DunjonQuest
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Non si può enfatizzare abbastanza quanto i war games e i giochi di ruolo da tavolo (e in particolare, ovviamente, Dungeons and Dragons della TSR) abbiano influenzato le prime narrative ludiche su computer. A volte tale influenza è del tutto palese, come nel caso di giochi tipo Eamon che cercavano esplicitamente di trasportare su computer l'esperienza del D&D. Altre volte però tale influenza è meno apparente.

A differenza dei tipici giochi da tavolo, o perfino dei war game, il D&D e i suoi contemporanei non erano commercializzati come prodotti singoli, ma come delle vere e proprie raccolte di esperienze, quasi uno stile di vita. Solo per iniziare a giocare con la punta di diamante, l'Advanced Dungones & Dragons, si dovevano acquistare tre grandi volumi dalla copertina rigida (Monster Manual, Players Handbook, e Dungeon Masters Guide), a cui si aggiunsero presto molti altri volumi, che descrivevano nuovi mostri, nuovi tesori, nuovi dei, nuove classi di personaggio, e nuove regole sempre più complesse per nuotare, per creare oggetti, per muoversi nelle ombre, per rubare, e -ovviamente- per combattere. Ma, soprattutto, c'erano i moduli d'avventura: avventure preconfezionate, vere e proprie narrative ludiche che potevano essere messe in scena utilizzando il sistema di gioco di D&D. Ne uscivano a dozzine, meticolosamente catalogate con un sistema alfanumerico che permetteva ai collezionisti compulsivi di tenerne traccia; una trilogia di moduli dedicati ai giganti fu etichettata da “G1” a “G3”, una serie di moduli creata nel Regno Unito fu etichettata “UK” [che sta per “United Kingdom”; ndAncient]. A parte i vari vantaggi ludici, questo sistema era indubbiamente il sogno di ogni addetto alle vendite. Perché limitarsi a vendere un solo gioco ai tuoi clienti, quando puoi incatenarli a un intero universo in continua espansione di prodotti?

La strategia di marketing della TSR (basata sulla filosofia di “un solo gioco / molti prodotti”) e il suo zelo per la catalogazione possono essere ritrovati anche fra quei primi sviluppatori di giochi per computer che non stavano provando esplicitamente ad adattare le regole del D&D ai loro mondi digitali. Scott Adams, per esempio, numerò tutte le sue avventure, arrivando così a una dozzina di giochi canonici (altre avventure, presumibilmente non scritte di proprio pugno dal maestro, furono invece pubblicate dalla Adventure International come delle specie di opere apocrife ufficiali sotto l'etichetta “OtherVentures”). I giocatori venivano incoraggiati a giocarle in ordine, visto che aumentavano gradualmente di difficoltà; in questo modo il giocatore principiante poteva affilarsi i denti con opere relativamente “forgiving” tipo Adventureland e Pirate Adventure, per poi gettarsi nei giochi successivi assurdamente difficili tipo Ghost Town e Savage Island. La On-Line Systems adottò un modello simile, sottotitolando retroattivamente Mystery House in Hi-Res Adventure #1 dopo aver pubblicato la Hi-Res Adventure #2 (The Wizard and the Princess). Il gioco successivo Mission: Asteroid, apparso all'inizio nel 1981, fu battezzato Hi-Res Adventure #0 (nonostante la cronologia delle uscite) perché era stato pensato come gioco per principianti, con un po' meno assurdità ed enigmi iniqui del solito. A tutti gli effetti queste similitudini con l'approccio del D&D erano qualcosa di più di un semplice fenomeno di marketing. Del resto entrambe le linee di giochi erano basate su motori riutilizzabili. Nello stesso modo in cui un gruppo di giocatori viveva intorno al tavolo molte avventure diverse usando le regole alla base del D&D, così le linee di avventure di Scott Adams o le Hi-Res Adventures erano essenzialmente delle regole base (il motore di gioco) applicate a molte narrative ludiche diverse.

