Per la prima volta La Macchina del Tempo approccia un nuovo anno, oltre ai consueti 2002, 1992 e 1982 (arriverà anche il 1987). Entriamo nella famosa generazione 3dfx, che nel 1997 è in tumultuosa crescita grazie all’inverosimile potenza di calcolo sprigionata da queste nuove schede grafiche che rivoluzionano, di fatto, il gaming su PC, portandolo. almeno provvisoriamente, molto avanti alle possibilità delle console. Ciò rende possibile una conversione migliorativa da PlayStation come quella di Resident Evil, ma anche i morbidissimi fondali sottomarini di Sub Culture. In realtà, sono più numerosi i giochi tradizionali con un paio di simulatori molto solidi e strategici che spaziano dai classici esagoni dell’eccellente Panzer General II alla fantasia di The Tone Rebellion.
E le avventure grafiche? Il modello Lucas arrancava moltissimo, ma c’era luce su quelle in prima persona ed in questa puntata ve ne sono due con filmati con reali attori.
E più avanti arriverà anche una seconda parte di pubblicazioni PC!
Parliamone insieme nell'OGI Forum!
Gianluca "Musehead" Santilio, youtuber raffinato che trasmette dalla campagna senese, esperto di retrogame, avventure grafiche e birre. Voce nota anche per le varie partecipazioni a podcast come Archeologia Videoludica e Calavera Cafè, per chi desidera seguirlo ricordiamo, oltre al suo canale YouTube dell'Archivio del Sig. Santilio, anche il suo blog, dove approfondisce i propri video e la pagina Patreon, dove chi vuole può sostenerlo con una donazione mensile.
INDIEtro Tutta presenta Layers Of Fear. Un famoso pittore, abbandonatosi nell'oscurità della sua tenebrosa villa vittoriana, vaga di stanza in stanza compiendo un viaggio introspettivo per gettare una luce su un passato doloroso.
Layers Of Fear è un horror psicologico prodotto da Bloober Team, sviluppatore polacco relativamente giovane al lavoro dal 2008 ma con all'attivo una mezza dozzina di giochi piuttosto limitati — tra cui un inquietante clone di Bomberman —, comparso dapprima nell'Early Access di Steam e in seguito completato e pubblicato nel febbraio del 2016.
Si tratta di un videogioco in soggettiva con scarsissima interattività ispirato al tristemente famoso Playable Teaser di Silent Hills, il gioco mai terminato di Hideo Kojima e Guillermo Del Toro su cui si è consumata la rottura tra lo storico game designer e Konami, assemblato utilizzando Unity e prendendo come spunto Gone Home (Fullbright Company, 2013) di cui è di fatto un clone.
Per coloro che non hanno riferimenti, Gone Home è uno di quei giochi definiti in modo dispregiativo come walking simulator. Di fatto, oltreché camminare si fa ben poco. Ma al contrario di esperienze totalmente passive come Dear Esther (The Chinese Room, 2012) — che di fatto risultava essere l'esempio di maggior impatto all'epoca della sua uscita — gli sviluppatori tentano un approccio più narrativo frantumando una o più storie in una serie di indizi (generalmente carte, cartoline, note, lettere ecc.) che il giocatore deve raccogliere e riordinare per poterle ricostruire. Le suggestioni sono tutte demandate all'atmosfera che nel caso di Gone Home è una casa deserta, nel caso di Layers Of Fear è una villa vittoriana in decadimento e saranno tanto più genuine quanto più realisticamente gli indizi verranno forniti.
Bloober Team, però, non ha intenzione di limitare il tutto al mystery, d'altra parte propone un gioco dell'orrore che come tale deve proporre soluzioni ambientali di maggior impatto, ma alla base si tratta della solita camminata e della solita raccolta di lettere e cartoline che raccontano la solita storia tragica a tratti enigmatica su cui è necessaria una certa dose di deduzione.
La trama, come detto, è tutta totalmente celata e il suo dispiegamento è funzione della quantità di incartamenti ritrovati, alcuni dei quali, sapientemente rimpiattati, richiederanno un buono spirito di osservazione, nonché eventuali replay. All'inizio, chi vi scrive, si sentiva scettico di fronte alla necessità di almeno tre partite per poter accedere — con molta fortuna — agli altrettanti finali (buono, cattivo, neutro), dopotutto un horror è efficace la prima volta che si vede, ma già dalla seconda in poi è molto più innocuo. Per ovviare a questo problema non di poco conto, i Bloober hanno saggiamente diviso l'esperienza di gioco in tre parti sostanziali, anche se miscibili fra loro, le quali sono accessibili con modalità non del tutto chiare negli intenti, ma sufficientemente per capire come muoversi all'interno della villa.
