Ragnar Tornquist, l'autore dell'acclamato The Longest Journey e del recente Dreamfall Chapters, torna con la sua Red Thread Games e con un nuovo titolo: Draugen, un thriller psicologico ambientato nella Norvegia degli anni '20.
Noi siamo Edward Charles Harden, un americano in viaggio nel piccolo paese di Graavik con l'amica Lissie, alla ricerca della sorella Betty. Arrivati a Graavik, però, i due scopriranno che il paese è deserto e che quindi nessuno potrà indirizzarli nella ricerca.
Partiamo subito dai fatti: Draugen è un walking simulator. Nel corso del gioco, che peraltro dura 3-4 orette circa, dovremo solo camminare da una parte all'altra e cliccare alcuni hotspot, in un'esperienza di gioco linearissima. Non c'è mai una scelta: anche nei dialoghi dove avremo più di una opzione, è in realtà indifferente scegliere una piuttosto che l'altra. Se non dovessimo neanche cliccare per aprire le porte, e vedessimo solo una sequela di cutscenes, poco cambierebbe.
Questo sistema, al solito, è fatto per “lasciare spazio alla storia”, quindi passiamo a questa.
Le storie di Draugen sono, in realtà, due: si intrecciano infatti il mistero di Graavik e la quest personale di Edward (quella di trovare la sorella... apparentemente).
La prima è abbastanza banale e prevedibile, sebbene molto d'atmosfera. Per un lettore sgamato (ma anche un “guardatore di film” sgamato) è facile capire, bene o male, cosa sia accaduto nel paesino, e le continue scarrozzate da una parte all'altra per far fare a Edward 2+2 quando noi stiamo già cercando di fare il 4+1 che ci porterebbe alla rivelazione finale, sono noiose.
Un po' banali anche i modi con cui avvengono le rivelazioni, in particolare la bambina che disegna, casualmente, scene piene di importanza per il villaggio tutto. Disegni che, sottolineo, il nostro protagonista ignorerà prima del momento in cui il gioco vuole che li esaminiamo, anche se li avremo sotto il naso.
La seconda storia, quella personale di Edward, è fatta meglio e sarebbe anche più interessante se non fosse per due piccoli particolari.
Uno: Lissie è veramente insopportabile. Nella situazione in cui si trovano, i suoi continui richiami a Edward, “fissato” con l'idea di ritrovare sua sorella, forse dispersa, forse morta, suonano un po' fuori luogo. Ok, a posteriori hanno senso, ma nel mentre è una tortura.
Due: il momento dell'epifania di Edward manca di preparazione e non mi è parso abbastanza approfondito. È difficile analizzare questo punto senza fare spoiler, ma diciamo che Edward capisce come stanno le cose un po' all'improvviso e dopo una serie di rivelazioni che forse sarebbero state meglio in un flashback. Il finale, in generale, mi è parso un po' affrettato.
Segnalo la presenza di piccole cose poco verosimili su cui è comunque possibile chiudere un occhio, come il fatto che Edward abbia imparato a leggere il norvegese in due mesi, ma non sappia la parola per “cassa” quando ne conosce di molto più difficili...
A fianco di questi problemi, troviamo dei dettagli curiosi, come il fatto che Lissie voglia essere guardata in faccia mentre ci parla: se gireremo la telecamera per guardare il paesaggio o esplorare, in certi momenti lei ci richiamerà all'ordine. È un tocco carino, che aiuta l'immedesimazione.
Insomma, la storia parte da presupposti non malvagi, sebbene per nulla originali, ma non riesce a svilupparsi in qualcosa di sufficientemente complesso da meritare pieni voti. Il non-gameplay è ai massimi livelli, qui l'interazione è minima e minimamente significativa.
Il lato artistico è l'aspetto più curato di Draugen, anche con le limitazioni di budget – e quindi tecniche – a cui è stata soggetta la Red Thread Games.
Graficamente, spicca l'uso delle luci, davvero magistrale in alcuni casi; anche gli scorci di Graavik sono molto suggestivi e, per chi apprezza la natura, camminarci dentro è un'esperienza piacevole. Nei modelli dei personaggi e nelle loro animazioni cominciano a vedersi le limitazioni maggiori, una certa legnosità e un'espressività non eccelsa. Siamo comunque su ottimi livelli.
Il sonoro è un altro aspetto molto curato, a partire dalla musica del menu iniziale, per arrivare a tutta la OST, composta da Simon Pole, che già ha realizzato le musiche per The Secret World e Dreamfall. Non indimenticabile, forse, ma decisamente sopra la media.
Il doppiaggio, invece, ha alti e bassi: il nostro protagonista fa un buon lavoro, mentre Lissie suona forzata in molti casi.
Draugen non presenta, al momento, l'italiano, né per doppiaggio né per i sottotitoli. L'inglese utilizzato non è troppo complesso, ma non è possibile fermare le linee di dialogo per leggerle con comodo (né è possibile skippare i dialoghi, cosa che capisco, ma è veramente noiosa, accoppiata alla staticità delle scene).
