Il fascino di Tacoma e Gone Home
E come potrebbero diventare ottimi giochi

Ho recentemente recensito Tacoma, il nuovo titolo della Fullbright Company, che già ci aveva portato anche Gone Home.
Per chi non avesse idea di cosa sto parlando, andate pure a leggere i due articoli linkati (di Gone Home basta la metà priva di spoiler) e poi tornate qua.

Sia Gone Home che Tacoma si basano essenzialmente sulla stessa meccanica di fondo, ma, mentre Gone Home ha avuto subito una certa notorietà, Tacoma è stato accolto dai giocatori in maniera più tiepida. La critica lo ha, grossomodo, lodato, ma le vendite non sono state quel che ci si aspettava.
La cosa secondo me è dovuta agli errori compiuti dalla Fullbright nel gestire la meccanica di base del “gioco”, oltre che alla pessima gestione del giocatore nell'impianto narrativo, come spiego nella recensione.

Quel che vorrei fare, è appunto tentare di spiegare quali sono stati questi errori e come invece la meccanica in questione, potenzialmente, potrebbe portare alla creazione di un bellissimo gioco basato su di essa.

Partiamo proprio da questa benedetta meccanica, quel che oggi viene definita “emergent storytelling” (da non confondere con l'”emergent gameplay”, che è un'altra cosa di cui non vi è traccia alcuna né in Tacoma né in Gone Home). Si tratta, in sostanza, della manipolazione completa (o quasi) dello scenario, che, se esaminato con attenzione e in maniera del tutto autonoma, suggerisce dettagli sulle storie di cui parla il gioco. Questa cosa – che non è di per sé una novità: senza andare troppo lontani, è già presente in Fallout 3 – è uno dei fattori che ha fatto gridare al miracolo quando uscì Gone Home, e non del tutto a torto.

L'emergent storytelling, infatti, ha due importanti lati positivi. Prima di tutto, dona grande realismo all'ambientazione e alla storia, perché queste ci vengono messe sotto gli occhi direttamente, senza la spiegazione di qualche personaggio, e ci viene lasciata la libertà di esplorarle in una miriade di particolari. In Gone Home, per esempio, sembra di essere in una “vera” casa, abitata da “vere” persone, ognuna con la sua personalità e il suo passato. Già solo l'enorme mole di oggetti che è possibile prendere, esaminare, posare, spostare e scoprire, e la cura con cui sono realizzati, riesce a illudere che non ci si trovi in un videogioco, dove “vabbè, questo è interagibile mentre tutto il resto è sfondo”. Anche il fatto che non ci siano intermediari fra noi e quello che scopriamo è più realistico, perché nella vita vera non c'è qualcuno che ci sussurra nell'orecchio dove andare e come interpretare l'oggetto che troviamo nel cassetto della nostra ex: lo facciamo da soli.

Il secondo punto forza di questo sistema è il fatto che si basa, appunto, sulla ricerca autonoma; ossia, io posso decidere cosa osservare e cosa no; io decido se spostare della roba; io decido, soprattutto, come interpretare ciò che vedo (si vedano le varie idee sul padre che *non* appare in Gone Home). Questo dà al giocatore l'illusione di avere libertà d'azione all'interno del gioco, il che è sempre un fattore molto efficace in un videogioco.

 Ma qui arriva anche il problema, perché questa illusione è appunto tale: un'illusione. Il giocatore ha agency esattamente nel campo che ha zero rilevanza all'interno del titolo. In Gone Home, la storia principale, quella della sorella del nostro personaggio, era narrata tramite dei pezzi di diario trovati qua e là: non c'era quindi necessità di scovare e interpretare alcunché, e ai fini della storia era importante solo risolvere un paio di enigmi.
In Tacoma, la storia principale viene mostrata attraverso i fantasmini dell'equipaggio. Osservare le loro stanze, quindi, serve solo a scoprire cose inutili. Non c'è più nulla da interpretare.