La componente walking, non si esaurisce nella semplice esplorazione dell'abitazione del pittore, cosa che di fatto non avviene mai. Superata la fase iniziale, per così dire di prologo/ambientazione, prende il via il viaggio (reale? introspettivo? allucinatorio?) del pittore nella sua magione, ed è tutto un aprire porte una dietro l'altra e attraversare stanze e corridoi man mano sempre più corrotti dalla crescente alterazione mentale o dalla presenza di spiriti.
Questa struttura ha due funzioni: la prima, banalmente, è narrativa; capiterà di fatto di visitare sezioni della villa che avranno un particolare significato per il pittore. La seconda, permette al meccanismo dell'horror di funzionare con le modalità classiche già ampiamente utilizzate nel cinema e nei videogiochi.
All'inizio si è citato Silent Hill, l'archetipo di quella tipologia di videogioco dell'orrore in cui l'atmosfera cupa, desolata, disperata, angosciante e malsana riveste un'importanza ben maggiore rispetto al balzo sulla sedia o alla sensazione di pericolo imminente (qualità tipiche della serie rivale Resident Evil). Layers Of Fear, anche se non privo di scene che colgono di sorpresa, è un "horror d'atmosfera". La tensione, come nei primi due Silent Hill col passaggio dalla dimensione nebbiosa, relativamente tranquilla, alla dimensione demoniaca, ben più inquietante, scaturisce da questa sorta di discesa nei meandri più orripilanti del ricordo di un passato tremendo. Il senso di colpa, vero deus ex machina di Silent Hill, tiene le fila della vicenda anche in Layers Of Fear, e abbiamo già detto molto.
Il terrore si deposita a strati, man mano che affondiamo nelle viscere della magione, come la pittura sulla miriade di dipinti che si trovano affissi alle pareti, tutti, ovviamente, assai disturbanti di per sé, ma resi ancora più impressionanti dall'utilizzo dell'engine Unity in cui Layers Of Fear si mostra davvero virtuoso. Gli ambienti si distorcono, mutano dinanzi ai nostri occhi con una naturalezza sorprendente accrescendo lo spaesamento e disorientando; i quadri si sciolgono, prendono vita, si muovono, si deformano come per comunicare al giocatore il sentimento vivo che li ha ispirati; gli oggetti fluttuano per poi cadere come i proiettili in Matrix, si liquefanno, scompaiono e riappaiono distrutti per testimoniare le presenze spettrali; le stanze si sfondano, si snodano e si allungano a dismisura o si compongono di strutture arzigogolate come uno schizzo di Escher in uno spettacolo di colori da sballo lisergico.
E parimenti, anche il sonoro arricchisce e accompagna con dovizia le trovate grafiche, superando la percezione visiva e mantenendo la tensione ora lieve, ora parossistica. Musiche lugubri, certo non mancano, ma sono i suoni a rendere reale, per quanto possa esserlo, l'esperienza del pittore nella lotta contro i suoi mostri.
Layers Of Fear si dimostra, infine, un prodotto assai ben confezionato riuscendo senza grossi cali d'ispirazione a impressionare il giocatore con trovate non originali ma efficaci. Gli si può rimproverare un certo ermetismo, che comunque non dà la sensazione di un'eccessiva autorialità, e si apprezza il tentativo di rendere il genere del walking simulator qualcosa di più complesso rispetto alle cosiddette esperienze videoludiche che di ludico, alla fine, hanno ben poco. In effetti risulta un impiego con intenti tradizionali di un linguaggio non tradizionale, che rifiuta l'idea di intrattenere il giocatore con sfide impegnative preferendo immergerlo in un mondo — un Myst (Cyan, 1993) senza macchine, si potrebbe dire — ma che non si lascia andare agli estremismi di Dear Esther o all'intimismo di Gone Home.
Silent Hill è una tranquilla cittadina di villeggiatura americana, che si affaccia sul bellissimo lago Tolouca. Sicuramente si tratta di un bellissimo luogo dove trascorrere qualche giorno di vacanza, lontano dal tedio quotidiano del lavoro, della vita di tutti i giorni. Questo è quello che aveva pensato Harry Mason, il quale inseme alla figlia Cheryl aveva deciso di andarvi. Ma Silent Hill è anche il luogo in cui Harry sette anni prima insieme alla moglie aveva trovato una piccola bambina infagottata, sul ciglio della strada... cioè Cheryl.
In pochi ricordano cosa era accaduto molto tempo prima, nel territorio in cui attualmente si estende la cittadina. In passato, infatti, qui si trovava un grande e terribile penitenziario, poi smantellato dai nuovi abitanti del posto, che cacciarono i vecchi dopo aver scoperto che alcuni di loro praticavano strani rituali sacri.
Da quando Harry ha un incidente d'auto e sua figlia Cheryl scompare nelle oscure vie della città, oscuri presagi verranno a poco a poco alla luce...
Questo è, in buona sostanza, l'incipit e il tema narrativo sul quale poggia la storia narrata in Silent Hill.