Un po' con tristezza non promuovo questo Draugen. Non voglio bocciarlo a priori per il fatto di essere un walking simulator, ma avrebbe dovuto avere una storia di ben altro calibro per compensare la mancanza di un qualsivoglia gameplay. Non posso nascondere che in parte me lo aspettavo, ma allo stesso tempo, leggendo che si trattava di un mystery, ho sperato di poter vivere in parte questa indagine, invece di vedermela raccontata attraverso mezzi cliché e supposizioni del protagonista. Peccato.
OGI è lietissima di annunciare l'uscita di una nuova avventura realizzata dagli E-Paper Adventures: Sull'orlo dell'abisso.
Scritta con la nuova versione del loro tool, Pandor+, che implementa le mappe automatiche, ci mette nei panni del Prof. Dragan Balthazar, che si trova a dover investigare su un sottomarino sommerso dei tempi della Seconda Guerra Mondiale.
È un'avventura che punta sulla narrazione ed è completamente in italiano.
Sull'orlo dell'abisso è la nuova avventura degli E-Paper Adventures.
Il Prof. Dragan Balthazar, docente dell'Università Mizka Tomic, di Zagabria è impegnato in una missione intrisa di misteri.
Da qualche parte, sul fondo del mare della Dalmazia, giace dimenticato il relitto di un sommergibile tedesco affondato durante la seconda guerra mondiale.
Molti segreti avvolgono questa storia, sarà il Prof. Balthazar in grado di risolverli?
Dopo Papers, Please, Lucas Pope si è messo a lavoro su Return of the Obra Dinn e, finalmente, il gioco è stato completato e rilasciato!
Si tratta di un mystery in prima persona, ambientato nel 1807. Una nave mercantile, la Obra Dinn, partita nel 1804, è tornata nel porto di Falmouth, con le vele danneggiate e senza equipaggio. Starà, ovviamente, a noi investigare sull'accaduto risolvendo enigmi ed esplorano la nave.
Sul forum di OGI abbiamo seguito da vicino lo sviluppo del gioco, grazie alle demo e ai devblog rilasciati da Pope, che mostrano come ha costruito il fantastico stile grafico di Return of the Obra Dinn.
The Council, l'avventura-rpg della Big Bad Wolf, è arrivata al suo terzo capitolo, il capitolo centrale del gioco. Come è ovvio, ci saranno degli spoiler per chi non ha giocato i capitoli precedenti e non ri-spiegherò, in questa recensione, come sono implementate le meccaniche rpg, di cui trovate l'analisi nella recensione del primo capitolo.
Ma bando alle ciance e andiamo a vedere questo Episode 3.
Avevamo lasciato Louis nel giardino del maniero di Lord Mortimer. Avevamo aperto la cripta ed eravamo scesi, trovando un simpatico cadavere ad attenderci.
Da qui parte questo terzo episodio, Ripples, in maniera diversa a seconda delle scelte che abbiamo compiuto negli episodi precedenti. Devo dire che, se giocando non si intuisce molto la portata delle nostre scelte, rivedendo le varie combinazioni su youtube l'impressione è diversa. È vero che si torna sempre al tronco principale della storia, ma è anche vero che possiamo scatenare alcuni eventi che sembrano avere una conseguenza a lungo termine, almeno come sfumatura. Comincio a pensare che ci potrà essere più di un finale a The Council, e che il finale prescelto non dipenderà solo da una scelta binaria compiuta alla fine del gioco.
D'altra parte, è stato notato sul nostro forum (grazie, chipko) che alcune scene risultano avere poco senso alla luce delle scelte compiute durante i capitoli precedenti: forse i Big Bad Wolf hanno messo in campo più variabili di quante non riescano a gestirne. Io non ho riscontrato queste sbavature, ma probabilmente perché ho imbroccato la sequenza di scelte per cui hanno costruito la gran parte del gioco.
Ora, questo è anche un limite ovvio, se consideriamo il costo di sviluppare molteplici “rami” della storia, le risorse necessarie a gestirli tutti e il fatto che i Big Bad Wolf siano uno studio indie. Ma va detto che nel complesso vedo una più ampia scelta e in generale un gameplay migliore di tanti titoli “simili” più blasonati, come un The Walking Dead o un Life is Strange.
In ogni caso, in questo terzo episodio, finalmente, sembra di entrare nel vivo della storia. Il secondo episodio, in particolare, aveva girato troppo attorno al mistero del maniero, di Mortimer e della madre di Louis, senza che ci fossero concreti passi avanti. Ora, invece, scopriamo finalmente perché siamo tutti riuniti, che fine abbia fatto nostra madre e... altre cosucce.
Purtroppo, la maggior parte di queste scoperte avviene non grazie alle nostre indagini, ma grazie al fatto che questo o quel personaggio si fermano per spiegarci come stanno le cose. È ovviamente possibile che non ci dicano la verità e che queste spiegazioni siano solo fumo negli occhi tra cui dovremo districarci a furia di indizi. Spero sia così perché la spiegazione soprannaturale degli eventi non è molto originale o interessante e, soprattutto, spiattellata così come ce la spiattellano è alquanto anticlimatica.
Nel capitolo 2 mi lamentavo di come la faccenda dell'omicidio di Elizabeth si chiudesse con un nulla di fatto e un bel “checcefrega” collettivo: qui viene ventilata una spiegazione, che però funziona a metà (perché Louis quantomeno dovrebbe porsi due domande). Ma lascio il beneficio del dubbio, visto che un punto chiave della serie è proprio il gran numero di segreti e di colpi di scena.