Voglio specificare che non sto parlando del fatto che a questi “giochi” manchi “sfida”. No, il problema è che manca proprio un qualche tipo di azione significativa affidata al giocatore, dove con “significativa” intendo un'azione che, in qualche modo, modifichi l'esperienza che si ha del titolo. Qualcosa che non solo agisca *sul* mondo di gioco, ma che anche interagisca *con* il mondo del gioco.

Ci sono altri giochi dove la sfida è bassa o nulla, ma che offrono lo stesso azioni significative: prendiamo Analogue, per esempio, dalla sfida e dall'interazione bassissime; o anche Her Story, in cui le nostre azioni non interagiscono neanche con la storia, ma con la struttura del titolo.
In questi titoli, noi possiamo comunque fare qualcosa che ha un peso all'interno dell'universo del gioco, ossia qualcosa che fa sì che l'universo ci risponda.

Her Story è un caso molto calzante perché fa qualcosa di molto simile ai titoli Fullbright. Invece di esaminare oggetti, in Her Story esaminiamo clip video, e l'unico effetto che le nostre azioni hanno è interno. Quel che cambia è la nostra comprensione degli eventi e dei personaggi del titolo, esattamente quello che dovrebbe essere il punto forza dei titoli Fullbright.

Ma in Her Story, questa ricerca e questa comprensione sono davvero resi il fulcro dell'esperienza, che è costruita per massimizzarne l'effetto. Non c'è climax se non ci arriviamo noi, con il nostro cervello; non c'è rivelazione se non scoviamo la soluzione del mistero, e il mistero è creato apposta per tenerci sulla corda.

In Tacoma e Gone Home, invece, l'esplorazione è accessoria, e le storie principali ci vengono narrate in maniera tradizionale. In Tacoma, addirittura, *tutto* è narrato in maniera tradizionale, non ci sono “sottotrame” da svelare in maniera autonoma. E allora è anche figo esaminare la lista ingredienti del cibo coreano della stazione spaziale, ma alla fine lascia il tempo che trova.

Dunque, come si poteva fare?

Beh, tanto per cominciare, nulla mi toglie dalla mente l'idea che l'approccio Fullbright sia perfetto per un gioco investigativo. Non a caso, anche Her Story è un mystery, e Gone Home presenta un certo mistero (dov'è finita la sorella?). Immaginiamo una detective story in cui le scene del crimine siano altrettanti scenari da esplorare “alla Gone Home”, ad esempio, e in cui la risoluzione del crimine è basata sui nostri ragionamenti. L.A. Noire, un pochino, ci provava, a fare una cosa simile, solo che lì l'enfasi voleva essere maggiormente sulle espressioni facciali dei personaggi e solo secondariamente sull'analisi degli oggetti.

Non serviva moltissimo per trasformare Tacoma in una cosa del genere: si potevano limitare i fantasmini e far sì che la comprensione di quanto successo servisse effettivamente a qualcosa. Che ne so, farci passare da una zona all'altra della stazione solo dopo che siamo riusciti a ricostruire il movimento dell'equipaggio; dover compilare un rapporto o rispondere alle domande di un nostro collega, cosa che avrebbe anche dato un minimo di personalità al nostro personaggio...

Ma, siccome la Fullbright è allergica ai temi “da videogioco”, quindi a trame “normali”, pensiamo a un gioco senza sfida, ambientato ai giorni nostri, stile slice of life. Il punto chiave è collegare la meccanica utilizzata al messaggio sul quale si vuole puntare.