Il primo impatto con un gioco di questo tipo rimane sicuramente impresso nella memoria: il videogiocatore sin dai primissimi istanti di gioco si ritroverà totalmente immerso nelle infime vie della città, in una sorta di vagabondaggio apparentemente senza metà che in realtà può essere interpretato come il ritrovamento dell'“anima”, dello “spirito perduto” del protagonista.
Il senso di solitudine è opprimente, grazie al massiccio utilizzo dell'effetto shading (nebbia) che avvolge praticamente tutta la città, e ciò non fa altro che accentuare la sensazione di paura viscerale, di isolamento che pervade ogni istante di gioco.
Silent Hill riesce in pieno a creare una forma di paura tutta nuova, dalla quale è impossibile sfuggire. Più che attraverso veri e propri colpi di scena, apparizioni improvvise (che comunque non mancheranno, e vi faranno sobbalzare dalla sedia, statene certi!) è il clima costante di incertezza, di apprensione, di solitudine che vi condizioneranno, a tal punto che sussulterete ogni qual volta che dovrete girare un angolo, prendere una strada diversa, e comincerete a tremare quando la vostra radiolina inizierà ad emettere il classico rumore statico che indica la vicinanza di qualche creatura infernale...
Dal punto di vista squisitamente tecnico, c'è da sottolineare soprattutto una differenza fondamentale tra Silent Hill e praticamente la quasi totalità dei survival horror precedenti ad esso (ma anche successivi): tutte le ambientazioni di gioco sono “costruite” in tempo reale, tant'é che grazie al joypad potrete fare utilizzo di una funzionalità che vi permette di ruotare lo sguardo dinamicamente per vedere punti altrimenti non visibili dalle canoniche inquadrature della telecamera, anche se non è consentita una visuale “libera” a 360 gradi come negli action-game, poichè sarete comunque vincolati alle prefissate inquadrature delle telecamere, posizionate a volte in punti piuttosto bizzarri, ma che comunque rendono bene quel “taglio cinematografico” che si è voluto impostare nel gioco (tecnica ormai usuale in questo genere, introdotta dal classico Alone in the Dark).
Una scelta di questo tipo è sicuramente encomiabile, poichè moltissimi altri giochi poggiano su ambienti renderizzati in 2D con personaggi in 3D che si muovono su di essi (come i primi tre episodi di Resident Evil, come tutta la serie di Alone in the Dark, incluso il quarto episodio, The New Nightmare, etc...), dunque in tal senso 'Silent Hill' rappresentava una novità, un gioco all'avanguardia, però da un altro punto di vista si è dimostrata non del tutto all'altezza delle (allora) attuali possibilità della cara vecchia PlayStation, che dovendo eseguire in tempo reale una mole di calcoli non indifferente ha fatto sì che gli sviluppatori introducessero il caratteristico “effetto nebbia”, per celare determinate sezioni degli scenari e quindi non sovraccaricare la console.
Una scelta da una parte azzeccata, perché poi col tempo la “nebbia” di Silent Hill è diventato uno dei principali leit-motif di tutti i capitoli successivi della saga. D'altra parte però l'utilizzo di molte risorse nel rendering degli ambienti ha fatto sì che, per esempio, dal punto di vista delle animazioni dei personaggi (soprattutto dei mostri), il gioco fosse estremamente carente. Alcune di esse sono talmente fatte male che invece di incutere timore mi hanno suscitato più di un sorriso.
I filmati d'intermezzo invece sono eccellenti, di ottima fattura e diretti in modo egregio. Magnifica, a tal proposito, è la rappresenazione del personaggio di Lisa, l'infermiera dell'ospedale di Silent Hill, di sicuro il personaggio più tormentato, più fragile nel quale vi imbatterete.
Una menzione particolare va fatta senza ombra di dubbio alla colonna sonora e agli effetti sonori in generale, davvero strepitosi.
La canzone di apertura, per esempio, è l'emblema stesso dello spirito del gioco: enigmatica e struggente, terrorizzante e coinvolgente al tempo stesso.
Ogni passo avanti nella trama verrà poi sottolineato da diversi filmati con musiche sempre diverse, ma tutte accomunate dagli aspetti poch'anzi citati.
Per non parlare poi degli infiniti vagabondaggi che ci attenderanno per le strade di Silent Hill: in particolare, gli effetti ambientali sono semplicemente perfetti, e vi sarà praticamente impossibile non rimanere terrorizzati.
Il sinistro suono statico della vostra radiolina, ad indicare un pericolo imminente, il rimbombo dei vostri passi (sul silenzio assoluto) negli ambienti chiusi, gli indecifrabili effetti sonori durante le sessioni negli ambienti della città “distorti” dalla dimensione “infernale”, etc... sono solo alcuni di quelli che realmente potremo assaporare.