Tuttavia, fra gli sviluppatori che abbiamo esaminato fin qui, quelli che imitavano in modo più palese il modello del D&D erano -logicamente- quelli che provenivano direttamente dalla cultura del D&D: Donald Brown con il sistema di Eamon, e le Automated Simulations, gli sviluppatori della linea DunjonQuest che era iniziata con Temple of Apshai. J.W. Connelley, il principale sviluppatore del motore dell'Automated Simulations, aveva progettato per Temple of Apshai un motore riutilizzabile che leggeva i file di dati che rappresentavano i livelli del dungeon che si esplorava. Proprio come accadde per Scott Adams e per la On-Line Systems, questo approccio da un lato rese il gioco più facile da convertire (e infatti le versioni per tutte le principali macchine del 1979 -TRS-80, Apple II, Commodore PET- furono pubblicate quello stesso anno), e dall'altro lato velocizzò lo sviluppo di nuove iterazioni del medesimo concept. Tali iterazioni furono etichettate come un set unico di esperienze, che prese il nome di DunjonQuest. Il pittoresco appellativo dalla dizione medievale fu probabilmente scelto per evitare conflitti con la litigiosissima TSR, che, oltre alle regole del D&D, stava commercializzando anche un gioco da tavolo chiamato semplicemente Dungeon!

E la Automated Systems non fece certo mancare tali iterazioni! Altri due titoli della collana DunjonQuest apparvero lo stesso anno di Temple of Apshai. Sia Datestones of Ryn che Morloc’s Tower facevano parte di quelle che la Automated Simulations chiamò MicroQuests, nelle quali gli elementi di costruzione del personaggio erano completamente assenti. Al loro posto il giocatore doveva guidare un personaggio pregenerato attraverso un ambiente molto più piccolo. Ci si aspettava che il giocatore affrontasse più volte l'avventura, cercando di conseguire risultati sempre migliori. Nel 1980 la Automated Simulations pubblicò invece il “vero” seguito di Temple of Apshai, Hellfire Warrior, che conteneva i livelli dal quinto all'ottavo del labirinto iniziato col gioco precedente. Sempre quell'anno pubblicarono anche due titoli più modesti, Rescue at Rigel e Star Warrior, le prime e uniche uscite di una nuova serie, StarQuest, che catapultava il sistema DunjonQuest nello spazio.

Almeno secondo una prospettiva moderna, c'è una sorta di dissonanza cognitiva in queste serie, se le esaminiamo nel loro complesso. I manuali spingevano molto sull'aspetto sperimentale di questi giochi, come ben dimostrato da questo estratto del manuale di Hellfire Warrior:

Quali che siano il tuo background e le tue esperienze precedenti, ti invitiamo a proiettare nel “dunjon” non solo il tuo personaggio, ma anche tutto te stesso. Ti invitiamo a perderti nel labirinto. A sentire la polvere sotto i tuoi piedi. Ad ascoltare il suono di passi non umani che si avvicinano o il lamento di un'anima persa. Lascia che l'odore di zolfo assalga le tue narici. Brucia al caldo delle fiamme dell'inferno, e gela sopra un ponte di ghiaccio. Passa le dita in un cumulo di monete d'oro e immergiti in una pozza d'acqua magica.
Entra nel mondo di DunjonQuest.

Nonostante tutto questo, nessuno di questi giochi aveva la benché minima trama. Temple of Apshai e Hellfire Warrior non hanno nemmeno una fine vera e propria, ma solo dei dungeon che si rigenerano all'infinito da esplorare e un personaggio giocante da migliorare in eterno. Mentre le MicroQuests ricompensano i giocatori solo con un insoddisfacente punteggio finale al posto di un epilogo vero e proprio. Sebbene il background narrativo del suo manuale sia ideato con un'attenzione insolita, Datestones of Ryn ha un limite temporale di soli 20 minuti, che gli dà più un feeling da gioco d'azione, giocabile all'infinito e quasi privo di contesto, piuttosto che da gioco di ruolo per computer. Invece il gameplay della serie nel suo complesso, oggi, ci balza all'occhio per le sue similitudini con i roguelike, dei dungeon crawl senza storia (o, almeno, con pochissima storia) attraverso labirinti generati casualmente. Questa però sarebbe una lettura anacronistica: Rogue, il capostipite del genere, in realtà è uscito un anno dopo Temple of Apshai.