Ora, quel che ci vuole dire la Fullbright, con il suo gameplay, è che l'ambiente ci può rivelare molto del carattere, dei problemi, delle speranze e delle relazioni degli esseri umani che lo abitano. Perfetto. Creiamo allora un appartamento abitato da gente che non si vede spesso, e che dunque si lascia biglietti. Facciamo sì che la nostra manipolazione dell'ambiente trovi riscontro con “l'altro”: se lasciamo tutto in disordine, il giorno dopo riceveremo messaggi incazzosi, o rimproveri; se riusciamo a capire l'altra persona e a fargli delle piccole gentilezze, ne riceveremo altre in cambio, e così via (un po' come faceva, seppur in modo molto limitato, Sunset, dei Tale of Tales).

Questo se vogliamo restare sul semplice, perché se vogliamo complicarci l'esistenza, possiamo effettivamente dare uno scopo più o meno esplicito al nostro personaggio, magari a libera scelta del giocatore.

Mi rendo conto che questo significhi creare del conflitto (che brutta parola!) all'interno del gioco, ma d'altronde, senza conflitto non esiste storia di sorta. Immaginiamo che il nostro personaggio abbia una vita e degli obiettivi, e che quindi il suo tempo a casa sia limitato: il modo in cui lo spende dice qualcosa delle sue priorità (senza che serva settare degli obiettivi a priori, anche le possibilità del giocatore sono aperte all'esplorazione). Il nostro misterioso coinquilino (un amico? Una sorella? Uno sconosciuto, stile studenti universitari in affitto?) avrà i suoi, di obiettivi, e il “gioco” consiste semplicemente nel vedere in che modo le nostre azioni influenzino le sue e viceversa. Non c'è vittoria, non c'è perdita, c'è “un'esperienza”, che però quantomeno è interattiva per davvero.

Con un pizzico di fantasia, è possibile immaginare mille scenari diversi che siano assolutamente compatibili con la “visione” della Fullbright (poco “gamey” e molto “psicologica”), e che non richiedano neanche una trama originale o complessa.

Il tempo della “sperimentazione”, con Gone Home, è passato; adesso i giocatori vogliono, giustamente, qualcosina in più. E anche se è bello immergersi in questi scenari esplorabili, finché resteranno poco responsivi, non potranno che avere un successo modesto – campagne di marketing azzeccate a parte.

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Layers Of Fear

INDIEtro Tutta presenta Layers Of Fear. Un famoso pittore, abbandonatosi nell'oscurità della sua tenebrosa villa vittoriana, vaga di stanza in stanza compiendo un viaggio introspettivo per gettare una luce su un passato doloroso.

Layers Of Fear è un horror psicologico prodotto da Bloober Team, sviluppatore polacco relativamente giovane al lavoro dal 2008 ma con all'attivo una mezza dozzina di giochi piuttosto limitati — tra cui un inquietante clone di Bomberman —, comparso dapprima nell'Early Access di Steam e in seguito completato e pubblicato nel febbraio del 2016.

Si tratta di un videogioco in soggettiva con scarsissima interattività ispirato al tristemente famoso Playable Teaser di Silent Hills, il gioco mai terminato di Hideo Kojima e Guillermo Del Toro su cui si è consumata la rottura tra lo storico game designer e Konami, assemblato utilizzando Unity e prendendo come spunto Gone Home (Fullbright Company, 2013) di cui è di fatto un clone.

Per coloro che non hanno riferimenti, Gone Home è uno di quei giochi definiti in modo dispregiativo come walking simulator. Di fatto, oltreché camminare si fa ben poco. Ma al contrario di esperienze totalmente passive come Dear Esther (The Chinese Room, 2012) — che di fatto risultava essere l'esempio di maggior impatto all'epoca della sua uscita — gli sviluppatori tentano un approccio più narrativo frantumando una o più storie in una serie di indizi (generalmente carte, cartoline, note, lettere ecc.) che il giocatore deve raccogliere e riordinare per poterle ricostruire. Le suggestioni sono tutte demandate all'atmosfera che nel caso di Gone Home è una casa deserta, nel caso di Layers Of Fear è una villa vittoriana in decadimento e saranno tanto più genuine quanto più realisticamente gli indizi verranno forniti.