Ricordo due suoni in particolare che mi sono rimasti impressi per la loro “nitidezza”: il primo è l'incessante suono delle campane di una chiesa, all'uscita della Midwitch Elementary School, un suono talmente irreale nel contesto nel quale si trova il giocatore, da risultare tenebroso.
Il secondo è un martellante suono di sirene, come quelle di un'ambulanza, che vi devasterà il cervello fino all'arrivo nell'ospedale di Silent Hill.
Un altro elemento che ha fatto veramente la fortuna di questo titolo, a mio avviso, è stata la perfetta simbiosi di sessioni action con altre legate alla risoluzione di enigmi, alcuni dei quali di difficoltà piuttosto elevata.
Basti pensare ad esempio all'enigma del pianoforte, nelle sessioni di gioco ambientate nella Midwitch Elementary School, o al sinistro labirinto inesistente (simpaticamente ribattezzato dagli autori nowhere) dal quale dovremo riuscire ad uscire nelle sessioni finali di gioco.
Certo, questa era una delle peculiarità di altri titoli del passato, come appunti i già citati 'Alone in the Dark' e Resident Evil, ma in Silent Hill questa associazione diventa perfettamente bilanciata, regalando a quest'ultimo una sua identità tutta particolare, che lo consegna di merito alla Storia dei videogame.
Quando nel 1999 uscì in Italia Silent Hill in esclusiva assoluta per la PlayStation, inizialmente venne accolto in maniera un pò freddina.
Nei primi mesi non raccolse vendite entusiasmanti, per lo più perché, almeno a prima vista, poteva tranquillamente essere considerato come un imberbe clone del celebre 'Resident Evil', che in un certo senso aveva dato il via "commerciale" al filone dei survival horror (la cui origine storica è però riconducibile al mitico 'Alone in the Dark', grande capolavoro del 1992).
Tuttavia la Konami, nota allora soprattutto per titoli come Metal Gear Solid, era entrata nel genere dei survival horror con un gioco che, sebbene molto simile in quanto a struttura a Resident Evil, aveva qualcosa di profondamente diverso: l'introspezione psicologica del protagonista.
L'introduzione di una storia criptica, angosciante, psicologica, ha sicuramente rappresentato una grossa novità in questo genere di videogame, tanto che la contrapposizione con l'altro più importante esponente del genere, Resident Evil, viene da sé: mentre in quest'ultimo siamo in presenza di un prodotto estremamente commerciale, basato più che sull'esplorazione vera e propria, sull'effetto “scenico” del terrore che scaturisce da apparizioni improvvise di mostri deformi in opprimenti e claustrofici ambienti chiusi, Silent Hill è esattamente l'opposto.
In Silent Hill il terrore assume una forma di “angoscia perpetua”, costituita non tanto da oscene apparizioni improvvise, quanto piuttosto dall'incertezza, dal costante clima di insicurezza che pervade il videogiocatore mentre si aggira per le vie deserte della cittadina, avvolta da una fitta coltre di nebbia che lascia tutto all'immaginazione.
Ogni centimetro quadrato di Silent Hill è in realtà qualcosa di diverso da come appare in superficie: i mattoni degli edifici, le strade, gli oggetti si trasformano quando meno ve lo aspettate in inquietanti grate arruginite intrise in melme sanguinolente, ponti sospesi in baratri oscuri, etc...
L'intera cittadina sembra essere “viva”, con lo scopo di portare in luce gli animi nascosti dei suoi abitanti, i segreti occulti che li perseguitano. In un certo senso, è la stessa città che diventa l'assoluta protagonista.
Lo stesso personaggio che interpreterete, Harry Mason, sembra tutto tranne che uno dei protagonisti di Resident Evil: è debole, insicuro, e la ricerca della figlioletta scomparsa a poco a poco lo renderà un uomo diverso.
Questo, se da un lato ha causato una iniziale diffidenza verso Silent Hill - d'altra parte i videogiocatori di Resident Evil si erano abituati ai personaggi “eroici”, sicuri di sè - dall'altro però ha portato alla creazione di un nuovo status nel campo dei survival horror: quello dei thriller psicologici.
Questo è il merito principale di Silent Hill, che oggi si è praticamente trasformato in un gioco di culto.
Titoli recenti come ObsCure, Project Zero, etc... non sono altro che "figli" di queste innovative implementazioni nel genere, che altrimenti sarebbe finito in noiosi circoli viziosi, come un serpente che si mangia la coda.
* phantasmagoria - n. 1. a shifting scene of real things, illusions, imaginary fancies, deceptions and the like.
2. a show of optical illusions in which figures increase or decrease in size, fade away, and pass into each other.
- World Book Dictionary.
* phantasmagoria - A ghost making machine used for popular entertainment from the late 18th century through to the 19th century. The device, developed by Belgian optician E.G. Robertson in the 1790s, projected convincing figures before an audience.