Inutile parlare dei personaggi, a cui si cerca di dare più spessore (specialmente a Emma e Peru), ma a causa della scarsa costruzione nei due capitoli precedenti la cosa non funziona benissimo. Gli altri continuano a fare il loro mestiere in maniera poco ispirata. Godoy, in particolare, è un po' macchietta. Conosceremo meglio Lord Mortimer, che però nasconde ancora un bel numero di misteri.
Mi fanno ben sperare un paio di scene in questo capitolo. In una, in particolare, dovremo arguire qual è la decisione giusta da prendere in base alla nostra conoscenza di un altro personaggio e delle cose che abbiamo fatto assieme – anche se il sempre attento chipko ha trovato un modo di bypassare questo sistema “naturale” osservando bene le immunità dei personaggi coinvolti nella scena... peccato, io avrei rimosso questa possibilità così da costringere i giocatori a 1) utilizzare le nostre abilità personali (es, abilità di osservazione o di fare domande) o 2) decidere in base alle reazioni pure e semplici dei personaggi. Sarebbe anche una modifica da niente.
Anche nel finale c'è un bel bivio e son curiosa di sapere come i Big Bad Wolf gestiranno una delle due varianti.
In Ripples il focus torna, in parte, sulle Confrontations e sull'aspetto rpg-istico piuttosto che sugli enigmi. Delle tre Confrontations disponibili, due sono opzionali (una, a seconda di come inizia il capitolo per voi, non la vedrete proprio) e una non concede errori.
Solo alla fine c'è un mega-enigma, che richiederà un bel po' di lavoro per essere risolto. Sono ancora ambivalente di fronte a questi enigmi, ma devo dire che UNO di questo genere non rende tutto così pesante come nel capitolo 2.
C'è anche tanto backtracking in questo terzo capitolo. Il gioco spesso ci dà la scusa per girare a vuoto nel maniero e ri-esplorare le zone che abbiamo già esplorato due volte nei capitoli precedenti. È noioso e purtroppo serve farlo per raccogliere oggetti e pozioni (di cui ho sentito poco bisogno, per la verità). Peccato in particolare per la parte subito precedente al mega-enigma, che è in sostanza una fetch quest: si tratta di andare a prendere certi oggetti che sappiamo benissimo dove si trovano, quindi non c'è neanche il gusto o la sfida di trovarli o riuscire a prenderli. Puro filler.
Dal punto di vista tecnico, ho letto tante recensioni lamentarsi di bachi e lip synch sballato. A me è capitato solo una volta di avere il lip synch non funzionante, per il resto non ho riscontrato bachi di sorta.
Anche dal punto di vista del doppiaggio sono stati segnalati problemi, con la voce di Louis particolarmente acuta: a me non è accaduto neanche questo. L'unica cosa che mi sento di deplorare è il Cardinal Poggi che parla “italiano”, è mostruoso da sentire.
Questo terzo episodio mi fa ben sperare sotto molti aspetti ma risente un po' di tutti i problemi dei capitoli precedenti: dalla costruzione della storia e dei personaggi, mai troppo felice, all'altalenanza del gameplay fra avventure classiche e avventura misto rpg. Va dato loro atto che, a parte la fetch quest finale, si stanno sforzando ovunque di dare al giocatore missioni e ostacoli da superare con le sue sole forze, che è una cosa rara nel panorama videoludico odierno.
Insomma, si sarà capito che mi sento un po' più ottimista dopo questo terzo capitolo. Bisogna dosare meglio il mix. Speriamo bene per il quarto e il quinto!
Siamo molto felici di annunciare l'uscita di Detective Gallo, l'avventura grafica con protagonista un gallo detective (ebbene sì!) e realizzata in stile cartoon dallo sviluppatore italiano Footprints Games.
Cinque piante esotiche sono state seccate in circostanze misteriose. Nessuno sembra preoccuparsene più di troppo, ma un eccentrico multimiliardario vuole che qualcuno risolva questo strano caso ed è pronto a elargire una ricchissima ricompensa a chi ci riuscirà. Detective Gallo e il suo accappatoio giallo sono pronti a sbrogliare l'intricata matassa.
Voi non fate i polli e precipitatevi su Steam o GOG per dare un'occhiata a questo promettente titolo d'avventura.
E' in sviluppo una nuova avventura grafica a opera della Palm Pioneer per la cinese Zodiac Interactive.
Si tratta di Tales of the Neon Sea, un'avventura mystery cuberpunk che ci porterà a indagare nei meandri di una città futuristica.
Non sappiamo ancora molto della trama, ma abbiamo un trailer (visibile qui sopra) e un periodo di uscita: estate 2018!
Oggi vi mostriamo The Padre, un'avventura in 3D, con mostri da uccidere e puzzle da risolvere.
In The Padre, noi interpretiamo, appunto, un prete cacciatore di demoni, che viene chiamato a investigare la scomparsa di un cardinale, nel Mississippi del 1910.
Nel video, Ogio Il Veglio gioca per noi la demo, scaricabile gratuitamente alla pagina Kickstarter del progetto.
Dal creative director della Failbetter, Alexis Kennedy, arriva Cultist Simulator, un gioco da tavolo elettronico ora su Kickstarter.