Bloober Team, però, non ha intenzione di limitare il tutto al mystery, d'altra parte propone un gioco dell'orrore che come tale deve proporre soluzioni ambientali di maggior impatto, ma alla base si tratta della solita camminata e della solita raccolta di lettere e cartoline che raccontano la solita storia tragica a tratti enigmatica su cui è necessaria una certa dose di deduzione.

La trama, come detto, è tutta totalmente celata e il suo dispiegamento è funzione della quantità di incartamenti ritrovati, alcuni dei quali, sapientemente rimpiattati, richiederanno un buono spirito di osservazione, nonché eventuali replay. All'inizio, chi vi scrive, si sentiva scettico di fronte alla necessità di almeno tre partite per poter accedere — con molta fortuna — agli altrettanti finali (buono, cattivo, neutro), dopotutto un horror è efficace la prima volta che si vede, ma già dalla seconda in poi è molto più innocuo. Per ovviare a questo problema non di poco conto, i Bloober hanno saggiamente diviso l'esperienza di gioco in tre parti sostanziali, anche se miscibili fra loro, le quali sono accessibili con modalità non del tutto chiare negli intenti, ma sufficientemente per capire come muoversi all'interno della villa.

La componente walking, non si esaurisce nella semplice esplorazione dell'abitazione del pittore, cosa che di fatto non avviene mai. Superata la fase iniziale, per così dire di prologo/ambientazione, prende il via il viaggio (reale? introspettivo? allucinatorio?) del pittore nella sua magione, ed è tutto un aprire porte una dietro l'altra e attraversare stanze e corridoi man mano sempre più corrotti dalla crescente alterazione mentale o dalla presenza di spiriti.

Questa struttura ha due funzioni: la prima, banalmente, è narrativa; capiterà di fatto di visitare sezioni della villa che avranno un particolare significato per il pittore. La seconda, permette al meccanismo dell'horror di funzionare con le modalità classiche già ampiamente utilizzate nel cinema e nei videogiochi.

All'inizio si è citato Silent Hill, l'archetipo di quella tipologia di videogioco dell'orrore in cui l'atmosfera cupa, desolata, disperata, angosciante e malsana riveste un'importanza ben maggiore rispetto al balzo sulla sedia o alla sensazione di pericolo imminente (qualità tipiche della serie rivale Resident Evil). Layers Of Fear, anche se non privo di scene che colgono di sorpresa, è un "horror d'atmosfera". La tensione, come nei primi due Silent Hill col passaggio dalla dimensione nebbiosa, relativamente tranquilla, alla dimensione demoniaca, ben più inquietante, scaturisce da questa sorta di discesa nei meandri più orripilanti del ricordo di un passato tremendo. Il senso di colpa, vero deus ex machina di Silent Hill, tiene le fila della vicenda anche in Layers Of Fear, e abbiamo già detto molto.

Il terrore si deposita a strati, man mano che affondiamo nelle viscere della magione, come la pittura sulla miriade di dipinti che si trovano affissi alle pareti, tutti, ovviamente, assai disturbanti di per sé, ma resi ancora più impressionanti dall'utilizzo dell'engine Unity in cui Layers Of Fear si mostra davvero virtuoso. Gli ambienti si distorcono, mutano dinanzi ai nostri occhi con una naturalezza sorprendente accrescendo lo spaesamento e disorientando; i quadri si sciolgono, prendono vita, si muovono, si deformano come per comunicare al giocatore il sentimento vivo che li ha ispirati; gli oggetti fluttuano per poi cadere come i proiettili in Matrix, si liquefanno, scompaiono e riappaiono distrutti per testimoniare le presenze spettrali; le stanze si sfondano, si snodano e si allungano a dismisura o si compongono di strutture arzigogolate come uno schizzo di Escher in uno spettacolo di colori da sballo lisergico.