- The Encyclopedia of Ghosts & Spirits
Permettetemi di iniziare questa recensione con due “sentenze” che sgombrano il campo da ogni possibile equivoco: Phantasmagoria non può essere considerato né una vera e propria avventura grafica, né un film interattivo.
Non può essere considerata una AG (vecchio stile, intendo) perché è estremamente breve, gli enigmi sono facilissimi, l’inventario è quasi inesistente, i dialoghi sono completamente predeterminati e l’interfaccia è ridotta all’osso. Il tutto accompagnato da un sistema di hints che rende il gioco ancora più facile. Quindi, se Phantasmagoria fosse una AG, allora probabilmente sarebbe una pessima AG.
Del resto non c’è dubbio che si tratti di una scelta voluta da parte del game designer; dietro Phantasmagoria si cela niente di meno che la “madre delle AG”: quella Roberta Williams che, basti pensare alla serie di King's Quest, ha ampiamente dimostrato di saperle fare le avventure grafiche.
Perché quindi la scelta di uscire con un gioco che come AG non vale molto? In primo luogo perché evidentemente non era una AG vecchio stile quella che si voleva creare. In secondo luogo perché in quegli anni da più parti si cercò di ampliare il bacino d’utenza delle AG, semplificando le interfacce (vedi quella rivoluzionaria di Legend of Kyrandia dei Westwood Studios) e/o proponendo enigmi più semplici (per la Sierra vedi ad esempio King's Quest VII o Torin's Passage).
Phantasmagoria, pur con i suoi sette CD e le svariate ore di filmati, non è neppure un film interattivo. E non lo è per il semplice fatto che… non è interattivo.
Il giocatore è guidato dall’inizio alla fine del gioco lungo un percorso predeterminato, da cui non è possibile distaccarsi neppure minimamente. E per tutto il gioco è fin troppo forte la consapevolezza di non poter modificare per niente l’evolversi delle vicende, il che talvolta è anche frustrante perché spesso si intuisce cosa sta per accadere e si vorrebbe evitarlo.
Per non citare il fatto che solo pochi, dei già pochissimi, enigmi del gioco sono trasversali ai capitoli; cioè completabili in ordine sparso (il che è invece uno dei punti di forza di molte AG classiche, Zak McKracken per prima).
Lo stesso vale per i dialoghi recitati. Si preme su un personaggio e si assiste passivamente al filmato. Siamo anni luce lontani dal rivoluzionario sistema di dialoghi di Return to Zork. Se non altro però i filmati dei dialoghi evitano “l’effetto soporifero” tipico delle AG moderne che si avvalgono di inespressivi modelli poligonali per raffigurare i personaggi (vedi Still Life o Syberia).
Senza considerare che, dopo aver concluso tutti gli enigmi di un capitolo (tristemente indicati da una barra di progressione), potrete “terminare il CD” solo entrando nella locazione prevista per la conclusione del capitolo.
Del resto anche il finale, per fortuna non in stile “Hollywood”, è uno solo. Pandora Directive è, evidentemente, su un altro livello di interattività.
L’unico, ben poco significativo, elemento di interattività del gioco è rappresentato dall’ultimo capitolo, che ha quasi i tratti di un laser game (stile Dragon's Lair). Se nel corso dei capitoli precedenti si è entrati in possesso, risolvendo degli enigmi facoltativi, di alcuni oggetti, allora non sarà necessario procurarsi degli omologhi nel corso della scena finale. Ben poca cosa, insomma, anche se nel complesso la scena finale è divertente.
Concludendo su questo punto, personalmente credo che ad un film interattivo possa essere perdonata la brevità, la semplicità degli enigmi e perfino la presenza di un help che risolve per voi l’enigma che state affrontando, ma non si può passare sopra l’assoluta impossibilità di incidere sulla trama. Per questo sono convinto che Phantasmagoria non possa essere definito un film interattivo.
A sua difesa si può però argomentare che per l’epoca era un gioco estremamente ardito ed innovativo; probabilmente osare di più avrebbe comportato l’inutile rischio di uscire con un gioco poco convincente. Né può essere ignorato che i mezzi tecnici dell’epoca facevano sognare, ma non permettevano concretamente, di realizzare l’utopia del film interattivo: già con una storia estremamente lineare il gioco occupa 7 CD.
Se non è né una AG né un film interattivo, che cos’è Phantasmagoria?
Come avevo a suo tempo accennato nella recensione di Other Worlds, considero Phantasmagoria il capostipite di una nuova generazione di avventure grafiche.
Avventure che strizzano l’occhio ai giocatori meno esperti e agli appassionati di altri generi. E per farlo rinunciano ad elementi che fino ad allora sembravano irrinunciabili: la quantità e la difficoltà degli enigmi, la profondità dell’interfaccia, i toni umoristici e molto altro.