La Failbetter Games è nota per Fallen London e Sunless Sea, titoli dall'ambientazione fantastica molto dark, dai richiami lovecraftiani e dall'atmosfera virante all'horror. Cultist Simulator continua un po' questa tradizione, mettendoci nei panni di uno studioso dell'occulto, in un'ambientazione che ricorda gli anni '20. Dovremo esaminare i nostri sogni per scovare indizi su riti segreti, costruire strumenti magici e evocare spiriti e, come suggerisce il titolo, fare adepti e annunciare la nuova era a capo del nostro culto. Il nostro personaggio avrà una Passione, una Ragione e dei Fondi, e con quelli dovremo cominciare "l'avventura".
Qualcuno potrebbe notare che l'arte del gioco è stata affidata a Catharine Unger, già disegnatrice per House of Many Doors.
Infine, è disponibile un prototipo del gioco, da scaricare gratuitamente, per dare un'occhiata più da vicino al concept di Cultist Simulator.
Realizzare un videogioco era il sogno di molti ragazzini di una volta e probabilmente è proprio conservando, seppur crescendo, quell'entusiasmo che i ragazzi di Psychodev hanno coronato questo sogno con Chronicle of Innsmouth.
Il gioco è realilzzato con il popolare AGS (Adventure Game Studio) che meglio di altri consente di ottenere il feeling dei vecchi videogiochi. L'interfaccia è un violento "from back" allo Scumm della Lucas Arts, stessi verbi e stessa disposizione.
La grafica è sgraziata ma perfetta per il bizzarro equilibrio disturbante intimo di questo titolo, l'ambientazione di Lovecraft con le sue creature mitologiche e il male impossibile si unisce, favorita dalla sua genesi così spontanea, all'influenza di altri fattori come Monkey Island e il tipico umorismo di casa Lucas.
Il detective Sydney Emerson non ha proprio una bella vita: essere solo, alcolizzato e senza soldi è per lui la normalità. Oggi gli capita pure di essere pestato a sangue in un vicolo dallo scagnozzo di un nano presuntuoso. Per sua fortuna (di Sydney, non del nano), arriva in suo soccorso lo Squartatore di Londra!
Premessa: devo ringraziare tantissimo Indiana, che mi ha regalato una copia del gioco! Senza la sua gentilezza, questa recensione non ci sarebbe stata e io non mi sarei divertita a giocare The Slaughter: grazie mille, Indiana :)!
Seconda premessa: questo che andrò a recensire, come dice anche il titolo, è solo l'atto primo della storia. Quindi, il finale è apertissimo e niente viene chiuso o spiegato.
Ora veniamo alla recensione vera e propria.
The Slaughter: Act One, l'avventura grafica che INDIEtro Tutta vi porta questo venerdì, è stata creata da Alexander Francois, che ha messo su una piccola software house di cui è l'unico membro, la Brainchild. Ha lanciato un kickstarter nel 2013 e ha raccolto meno di 10.000 euro. Nel gennaio del 2016 ha rilasciato questo The Slaughter: Act One.
Si tratta di un'avventura noir ad ambientazione vittoriana, con un tocco di humor che alleggerisce senza rovinare i toni horror della storia e un tocco di fantasy/surreale che non vede qui il suo massimo sviluppo.
Le prime cose che mi hanno colpita sono ambientazione e personaggi. Sono entrambe scritte davvero bene. Emerson è un po' il classico detective noir autolesionista, dai sogni infranti e che vorrebbe portare giustizia nel mondo, ma per necessità ruba o compie altri atti “poco carini”. Riesce simpatico perché in verità è una brava persona ed è facile mettersi nei suoi panni.
Gli altri personaggi riescono tutti a essere particolari e familiari al tempo stesso. I loro dialoghi non sono mai piatti e banali, ognuno ha quel qualcosa in più che li distingue dalla pletora di stereotipi che vediamo in giro per il web.
L'autore del gioco ha descritto l'atmosfera come “Blue Velvet incontra Monkey Island” e in effetti è azzeccato. Molte sono le situazioni sopra le righe, molti i dialoghi che fanno ridere, ma questa vena umoristica non toglie nulla né alla psicologia dei personaggi, né ai momenti umani o orrorifici dell'avventura. Bellissime le scene di introspezione di Emerson, per esempio, oppure una scena verso la fine, quando saremo a quattro passi dall'assassino. Non voglio descrivervele, sarebbe peccato. The Slaughter utilizza molti degli effetti “cinematografici” di The Last Door. Lo fa, secondo me, con meno maestria, e anche in maniera più discontinua, ma raggiunge comunque l'effetto desiderato. Bisogna anche considerare che mentre The Last Door cerca di tenere un certo tono di angoscia per tutto il tempo, The Slaughter passa da questi momenti ad altri più leggeri.
Stupenda l'ambientazione, una delle mie preferite. Certe aree mi sono sembrate un po' troppo “pulite”, ma nel complesso il periodo storico di riferimento viene evocato molto bene, anche grazie ai dialoghi, con qualche espressione “tipica” qua e là.