E parimenti, anche il sonoro arricchisce e accompagna con dovizia le trovate grafiche, superando la percezione visiva e mantenendo la tensione ora lieve, ora parossistica. Musiche lugubri, certo non mancano, ma sono i suoni a rendere reale, per quanto possa esserlo, l'esperienza del pittore nella lotta contro i suoi mostri.

Layers Of Fear si dimostra, infine, un prodotto assai ben confezionato riuscendo senza grossi cali d'ispirazione a impressionare il giocatore con trovate non originali ma efficaci. Gli si può rimproverare un certo ermetismo, che comunque non dà la sensazione di un'eccessiva autorialità, e si apprezza il tentativo di rendere il genere del walking simulator qualcosa di più complesso rispetto alle cosiddette esperienze videoludiche che di ludico, alla fine, hanno ben poco. In effetti risulta un impiego con intenti tradizionali di un linguaggio non tradizionale, che rifiuta l'idea di intrattenere il giocatore con sfide impegnative preferendo immergerlo in un mondo — un Myst (Cyan, 1993) senza macchine, si potrebbe dire — ma che non si lascia andare agli estremismi di Dear Esther o all'intimismo di Gone Home.

Gone Home
Tornare in una casa sconosciuta

Kaitlin Greenbriar è appena partita per il suo giro dell'Europa quando la sua famiglia si trasferisce ad Arbor Hill, nel maniero del defunto zio Oscar. Un anno dopo, Katie torna a casa, nel maniero che non ha mai visto, e lo trova deserto. Sulla porta d'ingresso, c'è una nota scritta dalla sorella Sam, che le chiede di non cercarla.

Come hanno scritto altri prima di me, molte delle cose interessanti che si possono dire di Gone Home, se non tutte, rovinano l'esperienza per chi non ha ancora provato il titolo. Quindi, questo articolo sarà diviso in due parti: la prima, in cui mi terrò sulle generali, e la seconda, adeguatamente segnalata, che conterrà qualche spoiler. Vi consiglio di fermarvi alla prima parte e di provare il titolo, se siete interessati.

Gone Home è un titolo “sperimentale” concettualmente simile a Dear Esther: voi impersonate Kaitlin e dovrete muovevi nella nuova casa, leggendo note, osservando oggetti, nella speranza di capire dove è finita vostra sorella. Non esiste quasi gameplay, se escludiamo un minimo di ragionamento per scovare un paio di posti nascosti e trovare le combinazioni di qualche lucchetto, e il tutto durerà un due-tre orette, a seconda di quanto tempo dedicherete all'esplorazione. Le differenze fondamentali con Dear Esther, però, sono due: intanto, dal momento che Kaitlin è una venti-qualcosa-enne e non una matusa, potrete evitare di procedere a passo di lumaca per il maniero; in secondo luogo, Gone Home racconta (circa) delle storie ben precise e lo fa in maniera comprensibilissima.
E questo è l'aspetto su cui Gone Home sperimenta: il modo in cui ci fa comprendere, vivere, le vite, presente e passato, degli abitanti del maniero di Arbor Hill.

Il maniero è realizzato, dal punto di vista grafico, ottimamente, ed è stipato di oggetti che potrete toccare, esaminare, osservare. Bene o male ogni oggetto che vi aspettate di poter prendere in mano può essere preso. Ogni luce, se funzionante, può essere accesa o spenta; ogni rubinetto aperto o chiuso. La storia di Sam, che è quella principale, vi guiderà lungo la casa: Sam vi ha lasciato delle note che spiegano cosa le è successo, e voi svelerete tutto pian piano, indizio dopo indizio, stanza dopo stanza. Ma quelle degli altri componenti della famiglia potrete capirle solo da quel che vi circonda, dalle bottiglie lasciate in quel punto, da quelle foto disposte a quel modo, da quegli altri oggetti tenuti in quel cassetto, o sotto chiave. Perdersi qualche dettaglio – tipo dei particolari segni sul muro – significa perdersi “un pezzo” della storia, o interpretare certi eventi in modo diverso, proprio come succederebbe nella vita reale osservando la casa di un amico che non vediamo da tempo, mentre lui non c'è.