A questi elementi vengono sostituiti altri aspetti, che diventano senz’altro predominanti: lo stile grafico, la trama, la facilità di utilizzo e la semplicità con cui il gioco fila via davanti agli occhi dell’utente, che assomiglia sempre di più ad uno spettatore piuttosto che ad un giocatore.
Bisogna tuttavia sottolineare che questa svolta ha prodotto dei giochi eccezionali, da King's Quest VII a Full Throttle; la disarmante semplicità di Discworld 2 (se paragonata all’assurda complessità di certi enigmi di Discworld 1) nulla toglie a quella che resta pur sempre una bellissima avventura.
Né può essere ignorato che questa semplificazione della struttura delle AG ha permesso, a distanza di anni (con Syberia) di rilanciare davanti al grande pubblico un genere che sembrava caduto nell’oblio.
Però non si può neanche dimenticare che molte delle ultime AG (da Syberia fino a Still Life), se brillano per grafica e trama, lasciano invece decisamente a desiderare proprio in quanto ad enigmi. E allora, quando ci si trova davanti a giochi amatoriali come Other Worlds o 5 Days a Stranger, il “purista del genere” non può non rimpiangere gli enigmi e i toni scanzonati ed umoristici di una volta.
Per concludere il discorso sull’importanza di Phantasmagoria, inteso come primo passo verso una nuova generazione di AG, voglio spendere due parole sul contesto in cui è uscito il gioco.
La metà degli anni ’90 hanno rappresentato per i videogiochi un vero e proprio punto di svolta. Alla larga diffusione di lettori CD-ROM e schede audio è coinciso il diffondersi di idee e concetti… rivoluzionari. Multimedialità, film interattivo e realtà virtuale divennero parole di uso comune, simboli di una svolta ormai imminente nel divertimento elettronico.
A distanza di 10 anni non saprei dire se questa rivoluzione c’è stata e, se c’è stata, in quale misura. Certo, credo che alcune aspettative (tipo quelle legate ai film interattivi) ne sono uscite - ahimé! - ampiamente ridotte.
Resta il fatto che l’atmosfera di quel periodo è la migliore chiave di lettura per giochi come Phantasmagoria, che testimoniano il grande coraggio innovatore delle SH di quegli anni.
E tutto sommato ancora oggi fa piacere notare che, anche se per strade diverse da quelle allora immaginabili, certe utopie, come quella del film interattivo, vengono ancora inseguite; penso a titoli come Beyond Good & Evil, GTA: San Andreas e all’imminente Fahrenheit.
Fatte queste necessarie premesse, mi sembra che - così inquadrato - Phantasmagoria possa essere definito come un bellissimo e assai riuscito esperimento.
Se cercate una AG vecchio stile potete provare il leggendario King's Quest VI; se cercate un film interattivo (ammesso che siano mai esistiti) potete provare Under a Killing Moon.
Se invece cercate un gioco semplice ed immediato, che racconta una storia avvincente attraverso l’uso di filmati… beh, allora il gioco che fa per voi è senz’altro Phantasmagoria!
Da quando è uscito l’ho giocato (visto?) più e più volte, e mai ne sono rimasto deluso.
Per finire qualche considerazione su altri aspetti tecnici del gioco.
Uno degli aspetti più interessanti di Phantasmagoria è senz’altro la cura che è stata dedicata all’atmosfera e al linguaggio espressivo con cui è raccontata la storia.
Trovo molto interessante lo studio che è stato riposto nel fondere insieme i “trucchi scenici”, tipici dei più classici film horror, alle forme espressive tipiche invece del linguaggio dei videogiochi. Il che dimostra, ancora una volta, come Phantasmagoria sia effettivamente un rimarcabile esperimento.
Non riuscendo a spiegarmi meglio, provo a citare alcuni dei moltissimi esempi che mi vengono in mente:
- Tutte le schermate di gioco sono ricchissime di oggetti e particolari. La maggior parte dei quali sono inutili ai fini dell’avanzamento del gioco, ma assai coinvolgenti di per sé stessi. Essi vengono utilizzati per raccontare gli antefatti della storia o semplicemente per creare atmosfera: numerosissimi sono i casi in cui la protagonista osserva a lungo un oggetto senza che accada assolutamente niente, ma creando tuttavia un senso di inquietudine nel giocatore (che pure si è limitato soltanto a muovere il cursore per lo schermo e a premerlo sull’oggetto “attivo”).
- Ogni locazione è realizzata in computer grafica, con i personaggi filmati “incollati” sopra. L’effetto rende molto bene, senza che per questo si noti uno stacco fra gli sprite dei personaggi e gli sfondi. Fra le altre cose, questa tecnica permette al “regista” di creare riprese assai suggestive con il minimo sforzo. Il suo utilizzo è poi portato all’estremo in una sezione del gioco in cui la protagonista fugge per tutto il castello, con una serie di inquadrature “storte” che conferiscono alla scena un grande senso di velocità e angoscia, che ricorda Alone in the Dark o Resident Evil.