Dicevo che mentre l'aspetto noir e quello umoristico sono costanti all'interno del gioco, meno sviluppata è la parte fantasy. Viene accennato a un mondo onirico a cui Emerson (e, si suppone, non solo lui) può accedere e col quale può, in qualche modo, influenzare il “mondo reale”. Possiamo visitare una stanza particolare, in cui Emerson si ritrova quando dorme. Ma questa parte resterà, appunto, accennata. Solo un paio di volte vi accederemo per aiutarci con il caso e anche quelle volte l'effetto del mondo onirico sarà più d'atmosfera che di aiuto concreto. Suppongo che verrà sviluppato meglio nei prossimi atti. Al momento, è un'aggiunta interessante, che apre diverse possibilità di sviluppo della storia, ma se non ci fosse poco cambierebbe.
Veniamo al gameplay. The Slaughter è un classico punta e clicca, quindi avremo a che fare con gli elementi di gameplay che gli avventurieri fra noi ben conoscono: inventario, oggetti da raccogliere e combinare, puzzle e dialoghi.
I puzzle non sono mai troppo complicati e in massima parte sono logici. Data la vena umoristico-leggermente demenziale del titolo, in alcuni casi bisogna pensare un po' “out of the box” e trovare soluzioni che risulterebbero assurde in un contesto più serio. È sempre chiaro quando bisogna usare la logica “normale” e quando serve un po' più di “lateral thinking” e non ho mai avuto difficoltà in questo senso. I puzzle di norma hanno una e una sola soluzione e in generale il gioco non prende i fallimenti come una possibilità di proporre qualcosa di nuovo. Insomma, se sbagliamo un puzzle, potremo riprovare anche altre mille volte, finché non l'azzecchiamo, anche quando nella realtà ciò sarebbe assurdo (mi viene in mente una scena con un buttafuori, pronto a farsi distrarre 800 volte, sempre con lo stesso dialogo). Questa è una limitazione ovvia, considerato che il gioco è stato creato da una sola persona: non posso aspettarmi la varietà di soluzioni che può avere un Technobabylon.
È presente anche un minigame, abbastanza difficilotto, che è possibile però saltare dopo averlo tentato un paio di volte.
L'aspetto grafico è davvero bello, curato, anche se non arriva al livello di maestria del sempre-citato The Last Door (dove anche un pixel fa la differenza). Alcune aree sono proprio splendide, tipo il parco, o le scene oniriche, o anche alcuni interni. Molti sono i dettagli ed è possibile interagire con parecchi di essi, anche solo per osservarli.
Le uniche pecche sono l'animazione della camminata di alcuni personaggi, che ho trovato strana, e la mancanza del doppiaggio, che un po' si sente anche se mi rendo conto che con il budget a disposizione, non si poteva certo includerlo. Ma secondo me lo meriterebbe assolutamente.
La musica mi ha colpito di meno, ma le tracce sono “a tema” e sempre adatte all'occasione. Anche il silenzio, in alcune scene, è piazzato ad hoc, specialmente nei momenti introspettivi o di tensione.
Nel complesso, The Slaughter: Act One è un ottimo inizio, specialmente considerando il fatto che è stata creata da una sola persona. Ha buoni personaggi, una stupenda ambientazione, dialoghi interessanti e un buon mix di horror e humor. La sua storia è incompleta, e posso capire che questo scoraggi molti giocatori dall'approcciarsi al titolo prima di avere la certezza che gli altri due atti verranno sviluppati e rilasciati. Ma, secondo me, anche solo l'Atto Primo merita di essere provato.
INDIEtro Tutta presenta Layers Of Fear. Un famoso pittore, abbandonatosi nell'oscurità della sua tenebrosa villa vittoriana, vaga di stanza in stanza compiendo un viaggio introspettivo per gettare una luce su un passato doloroso.
Layers Of Fear è un horror psicologico prodotto da Bloober Team, sviluppatore polacco relativamente giovane al lavoro dal 2008 ma con all'attivo una mezza dozzina di giochi piuttosto limitati — tra cui un inquietante clone di Bomberman —, comparso dapprima nell'Early Access di Steam e in seguito completato e pubblicato nel febbraio del 2016.
Si tratta di un videogioco in soggettiva con scarsissima interattività ispirato al tristemente famoso Playable Teaser di Silent Hills, il gioco mai terminato di Hideo Kojima e Guillermo Del Toro su cui si è consumata la rottura tra lo storico game designer e Konami, assemblato utilizzando Unity e prendendo come spunto Gone Home (Fullbright Company, 2013) di cui è di fatto un clone.
Per coloro che non hanno riferimenti, Gone Home è uno di quei giochi definiti in modo dispregiativo come walking simulator. Di fatto, oltreché camminare si fa ben poco. Ma al contrario di esperienze totalmente passive come Dear Esther (The Chinese Room, 2012) — che di fatto risultava essere l'esempio di maggior impatto all'epoca della sua uscita — gli sviluppatori tentano un approccio più narrativo frantumando una o più storie in una serie di indizi (generalmente carte, cartoline, note, lettere ecc.) che il giocatore deve raccogliere e riordinare per poterle ricostruire. Le suggestioni sono tutte demandate all'atmosfera che nel caso di Gone Home è una casa deserta, nel caso di Layers Of Fear è una villa vittoriana in decadimento e saranno tanto più genuine quanto più realisticamente gli indizi verranno forniti.