Devo dire che nessuna delle storie presenti è estremamente originale e, a differenza di come è accaduto a praticamente chiunque altro su internet, nessuna mi ha emozionata o commossa, non mi son sentita “piena d'amore e speranza” come ho letto in innumerevoli articoli. Ma le vite di questi personaggi, e gli anni '90 in cui Gone Home è ambientata, sono molto credibili e magnificamente mostrati tramite piccoli dettagli: altri sviluppatori dovrebbero prendere appunti.

Si può notare, qua e là, qualche piccolo difettuccio: per evitare che tutto il mistero venga svelato per caso nei primi cinque minuti, Gone Home cerca di guidarvi da una stanza all'altra, in maniera abbastanza lineare. Sia chiaro, non vi troverete mai in un corridoio con solo una porta sbloccata, ma alcune stanze sono chiuse a chiave, all'inizio, senza motivo apparente. Allo stesso modo, se è accettabile che le note importanti siano fatte risaltare in mezzo a un mucchio di carte che non possiamo esaminare, ogni tanto troveremo alcune note in posti assurdi: è chiaro che son state posizionate lì per farcele trovare, e questo spezza il senso di estremo realismo che è il punto forte del titolo.
Ma non accade spesso. Per la maggior parte del tempo, sembra davvero di trovarci in una casa abitata da *persone*: possiamo capire chi “vive” in quale stanza, quali sono hobbies, interessi o lavori di ognuno, cosa amano mangiare e persino cosa pensano l'uno dell'altro.

Qui termina la parte “generica”; ora parlerò di un paio di aspetti del titolo più nello specifico. Consiglio caldamente di saltare questo pezzo se non si pensa di provare Gone Home, perché parte della suspance verrà sicuramente rovinata leggendo quanto sotto, e alcuni aspetti verranno svelati: ci saranno SPOILERS. Per chi volesse saltare questa parte, andate sotto, dopo lo stacco, per la conclusione.

Prima di scrivere questo articolo, ho girato un po' su internet cercando *altri* articoli, per vedere un po' quali aspetti fossero stati toccati più spesso e quali, invece, no.
Una cosa che mi ha sorpresa è stato constatare come molta gente abbia giocato Gone Home con un senso di terrore o paura, fino al finale: non c'è nulla di pauroso. Ma, ripensando al gioco, ho capito come mai. In effetti, uno degli aspetti in cui Gone Home eccelle, è quello di creare false, o parziali, visioni di un evento: come dicevo più sopra, bastano un paio di dettagli mancati per cambiare completamente opinione su uno dei personaggi o sulla sua relazione con gli altri. Allo stesso modo, qua e là Gone Home ci “inganna” con alcuni trucchetti horror: luci che si spengono proprio quando abbiamo trovato un crocefisso – e stiamo passeggiando in un posto stretto; messaggi inquietanti sulla segreteria telefonica; note in cui un personaggio dice di aver parlato con un altro personaggio morto... Ma l'inganno è sempre “leale”, se mi passate il controsenso: man a mano che capite come sono andate le cose, anche quei dettagli che potrebbero sembrare buttati lì per farvi fare un salto sulla sedia sono comprensibili e coerenti con il resto dell'insieme.