Credo che tutte queste stranezze possano essere spiegate se comprendiamo che Jon Freeman, il principale designer dietro il sistema, stava puntando a creare un tipo di narrativa ludica diverso da quella delle avventure testuali di Scott Adams e da quella tipica della On-Line Systems. Lui sperava che, dati un background, una descrizione degli ambienti, un set di regole per controllare ciò che vi accadeva, e una buona dosa di immaginazione da parte del giocatore, dal gioco emergesse autonomamente una narrativa ludica. In altre parole, usando un termine che appartiene ad un'era molto successiva, stava tentando di creare una narrativa emergente. Per comprendere meglio il suo approccio, ho pensato di dare una breve occhiata da vicino a uno dei suoi giochi, Rescue at Rigel

Rescue at Rigel trae ispirazione dalla classica space opera, un genere che è stato recentemente riportato in vita dal fenomenale successo dei primi due film di Star Wars [l'articolo è stato scritto nel 2011, quindi l'autore si riferisce alla seconda trilogia di Guerre Stellari; ndAncient].

Nell'arena della vostra immaginazione, non tutti i nostri eroi (o le nostre eroine!) indossano armature nere o di uno scintillante argento, né prendono a mazzate dei barbari nemici su dei moli sferzati dal vento, né affrontano dei macabri destini per mano di depravati adepti le cui arti nere erano già vecchie quando il mondo era giovane. La fantascienza ci fa viaggiare su navi stellari con nomi come Enterprise, Hooligan, Little Giant, Millenium Falcon, Nemesis, Nostromo, Sisu, Skylark, e Solar Queen. Navi che viaggiano su mari stellati, che non sono percorsi da tempeste o infestati da demoni, ma che non per questo sono meno spaventosi. Navi che ci fanno approdare su nuovi mondi impavidi le cui forme, i cui panorami e i cui suoni sono più plausibili (ma non meno sbalorditivi) di quelli sperimentati da Sinbad.

In questo titolo il giocatore assume il ruolo di Sudden Smith, un classico ed energico eroe pulp. Sta per teletrasportarsi nella base di una razza di alieni insettoidi conosciuti col nome di Tollah, che hanno catturato un gruppo di scienziati per le loro “ricerche” e fra questi c'è anche la fidanzata di Sudden. I Tollah sono uno dei pochissimi accenni ad eventi di un mondo più ampio che troverete nei primissimi videogiochi, al di là delle opere di fantasy e science-fiction. La casta che comanda i Tollah sono gli “High Tollah”, un chiaro riferimento allo Ayatollah Khomeyni, che a quel tempo aveva recentemente preso il potere in Iran e che teneva in ostaggio 52 Americani [“High Tollah”, cioé “Alto Tollah”, si pronuncia infatti in modo molto simile a Ayatollah; ndAncient]. Gli “High Tollah” ci dice il manuale, “sono altezzosi, autoritari, intolleranti, ottusi, privi di immaginazione e inflessibili.” Alla luce di tutto questo, è palese quale sia stata l'ispirazione per questo scenario di salvataggio degli scienziati.

Il gameplay si sviluppa intorno all'esplorazione della base dei Tollah, convenientemente strutturata come un labirinto, respingendo i Tollah e i robot della sicurezza, mentre cerchiamo i dieci scienziati che vi sono tenuti in ostaggio. Si tratta sostanzialmente, come in tanti altri giochi di ruolo per computer, di un gioco di gestione delle risorse: Sudden ha un numero limitato di medikit, di munizioni, e soprattutto una riserva limitata di energia all'interno del suo zaino che deve essere usata per tutto (dallo sparare agli Tollah, fino al teletrasportare gli scienziati al sicuro). Quel che è peggio è che Sudden ha soltanto 60 minuti di tempo reale per salvare il maggior numero possibile di scienziati e teletrasportarsi al sicuro. Freeman fa di tutto per rendere il gioco un motore di eccitante narrativa emergente. Ad esempio, se Sudden finisce completamente l'energia, ha comunque un'ultima possibile via di fuga: se riesce a tornare nei 60 minuti al punto in cui lo ha depositato il teletrasporto, un altro teletrasporto automatico lo riporterà in salvo. È facile immaginarsi una situazione disperata, che pare uscita direttamente da una storia di Guerre Stellari o di Dominic Flandry, con il giocatore che torna sui suoi passi, in mezzo al fuoco dei laser, mentre il tempo scorre e i Tollah gli sono alle calcagna. Di certo ci possiamo immaginare che Freeman si fosse immaginato tutto questo.