- Tanti piccoli particolari insignificanti, che nel corso del gioco mutano subdolamente, suscitando una forte sensazione di pericolo imminente. Ad es. un inquietante dipinto astratto, all’inizio del gioco appena abbozzato, viene misteriosamente completato di capitolo in capitolo, per poi rivelare in una sola volta ciò che rappresenta. Senza però che esso abbia alcuna funzione nell’economia del gioco vero e proprio, che ben può essere portato a termine senza mai ispezionare il quadro.
- Una trama che sa svelarsi lentamente, dedicando la prima metà del gioco ad un lento aumentare della tensione e della sensazione che sta per accadere qualcosa, per poi precipitare in una serie inarrestabile di eventi che si susseguono precipitando negli ultimi capitoli.
GRAFICA 8/10
Il comparto grafico è realizzato in stile "ibrido", vale a dire che è costituito da fondali bidimensionali (statici) su cui si muovono modelli tridimensionali. Ad ogni modo i modelli dei personaggi sono tutti realizzati in modo eccellente, con un gran numero di texture ad altissima definizione, e ciò garantisce, insieme agli spendidi fondali prerenderizzati, un impatto grafico sicuramente ottimo. In sostanza siamo molto vicini allo stile dei vari Resident Evil, ma la cosa che contraddistingue Alone in the Dark:The new nightmare da essi è il fatto che il fondale stesso "reagirà" in modo diverso all'esposizione di differenti fonti di luce come ad esempio della torcia (alla Silent Hill) del protagonista.
SONORO 9/10
Anche la realizzazione degli effetti sonori è eccellente, a partire dai vari effetti (spari, passi del protagonista,dei mostri, ottimo doppiaggio) per finire alla inquietante colonna sonora che ci accompagnerà praticamente per tutto il gioco, incutendo un senso crescente di disagio all'avvicinarsi di determinati momenti topici del gioco...
TRAMA 9/10
E' questo a mio avviso il vero punto di forza del gioco, una storia senza ombra di dubbio fra le migliori in assoluto che mi sia mai capitato di vedere in un videogioco, che ci regalerà momenti di vera tensione da un lato e colpi di scena da film noir dall'altro lato...ma andiamo per ordine. Tutto ha inizio in una tetra e grigia notte. Il detective privato Edward Carnby riceve l'incarico di proteggere la studiosa Aline Cedrac nel suo incarico, che consiste nel ritrovare e decifrare delle antiche Steli crittografate con i caratteri degli indiani Abkanis, su Shadow Island. Aline deve verificare le teorie del professor Obed Morton, che si stava occupando del caso prima di lei,ma qui iniziano i colpi di scena. Esiste la possibilità che il professore possa essere suo padre, che non ha mai conosciuto, poichè Aline è in possesso di una foto che lo ritrae insiema alla sua defunta madre...
GIOCABILITA' 8/10
Tutti noi ricordiamo il primo episodio della saga, un piccolo capolavoro e ancor oggi un classico che diede vita ad un genere. Cosa rimane in questo gioco di quella piccola, meravigliosa perla? Molto, da un lato, e poco da un altro lato. Poco perchè qui si da anche molto risalto ai combattimenti, come avviene in Resident Evil. Le armi a nostra disposizione sono dei tipo più disparato l'azione appunto rappresenta una fetta molto importante della nostra avventura. Molto, perchè in ogni caso come nel grande Capostipite della serie, ci troveremo ad affrontare complessi ed intricati enigmi nella casa maledetta della famiglia Morton. In nostro aiuto avremo solo una piccola torcia elettrica in stile Silent Hill, che crea un grande effetto scenografico, il nostro arsenale, e una radiolina per comunicare con il nostro compagno. All'inizio del gioco infatti potremo decidere se vestire i panni di Carnby o di Aline, in due avventure nettamente distinte tra loro, ma che verranno progressivamente congiungendosi, tant'è che i due personaggi molto spesso si incontreranno durante il gioco. L'avventura di Carnby è più leggermente più improntata all'azione mentre quella di Aline (che consigli di giocare per prima) è assolutamente più cervellotica, con enigmi degni di questo nome. Ecco che allora il gioco si "sdoppia", permettendoci di vivere in sequenza due avventure distinte! Il sistema di salvataggio è analogo a quello di resident evil. (ricordate gli ODIOSI inchiostri?!!) per salvare dovremmo avere a disposizione dei "medaglioni" che ci consentono appunto di ripartire da dove avevamo lasciato. Tuttavia se ne trovano in grande abbondanza nella casa, quindi non dovrebbe costituire un problema. Il sistema di controllo utilizza escusivamente la tastiera, e si dimostra sufficientemente adeguato a tutte le situazioni che ci si presenteranno nel gioco.