E poi c'è il modo in cui sono gestita la storia di Sam, e quella di Terry (il padre di Sam e Kaitlin). Sto per fare uno spoiler (ma tanto avete letto i numerosi avvertimenti di cui ho disseminato l'articolo, vero?): Sam è un'adolescente lesbica. Più specificamente, è un'adolescente che scopre di essere lesbica nel corso di quest'anno che voi avete passato in giro per l'Europa. E adesso sto per dire qualcosa che mi attirerebbe le sassate di vari articolisti, se tali articolisti leggessero l'italiano: la storia di Sam e della sua amica (prima) e amante (dopo) Lonnie è una storia da manuale, per niente originale. Sam è una ragazza brillante, carina, interessante; Lonnie è una “strana”, ama il punk, è seguace del movimento femminista. Sam viene ostracizzata dai compagni perché si è trasferita nella casa del “pazzoide”, lo zio Oscar. Lonnie è attratta dalla “diversità” di Sam, scatta l'amicizia, e tra alternative tinte per capelli, concerti musicali rock/punk, stanzini segreti, sedute spiritiche e genitori bigotti, le due si innamorano. Non vi dico se alla fine trionfa l'amore o se Sam e Lonnie si suicidano assieme.
Il punto è che la storia di Sam e Lonnie è esattamente come ci si aspetta che sia, solo che non risulta un grande problema dal momento che è tutto filtrato dal punto di vista di Sam, e che Sam è un'adolescente normalissima. E per Sam, la sua storia è l'unica storia. Farsi una tinta per capelli è un evento banalissimo, ma per lei, in quel momento, diventa un modo nuovo di manifestare l'intimità con un'altra persona. Gone Home è pieno di questi piccoli eventi.

La banalità non risulta un problema anche per via dello scopo dichiaratamente molto ristretto di Gone Home: sono mesi che sappiamo – chi ha seguito il titolo, almeno, lo sa – che Gone Home vuole essere un tentativo di storytelling abbastanza specifico, quindi si può passare oltre la storia molto “classica” per ammirare la tecnica espositiva. E da questo punto di vista, la storia di Terry, il padre di Sam e Kathy, è mostrata molto meglio.
Ogni volta che scoviamo un indizio per la storia di Sam, la voce di Sam stessa ci racconterà un episodio legato a quell'indizio. In un certo modo, Sam ci “guida” alla scoperta della sua storia. Invece non c'è nulla a guidarci alla scoperta di Terry. Dobbiamo scoprire tutto noi, pezzo dopo pezzo, e in questo modo, è vero, ci perde forse in drammaticità, ma ci guadagna tantissimo in realismo. E' qui, secondo me, che si vede meglio la potenza dell'esperimento. Ho trovato vari articoli e discussioni sulla storia di Terry, in rete, in cui si discuteva se questo o quel dettaglio può significare questa o quella cosa (un bellissimo esempio, qui. Un altro, qui. Sì, uno dei due non aveva tutti gli elementi. E' proprio questo il punto da osservare.); nessuno degli articoli che ho letto discuteva in questo modo sulla storia di Sam e Lonnie, invece.

Un'ultima osservazione per le conclusioni (FINE SPOILERS): come dicevo nella parte centrale, ho letto molti articoli su Gone Home in questi giorni, moltissimi dei quali concludevano dicendo che Gone Home ha dato loro “speranza per i videogiochi”, perché non è “very gamey” (letteralmente: non è “molto gioco”), o col sempreverde “finalmente un gioco dove non si spara” - come se il fatto che si sparasse o meno denotasse di per sé una maggiore o minore maturità del gioco in questione. Per fortuna, non tutti gli articolisti la pensano così. Ora, Gone Home fa di sicuro ben sperare per l'inserimento di narrativa nei videogames, ma di certo non per il futuro dei videogiochi in generale, proprio perché Gone Home non è “very gamey”. Come si dice nell'articolo linkato appena sopra, sembra quasi che ormai un gioco debba vergognarsi di essere un gioco. Non ha senso.
E' vero, di solito la narrativa presente nei videogiochi non è molto matura, o profonda, o semplicemente decente, ed è bello che si sviluppino nuovi e migliori metodi per utilizzarla. Ma è comunque una delle frecce nell'arco di uno sviluppatore, non la freccia principale. Non dobbiamo scordare tutto il resto della faretra.

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