Ma per vivere queste storie è necessaria una notevole dedizione e una fervida immaginazione da parte del giocatore, come potrà probabilmente convenire chiunque abbia osservato l'orrendo screenshot di cui sopra. Effettivamente i giochi della serie DunjonQuest sembrano proprio una sorta di ibrido fra l'esperienza di un gdr da tavolo e di uno digitale, in cui ciò che emerge direttamente dall'immaginazione del giocatore è importante quanto quello offerto dal gioco stesso. È per questo che probabilmente è stata una mossa saggia per la Automated Simulations quella di usare come target del marketing di DunjonQuest proprio i giocatori di ruolo cartaceo. Del resto loro sono abituati a rimboccarsi le maniche e a usare la loro immaginazione per inventare delle narrative soddisfacenti. La Automated Simulations pubblicizzò ampiamente DunjonQuest sulla rivista Dragon Magazine della TSR, e (con una mossa che non potrebbe essere più indicativa della tipologia di pubblico che pensavano potesse apprezzare DunjonQuest) arrivarono persino a regalare il gioco da tavolo strategico chiamato Sticks and Stones con ogni acquisto di un gioco della serie DunjonQuest.

Negli ultimi mesi del 1980 la Automated Simulations cambiò il suo nome nel meno prosaico Epyx, adottando il motto: “Computer games thinkers play” [traducibile all'incirca come “Videogiochi a cui giocano le persone che pensano”; ndAncient]. I giochi della serie DunjonQuest continuarono comunque a uscire per altri due anni. Fra le ultime pubblicazioni ci furono anche un paio di espansioni per Temple of Apshai e Hellfire Warrior, che credo siano i primi esempi del genere tra i giochi commerciali per computer. Invece l'utilizzo più strano e creativo dell'engine di DunjonQuest arrivò nel 1981 con Crush, Crumble, and Chomp!: The Great Movie Monster Game, nel quale il giocatore assumeva il controllo di Godzilla (anzi, no, di Goshzilla!), o di qualche altro mostro famoso lanciato nella distruzione di una città. Per un esame dettagliato di tutta la serie di DunjonQuest, che alla fine si compose di una dozzina di titoli, potete leggere questo articolo di Hardcore Gaming 101.

Crush, Crumble, and Chomp! fu l'ultimo lavoro di Freeman per la Epyx. Alla West Coast Computer Faire of 1980 incontrò infatti una collega programmatrice chiamata Anne Westfall e di lì a poco i due iniziarono a frequentarsi. Westfall si unì alla Epyx per un po', andando a lavorare come programmatrice su alcuni degli ultimi giochi di DunjonQuest. Lei e Freeman però ben presto si stufarono del disinteresse di Connelley nel miglioramento dell'engine di DunjonQuest. Scritto in BASIC sull'ormai vetusto TRS-80 Model I, tale engine era sempre stato tremendamente lento e ormai iniziava a sembrare davvero datato nei porting per le piattaforme più moderne e capaci. In più Freeman, un designer irrequieto e creativo, si stava annoiando delle continue iterazioni del solito concept di DunjonQuest; perfino creare Crush, Crumble, and Chomp! aveva richiesto una dura battaglia da parte sua... Alla fine del 1981 Freeman e Westfall lasciarono la Epyx per creare una casa di sviluppo indipendente, la Free Fall Associates, della quale avrò molto altro da dire in futuro. E, dopo un paio di ultime pubblicazioni per DunjonQuest, la Epyx si trasformò da “Computer games thinkers play” in qualcosa di molto diverso, e anche di questo avrò molto da dire in futuro. Con incassi buoni, ma mai enormi, neppure al massimo del proprio splendore, i giochi della serie DunjonQuest sfiguravano abbastanza nel confronto con la nuova generazione di giochi di ruolo per computer, dei quali -come avrete immaginato- avrò molto altro da dire in futuro.

Se volete sperimentare l'esperienza di DunjonQuest, posso fornirvi un pacchetto con un immagine per Apple II che include Temple of Apshai, Rescue at Rigel, Morloc’s Tower, e Datestones of Ryn, oltre ai relativi manuali.

La prossima volta inizieremo a esplorare un'opera con una profondità tematica senza precedenti, che fa già drizzare tutte le mie antenne di studioso di letteratura.