Bloober Team, però, non ha intenzione di limitare il tutto al mystery, d'altra parte propone un gioco dell'orrore che come tale deve proporre soluzioni ambientali di maggior impatto, ma alla base si tratta della solita camminata e della solita raccolta di lettere e cartoline che raccontano la solita storia tragica a tratti enigmatica su cui è necessaria una certa dose di deduzione.
La trama, come detto, è tutta totalmente celata e il suo dispiegamento è funzione della quantità di incartamenti ritrovati, alcuni dei quali, sapientemente rimpiattati, richiederanno un buono spirito di osservazione, nonché eventuali replay. All'inizio, chi vi scrive, si sentiva scettico di fronte alla necessità di almeno tre partite per poter accedere — con molta fortuna — agli altrettanti finali (buono, cattivo, neutro), dopotutto un horror è efficace la prima volta che si vede, ma già dalla seconda in poi è molto più innocuo. Per ovviare a questo problema non di poco conto, i Bloober hanno saggiamente diviso l'esperienza di gioco in tre parti sostanziali, anche se miscibili fra loro, le quali sono accessibili con modalità non del tutto chiare negli intenti, ma sufficientemente per capire come muoversi all'interno della villa.
La componente walking, non si esaurisce nella semplice esplorazione dell'abitazione del pittore, cosa che di fatto non avviene mai. Superata la fase iniziale, per così dire di prologo/ambientazione, prende il via il viaggio (reale? introspettivo? allucinatorio?) del pittore nella sua magione, ed è tutto un aprire porte una dietro l'altra e attraversare stanze e corridoi man mano sempre più corrotti dalla crescente alterazione mentale o dalla presenza di spiriti.
Questa struttura ha due funzioni: la prima, banalmente, è narrativa; capiterà di fatto di visitare sezioni della villa che avranno un particolare significato per il pittore. La seconda, permette al meccanismo dell'horror di funzionare con le modalità classiche già ampiamente utilizzate nel cinema e nei videogiochi.
All'inizio si è citato Silent Hill, l'archetipo di quella tipologia di videogioco dell'orrore in cui l'atmosfera cupa, desolata, disperata, angosciante e malsana riveste un'importanza ben maggiore rispetto al balzo sulla sedia o alla sensazione di pericolo imminente (qualità tipiche della serie rivale Resident Evil). Layers Of Fear, anche se non privo di scene che colgono di sorpresa, è un "horror d'atmosfera". La tensione, come nei primi due Silent Hill col passaggio dalla dimensione nebbiosa, relativamente tranquilla, alla dimensione demoniaca, ben più inquietante, scaturisce da questa sorta di discesa nei meandri più orripilanti del ricordo di un passato tremendo. Il senso di colpa, vero deus ex machina di Silent Hill, tiene le fila della vicenda anche in Layers Of Fear, e abbiamo già detto molto.
Il terrore si deposita a strati, man mano che affondiamo nelle viscere della magione, come la pittura sulla miriade di dipinti che si trovano affissi alle pareti, tutti, ovviamente, assai disturbanti di per sé, ma resi ancora più impressionanti dall'utilizzo dell'engine Unity in cui Layers Of Fear si mostra davvero virtuoso. Gli ambienti si distorcono, mutano dinanzi ai nostri occhi con una naturalezza sorprendente accrescendo lo spaesamento e disorientando; i quadri si sciolgono, prendono vita, si muovono, si deformano come per comunicare al giocatore il sentimento vivo che li ha ispirati; gli oggetti fluttuano per poi cadere come i proiettili in Matrix, si liquefanno, scompaiono e riappaiono distrutti per testimoniare le presenze spettrali; le stanze si sfondano, si snodano e si allungano a dismisura o si compongono di strutture arzigogolate come uno schizzo di Escher in uno spettacolo di colori da sballo lisergico.
E parimenti, anche il sonoro arricchisce e accompagna con dovizia le trovate grafiche, superando la percezione visiva e mantenendo la tensione ora lieve, ora parossistica. Musiche lugubri, certo non mancano, ma sono i suoni a rendere reale, per quanto possa esserlo, l'esperienza del pittore nella lotta contro i suoi mostri.
Layers Of Fear si dimostra, infine, un prodotto assai ben confezionato riuscendo senza grossi cali d'ispirazione a impressionare il giocatore con trovate non originali ma efficaci. Gli si può rimproverare un certo ermetismo, che comunque non dà la sensazione di un'eccessiva autorialità, e si apprezza il tentativo di rendere il genere del walking simulator qualcosa di più complesso rispetto alle cosiddette esperienze videoludiche che di ludico, alla fine, hanno ben poco. In effetti risulta un impiego con intenti tradizionali di un linguaggio non tradizionale, che rifiuta l'idea di intrattenere il giocatore con sfide impegnative preferendo immergerlo in un mondo — un Myst (Cyan, 1993) senza macchine, si potrebbe dire — ma che non si lascia andare agli estremismi di Dear Esther o all'intimismo di Gone Home.
E' il 1995. Kathy Rain è una studentessa del college, aspirante giornalista. Non vede il nonno da anni, ma quando viene a sapere della sua morte, decide di tornare a Conwell Springs, il paesino in cui è cresciuta, per il funerale. E, quando arriva, scopre che il nonno potrebbe non essere morto semplicemente di vecchiaia: un incidente, anni prima, lo aveva lasciato in stato vegetativo, sebbene per i medici non ci fosse alcun danno cerebrale. E l'unica che sembra disposta a indagare sulla faccenda è Kathy.