LONGEVITA' 8/10
Proprio per il fatto che il gioco in realtà si "sdoppia" ciò consente di avere a nostra disposizione numerosissime ore per portare a termine entrambe le avventure! E non crediate che dopo aver completato il gioco con un personaggio, con l'altro personaggio si ripetano i medesimi passaggi! Niente di più sbagliato! Se è vero che le ambientazioni inevitabilmente verranno a coincidere prima o poi, le avventure dei nostri due eroi saranno completamente differenti ma si completeranno a vicenda e infatti solo dopo aver giocato entrambe riusciremo a venire a capo di determinati retroscena della trama.
GIUDIZIO
Il primo Alone in the Dark fu un capolavoro. Oggi, questo gioco si propone di riportarlo alla luce per fargli giustamente ereditare il titolo di Capostipite di un genere (ingiustamente attribuito da molti a Resident Evil). Devo dire che alla fine solo rimasto a lungo attaccato al monitor, deciso più che mai a vedere come progrediva la storia, ma in parte il gioco mi ha deluso, perchè da un lato vuole riproporre i fasti del glorioso primo episodio, ma dall'altro si ritrova a scopiazzare determinati elementi proprio da giochi come Resident Evil o Silent Hill (uso dei medaglioni, la torcia, vastissimo arsenale a disposizione). In conclusione si tratta comunque di un ottimo titolo, sicuramente da provare.
Sicuramente AITD è uno dei giochi che ha fatto la storia dei videogames, grandissimo in tutti i sensi!
Si può senz'altro definire come il "precursore ideale" di tanti altri giochi che hanno avuto successo negli anni seguenti, dai vari Resident Evil ai Silent Hill di turno, caratterizzati da atmosfere in bilico tra la realtà e l'incubo.
AITD porta con sé numerose novità sia per quanto riguarda il gameplay sia per quanto riguarda il comparto grafico.
Iniziamo proprio da quest'ultimo: la visuale è in terza persona, tuttavia la telecamera non è fissa sul nostro personaggio ma spazia da più angolazioni e sinceramente a volte ci troveremo di fronte a delle inquadrature degne del più terrificante film Thriller/horror!
Inoltre viene utilizzato un motore interamente in 3D, compresi i fondali e soprattutto i personaggi, costituiti per la prima volta da poligoni!
Ricordiamo che all'epoca una cosa del genere era pura fantascienza, visto che comunque in tutti i giochi precedenti, seppure all'apparenza sembravano ricalcare dei motori 3D, in realtà si trattava di un "falso" 3D, i personaggi ad esempio erano costituiti da figure bidimensionali "maestralmente celate in 3D".
Tanto per capirci, nello stesso Doom, se proviamo ad alzare e abbassare lo sguardo, ci accorgiamo che i personaggi e determinate ambientazioni non hanno spessore, cioè manca la terza dimensione!
Una menzione va sicuramente fatta anche per la colonna sonora, mai "invadente", ma che comunque ci accompagnerà per tutta la nostra avventura facendoci sussultare dalla sedia in determinate occasioni di particolare tensione, magari in corrispondenza di un cambio di inquadratura particolarmente inquietante, proprio come in un film horror di tutto rispetto!
Veniamo al gameplay, che è sicuramente uno degli aspetti più innovativi di tutto il gioco, che poi è stato copiato pari pari da tutti, e dico TUTTI i survival horror che sono venuti in seguito.
Con i tasti direzionali potremo muovere liberamente il nostro personaggio, mentre accedendo alla schermata principale dell'inventario col tasto "Enter" potremo selezionare un'azione da compiere, come ad esempio esplorare la zona circostante in cerca di indizi utili al proseguimento della storia, leggere libri che troveremo in giro per Villa Derceto, combattere, utilizzare uno o più oggetti dell'inventario fra loro o in determinate locazioni ecc.
Una pecca del gioco a tal proposito a mio avviso è costituita dal sistema di combattimento. Molto spesso infatti, per la totale assenza di un mirino o di un sistema di auto-puntamento, non riusciremo a individuare la corretta posizione da assumere per sparare (e centrare!) un avversario e il più delle volte ci ritroveremo ad imprecare perchè avremo sprecato delle preziose munizioni (che non si trovano in gran quantità).
Per il resto, niente da imputare al sistema di controllo, semplice ed efficace in ogni occasione.
Infine, la trama: un vero e proprio turbinio di misteri che verranno a poco a poco svelati attraverso la consultazione dei libri e dei diari che troveremo durante la nostra avventura.
Vi basti sapere per quanto riguarda la trama che un investigatore privato, Edward Carnby, viene contattato da una benestante signora per una faccenda che all'apparenza sembra una banalissima indagine riguardante una eredità da percepire. Ma Carnby non sa assolutamente cosa l'aspetta una volta arrivato nella Villa Derceto...!
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