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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Temple of Apshai
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

 
Nel 1978 un tizio chiamato Jim Connelley acquistò un Commodore PET pensando che gli sarebbe stato d'aiuto nella gestione della campagna di Dungeons and Dragons che stava conducendo. Quando finalmente lo ebbe a casa, forse realizzando che l'utilità di quella meraviglia a 8 K era quantomeno limitata, fu assalito dal rimorso per i soldi spesi. Così, poiché amava i giochi, gli venne l'idea di scriverne uno per quella macchina: anche se non avesse venduto abbastanza copie da farci un vero guadagno, se non altro avrebbe potuto usare quel progetto per detrarre l'acquisto del PET dalle sue tasse a titolo di "business expense". Sfortunatamente però Connelley si rivelò migliore come programmatore che come game designer, e così i suoi primi tentativi non portarono a niente di concreto. Si decise così a chiedere aiuto a uno dei suoi giocatori di D&D, Jon Freeman. Costui era nella situazione diametralmente opposta: aveva lavorato per diversi anni come giornalista freelance di giochi ed era particolarmente portato per il game design, ma non aveva nessuna nozione di programmazione. Fra i due fu subito celebrato un matrimonio di convenienza.
 
Il primo frutto di questa unione apparve già prima della fine dell'anno: si trattava di un gioco di strategia spaziale chiamato Starfleet Orion. Per poterlo pubblicare Connelley e Freeman dettero vita alla Automated Simulations, il primo publisher della storia dedicato esclusivamente ai videogiochi. Starfleet Orion ha un aspetto alquanto bizzarro se lo guardiamo con gli occhi di oggi, perché sembra più un “construction set” con un pizzico di valenza ludica, piuttosto che un videogioco vero e proprio. Il suo manuale traccia un elaborato background per giustificare una dozzina di scenari di battaglie spaziali fra due razze aliene. La disposizione e l'ordine di battaglia per ognuno dei due schieramenti ci viene dato, in pieno stile wargame da tavolo, nel manuale; quindi il primo passo, prima di poter giocare davvero, consiste nell'inserire a mano tutti questi dati in un programma, per poi salvarlo su una cassetta vuota usando un programma separato chiamato BUILDER. Con un tocco che per le sensibilità odierne è particolarmente assurdo, nel manuale troviamo anche il codice sorgente del gioco in BASIC, qualora il giocatore volesse ritoccarlo o la cassetta che lo conteneva  si rovinasse. Starfleet Orion non solo era pensato per due giocatori, ma richiedeva anche un ingente investimento di tempo: il manuale stimava che lo scenario finale avrebbe richiesto circa sei ore per essere giocato, ovviamente senza nessuna possibilità di salvare.  Freeman e Connelley risolsero almeno in parte il primo problema con Invasion Orion (un sequel più accessibile che prevedeva la possibilità di giocare da soli), che fu pubblicato all'inizio del 1979.
 
 
Ma la loro pubblicazione più significativa del 1979 li portò lontani dallo spazio, giù nei meandri di  un dungeon. Per Temple of Apshai fecero entrare anche un terzo socio, preso direttamente dal loro gruppo di D&D,  Jeff Johnson, affinché li aiutasse con un progetto ancora più ambizioso. Temple of Apshai sarebbe dovuto essere infatti un vero e proprio GDR per computer, che attingesse alla tradizione dei giochi su PLATO (tipo dnd), ma che al tempo stesso pagasse un esplicito omaggio alla più autentica esperienza del vero D&D da tavolo, che li aveva fatti conoscere. Non a caso il manuale si apre con una descrizione del gioco esperienziale che è tratta direttamente dalla loro esperienza di gioco dal vivo:
 
"I giochi di ruolo non vengono "giocati", quanto piuttosto "vissuti". Invece che manipolare un esercito di pedine su una scacchiera astratta ma visibile, o invece che seguire una singola pedina intorno ad un percorso predefinito prendendo 200 dollari ogni volta che si passa dal VIA, nei GdR ti avventuri in un mondo sconosciuto con una singola pedina, il tuo alter ego dentro il gioco (un personaggio che viene da un mondo di demoni e tenebre, di draghi e di nani). Attraverso gli occhi di questo personaggio vedi una scena che ci viene descritta a voce "dall'autore" dell'avventura – e nient'altro. Non c'è scacchiera e non c'è nessun evento fortuito da pescare dal mazzo; il paesaggio immaginario esiste solo negli appunti del creatore del mondo (comunemente definito "arbitro" o "dunjonmaster") e -gradualmente- nell'immaginazione tua e dei tuoi compagni. Ti imbarchi in una missione in cerca di gloria e di fortuna in compagnia di altri giocatori/personaggi, dove sei sia il protagonista che il lettore di una storia epica che stai contribuendo a creare. Il tuo personaggio fa tutto ciò che tu desideri che egli faccia, secondo le sue umane (o quasi umane) capacità e i capricci della fortuna. Combatti, scappa, chiedi una tregua; prendi la strada a sinistra, o quella a destra: la scelta è solo tua. Puoi scalare la montagna, oppure girarci attorno, ma poiché in cima potrebbe esserci una roccia, oppure un uovo di roc, oppure un roc vero e proprio, potrai trovare sfide e conflitti anche senza dover combattere contro i tuoi compagni giocatori, che solitamente saranno sulla tua stessa barca (magari anche letteralmente)".
 