Questa settimana, INDIEtro Tutta vi presenta la recensione di Kathy Rain, avventura grafica in AGS sviluppata dalla Clifftop Games e pubblicata dalla Raw Fury. Nei panni di, neanche a dirlo, Kathy, dovremo scoprire la verità su fatti accaduti anni prima, in una storia che mischia investigazione e sovrannaturale. Ebbene sì, parte della spiegazione del mistero che circonda Conwell Springs è di natura soprannaturale – cosa che si intuisce quasi subito, peraltro. Non a caso, Kathy Rain mi ha ricordato moltissimo Gabriel Knight, col quale il titolo ha più di un aspetto in comune, a partire dal protagonista sopra le righe.
Kathy, infatti, è una che non la manda a dire e più volte sono rimasta un po' sorpresa dalle risposte che dà agli altri personaggi, al limite della maleducazione. Non è una critica al gioco, è la caratterizzazione del personaggio, che peraltro ho gradito parecchio. A differenza di Gabriel Knight, che aveva poco o nessuno sviluppo psicologico, Kathy è caratterizzata più a tutto tondo e c'è di più, in lei, che battute sarcastiche e sbronze notturne. Nel corso della storia dovrà affrontare i suoi problemi e crescere, anche se ho trovato questa crescita un po' troppo improvvisa: secondo me, avrebbe meritato un po' di spazio in più.
I personaggi secondari non sono tutti approfonditi allo stesso modo, naturalmente, ma bene o male mi sono piaciuti tutti – a parte i poliziotti, troppo stereotipati. I ragazzi della Clifftop Games si sono sforzati di dare a ciascuno delle battute particolari, che esprimessero la loro personalità e in qualche modo li facessero essere qualcosa di più della “nonnina dolce et carina”, o della “inquilina religiosa”.
Mi sto concentrando su questo aspetto perché la storia di per sé mi ha lasciata abbastanza indifferente. Chiariamoci, non è brutta, mi ha divertita, mi è piaciuta l'atmosfera di molte scene, inquietante al punto giusto (io non metterei piede in questo paesino neanche pagata), ma due giorni dopo aver finito il gioco la parte che mi è rimasta impressa era quella relativa alla storia personale di Kathy, non quella relativa al mistero dell'incidente del nonno. In parte, questo credo sia dovuto al fatto che c'è poco di veramente originale, che mi abbia fatto dire: “che figata di idea!”. Gli autori hanno unito varie idee “classiche” (la ragazza annegata, il ritardato che “vede le cose”, la droga psicotropa, il prete sospetto) in un mix che è anche interessante ma che dubito lascerà un segno indelebile nei giocatori.
Credo che le parti meglio riuscite siano quelle che sono state in qualche modo collegate alla storia personale di uno o più personaggi: la parte della ragazza annegata, per esempio, mi è rimasta più impressa perché ho avuto modo di vedere come la famiglia fosse cambiata a causa dell'incidente e quali effetti la morte della ragazza ha avuto sui familiari. Viceversa, la parte della clinica, benché sia decisamente più inquietante e particolare, non mi ha fatto grande effetto, perché i personaggi coinvolti erano lì solo per portare avanti la trama e niente più.
I dialoghi sono, in sé, abbastanza buoni, sebbene ogni tanto si esageri e i personaggi a volte se ne escano con frasi esagerate, che non direbbe nessuno nella realtà, o con battute tristerrime *anche* per il 1995 (sì, noi nerd stiamo tutto il tempo chiusi nelle stanzette a litigare su quale stagione di Star Trek sia la più figa. Ah. Ah. Ah.). Ma questa è l'eccezione, non la regola. Di norma sono fatti bene e anche alcune azioni inutili ai fini del gioco hanno un commento simpatico e appropriato.
Poi c'è il fatto che la storia mi ha lasciato un paio di dubbi in alcuni punti, che purtroppo sono tutti spoilerosi e quindi non posso citarli nella recensione. Non si tratta di grossi dubbi, la storia nel complesso mi è sembrata solida.
Dal punto di vista degli enigmi, sono rimasta soddisfatta a metà. Alcuni mi sono piaciuti, mi hanno fatto ragionare abbastanza senza essere troppo arzigogolati (non sono rimasta mai bloccata). Altri sono un po' tirati via e inverosimili – forse l'intento era che fossero comici, ma non li ho trovati tali. In particolare, non mi è piaciuto l'enigma del barbone (che viene usato, identico, TRE volte), che nella realtà non funzionerebbe mai. Sono anche scettica sull'esistenza di uno scanner capace di digitalizzare una musicassetta, ma va beh, forse sono ignorante io.
Ho invece apprezzato gli enigmi presenti verso la fine, nella parte più sovrannaturale del gioco, che mi ha ricordato – con le dovute proporzioni – alcuni passaggi di I Have No Mouth And I Must Scream. Ho anche apprezzato come, durante l'investigazione, raramente Kathy faccia cose proprio stupide e di solito cerchi quantomeno di adottare la soluzione più intelligente al momento.
