrazione. Gli insegnanti subivano la grande animosità pubblica senza aver nessun mandato chiaro all'interno del quale lavorare. Insegnare a leggere, scrivere, e fare di calcolo sembrava importante quanto insegnare le abilità sociali con lo scopo di rendere gli studenti più patriottici, tenerli lontani dalle droghe e trasmettere loro un'educazione sessuale (senza però rivelare loro niente del sesso). |
Gli esperti di tecnologia educativa della generazione di Steffin erano profondamente innamorati delle teorie dello psicologo B.F. Skinner, l'inventore del comportamentismo. Skinner credeva che tutti i comportamenti umani fossero predeterminati dalla genetica e dalle esperienze precedenti; per lui l'idea di un quasi mistico “libero arbitrio” era solo un'inutile chimera. Scrisse un libro (“The Technology of Teaching”) in cui applicava il Comportamentismo alla didattica, definendo così la sua idea di “istruzione programmata”. Skinner propose una didattica basata essenzialmente su una ripetizione di atti di apprendimento mnemonico: allo studente viene posta una domanda, lui risponde, e gli viene immediatamente comunicato se la sua risposta è corretta, ad infinitum. Seguendo questa teoria, gli esperti di tecnologia educativa svilupparono delle “macchine di apprendimento programmato”: strumenti automatizzati che implementavano il concetto di istruzione programmata. Non c'è da sorprendersi se non furono un grande successo. In un rarissimo caso di unità, sia i professori sia gli studenti le odiavano. Utilizzarle non era solo monotono, ma gli insegnanti in particolare le consideravano totalmente disumanizzanti (un'opinione che Skinner -considerando la natura delle sue idee in proposito- probabilmente avrebbe abbracciato in pieno). Affermavano (correttamente) che molti aspetti della didattica, come l'arte e la capacità di apprezzare la letteratura e il pensiero critico, non potevano proprio essere trasmessi attraverso un mero apprendimento mnemonico.
Steffin iniziò a prendere le distanze dai suoi colleghi, ritenendo che le macchine di apprendimento programmato fossero inadeguate. A parte tutte le loro numerose mancanze, esse erano buone solo per ciò che lui definiva “il pensiero convergente, nel senso che vengono posti dei problemi e tutti gli studenti sono indotti a dare la medesima risposta”. Il pensiero divergente (cioè l'incoraggiamento delle abilità di pensiero e di opinioni critiche individuali) era come minimo altrettanto importante, perché lui era convinto che “il pensiero fosse il sentiero per la libertà”. Con l'arrivo dei microcomputer come l'Apple II a prezzi relativamente bassi, Steffin vi intravide degli strumenti didattici molto più flessibili delle rigidissime macchine di apprendimento programmato. Senza avere nessuna esperienza di programmazione e nessuna particolare attitudine innata, sviluppò un programma chiamato Compu-Read per insegnare a leggere, prima sul grande sistema istituzionale dell'UCLA e in seguito sull'Apple II, che aveva comprato per le sue ricerche. Come tanti altri programmatori semi-professionali / semi-amatoriali di quei primissimi anni dell'informatica, inizialmente sviluppò il suo software come secondo lavoro, cedendo la licenza di Compu-Read al più grande dei publisher degli albori dell'Apple II, la Programma International. Tuttavia, nella primavera del 1979, Steffin fu licenziato dal suo posto di lavoro all'UCLA e, piuttosto che cercare un'altra occupazione, decise di buttarsi a piè pari nella didattica digitale, fondando la Edu-Ware insieme a uno studente dell'UCLA, Steve Pederson. Insieme iniziarono a sfornare software a ritmi vorticosi, copiando da soli i dischetti e vendendoli nelle buste Ziploc tipiche dell'epoca.
L'offerta di Edu-Ware può essere divisa in tre ampie categorie. La maggior parte erano programmi istruttivi realizzati con competenza, ma piuttosto poveri, che a dire il vero non erano poi troppo differenti dalle vecchie macchine di apprendimento programmato. I loro nomi erano eccitanti quanto i loro contenuti: Compu-Read, Fractions, Decimals, Arithmetic Skills, Compu-Spell, Algebra (se non altro, non si poteva dire che i nomi traessero in inganno il consumatore...)
C'è da dire che di lì a pochissimo tempo altri programmi della Edu-Ware andarono ad occupare il vago spazio vuoto all'intersezione fra strumenti didattici, gioco, e simulazione. Windfall: The Oil Crisis Game metteva il giocatore al comando di una grande (seppur immaginaria) compagnia petrolifera. Il giocatore poteva (e, presumibilmente, voleva) vincere il gioco, ma nel farlo avrebbe inevitabilmente appreso del complesso sistema che era quasi andato in frantumi, producendo la crisi petrolifera del 1979. Network invece metteva il giocatore a capo di un'emittente televisiva, col compito di bilanciare i programmi, la programmazione, gli indici di ascolto e sperimentando nel frattempo le pressioni dei mass media. Terrorist, invece, si concentrava su un altro argomento di grande attualità, a causa della crisi iraniana che continua a trascinarsi avanti, mettendo il giocatore nel ruolo di un terrorista o di un'autorità governativa, inscenando il sequestro di ostaggi, il dirottamento di aerei, o degli scenari di ricatto nucleare.
Creati in un tempo in cui la maggior parte degli altri software o ignoravano completamente il mondo reale, o se ne occupavano esclusivamente dal punto di vista dell'hardware militare, questi programmi sono significativi per il modo in cui si occupano deliberatamente di questioni sociali vere e pressanti. Ma non sono solo delle sterili simulazioni. Ognuna ha uno scopo preciso, ha una posizione specifica rispetto alle vicende del mondo, diventando così quello che è probabilmente il primo esempio di quelli che saranno successivamente chiamati “persuasive game”. La loro retorica procedurale riflette con chiarezza la visione liberare del mondo che doveva essere propria della Edu-Ware. Network potrebbe perfino essere definita la prima satira procedurale, essendo ispirato all'omonima “black comedy” del 1976.
E la terza categoria? Non volevano essere simulazioni, ma solo giochi veri e propri, ma non per questo erano meno affascinanti. Ne parlerò più approfonditamente la prossima volta.
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