Cosa curiosa, sono presenti due variazioni dell'interazione “Osserva”: Guarda e Pensa. Con la prima, Kathy ci dirà, in sostanza, cos'è che stiamo guardando, tipo: “Conwell Springs, il paesino della mia infanzia”. Con la seconda interazione, farà una riflessione sull'oggetto, tipo: “Non pensavo che sarei mai tornata a Conwell Springs”. Non capisco perché separare le due cose, visto che spesso è utile sentirle entrambe. E' possibile ovviamente combinare oggetti fra loro, anche se l'ho fatto di rado.
Il problema principale del comparto enigmi di Kathy Rain, però, è che è poco ambizioso. C'è una e una sola soluzione a tutti gli enigmi e il gioco è molto lineare. A volte potremo visitare prima un'area invece di un'altra, e quindi risolvere i relativi enigmi, ma in generale c'è poco da spaziare, esplorare e ragionare davvero. Questo è l'elemento che non fa fare il salto di qualità al gioco, perché se Kathy Rain avesse avuto il comparto enigmi di, diciamo, un Resonance, sarebbe stata tutt'altra cosa. Raramente Kathy Rain osa, sperimenta, inventa, e il comparto enigmi spesso sembra essere stato messo lì come riempitivo e di per sé non dà grande soddisfazione.
I dialoghi del gioco sono quasi tutti gestiti da inventario e taccuino, nel senso che potremo mostrare loro gli oggetti che avremo raccolto e/o chiedere loro degli argomenti annotati sul taccuino. E' un approccio che lascia poco spazio agli errori – basta cliccare su tutto e prima o poi beccheremo la cosa giusta: Kathy non è così scema da mostrare a un personaggio degli oggetti che *chiaramente* sarebbe stupido mostrargli. Occasionalmente dovremo rispondere a una domanda diretta di uno dei personaggi, scegliendo fra due o più risposte. In questo caso, si tratta solo di una scelta “di colore”, non di una che può cambiare il corso della storia, che ha un solo finale.
Passiamo agli aspetti tecnici. Ho adorato la grafica, secondo me stupenda, creata da Nauris Krauze e Shane Steven. I colori sono spettacolari, i ritratti dei pg molto bellini e ognuno con più di un'espressione e i modelli dei pg molto dettagliati. In verità, tutte le locations sono molto dettagliate, anche quando non tutto è cliccabile. Le animazioni potevano forse essere migliori ma sono graziose.
Plauso per la colonna sonora, specialmente per la track del menu, che prende subito e cala nell'atmosfera del titolo. Il doppiaggio, curato da Dave Gilbert, è di buona qualità, come al solito, con solo qualche battuta un po' “stitica”.
Nel complesso, mi aspettavo qualcosa di più. Non il capolavoro intramontabile, chiariamoci, ma... che senso ha fare un'avventura INDIE che si adagi su standard già raggiunti, già esplorati fino alla morte? Non chiedevo né mi aspettavo la rivoluzione, ma un minimo di flessibilità in più, di sperimentazione spicciola sugli enigmi, ormai secondo me è d'obbligo. Almeno un paio di situazioni in cui avere a portata di mano più soluzioni, un enigma davvero figo in tutto il gioco, qualcosa del genere.
Questo aspetto invece resta piatto e nel complesso mediocre, e questo toglie smalto alla storia che di per sé non è neanche lei un capolavoro indimenticabile (benché sia pure bellina e possa vantare bei pg e una bella ambientazione). Il paragone col primo Gabriel Knight, che neanche lui vantava una storia da oscar ma aveva più libertà ed enigmi più tosti, mi viene spontaneo, e Kathy Rain ne esce un po' con le ossa rotte. Spero che per il loro prossimo titolo – forse un Kathy Rain 2? - i Clifftop Games puntino più in alto. Per adesso, mi sento di consigliare questo Kathy Rain a chi vuole godersi la storia, non a chi cerca un'avventura di qualità.
È finalmente uscito the ICE-BOUND: concordance, la nuova interactive fiction per PC e iPad di Jacob Garbe e Aaron A. Reed, che teniamo d'occhio da un po' di tempo, e OldGamesItalia ha appena ricevuto la copia del suo compendium.
La storia di Ice-Bound è ispirata alle opere di Jorges Louis Borges e Nabokov, e si presenta al pubblico forte di un kickstarter di successo che ha permesso agli autori di raccogliere circa 20.000 dollari.
Il punto di forza del gioco è un inedito sistema di narrativa combinatoria (chiamato "Expressive Intelligence"), che promette di modellare la storia non tramite le classiche ramificazioni, ma con qualcosa di simile a una costruzione Lego. Una parte importante ed essenziale dell'interazione con il mondo di gioco avviene attraverso le scansioni del compendium (da eseguire tramite la fotocamera dell'iPad o tramite una webcam).
Chi volesse farsi un'idea di questo the ICE-BOUND, può comunque scaricare il gioco, che nelle sue prime parti è fruibile gratuitamente anche senza compendium, che deve poi essere acquistato a parte.
Speriamo di poter riportare quanto prima le nostre impressioni in una recensione.
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Grazie a chi ci è stato vicino nei vent'anni di attività "regolare" di OldGamesItalia, a chi ha collaborato o a chi ci ha soltanto consultati per scoprire il mondo del retrogaming. Speriamo di avere presto nuove energie per riprendere un discorso che non vogliamo davvero interrompere.
Grazie, OGI. Arrivederci!
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