 
Come i giochi della serie Orion, anche Temple of Apshai mette in primo piano i suoi aspetti esperienziali. I giochi come dnd diventavano rapidamente degli esercizi astratti di tattica e strategia, in cui era necessario riservare ben poca attenzione alle premesse narrative che avrebbero dovuto giustificare la nostra esplorazione del dungeon. Temple of Apshai invece fa tutto il possibile per non farci adottare un tale atteggiamento mentale. Tenta esplicitamente di farci calare nei suoi cunicoli umidi in vari modi: cercando di fare proseliti con l'introduzione di cui sopra; utilizzando un ampio background volto a giustificare l'esistenza del dungeon che stiamo esplorando; descrivendo il personaggio che siamo liberi di utilizzare come il nostro alter ego (“Brian Hammerhand”); e -soprattutto- utilizzando tutta una serie di descrizioni delle stanze che visiteremo, simili a quelle di un modulo d'avventura di D&D, che al giocatore è richiesto di leggere dal manuale mano a mano che esplora il dungeon:
 
"Stanza Uno – La pietra levigata del pavimento del corridoio mostra che nella sua costruzione sono state utilizzate tecniche piuttosto avanzate. Subito al di là della porta uno scheletro è disteso sul pavimento, la mano scheletrica -ancora stretta su un pugnale rugginoso- è allungata verso la salvezza dell'uscita. Un debole fragore può essere sentito provenire dall'altra estremità del cunicolo".
 
A differenza di altri dei primi dungeon crawl, i cui dungeon erano generati casualmente (o ideati talmente a casaccio che era come se lo fossero stati), i labirinti di Temple of Apshai sono costruiti per trasmettere la sensazione di un luogo reale, anche se ciò significa che i suoi mostri sono in gran parte limitati ai tipici abitanti delle fogne (ratti giganti e vari insetti giganti) e, nei livelli inferiori che ospitano il tempio vero e proprio, a non morti vari.  
 
A essere onesti, l'aver posto tutto questo accento sulla componente esperienziale appare un po' ridicolo per le moderne sensibilità, perché... beh, tanto per iniziare ecco l'aspetto del gioco nella sua originale incarnazione per TRS-80:
 
 
Il fatto che questa grafica risulti un po' deludente non è però colpa dei designer di  Temple of Apshai. Il TRS-80 era limitato al bianco e nero (e non, è bene precisarlo, alla scala di grigi – proprio due soli colori: bianco e nero). E poi non aveva delle vere e proprie capacità grafiche così come le intendiamo oggi, ma solo grafica a caratteri testuali (oltre ai 64 glifi comunemente utilizzati in Inglese, includeva altre 64 tile grafiche, ognuna con una semplice forma astratta al posto del glifo di un carattere. Combinando i due tipi di glifi insieme, era possibile costruire immagini più grandi, pur restando all'interno di quella che era essenzialmente una modalità di visualizzazione meramente testuale). Alla luce di una modalità di visualizzazione del genere e di un computer dotato di soli  16 K e basato su cassette, Temple of Apshai può essere considerato una notevole impresa tecnica.
 
Anche le regole del gioco portano il segno di un game designer d'esperienza. In realtà non attingono così massicciamente al D&D come ci si potrebbe aspettare, date le origini del gioco e il lungo elogio dell'esperienza "pen and paper" che caratterizza il manuale. Anche se le sei caratteristiche base dei personaggi sono presenti proprio come ci si aspetterebbe, e anche se esse sono rappresentate da un punteggio variabile da 3 a 8 proprio come nel D&D classico, il combattimento e il movimento sono sostanzialmente originali: un sistema "pseudo-real-time" che dimostra l'intenzione di sfruttare le capacità uniche del computer, piuttosto che limitarsi a tradurre in codice le regole del gioco "pen and paper". E infatti Temple of Apshai, come gioco, funziona perfino meglio di quello che ci si aspetterebbe: c'è vera tensione mentre si attraversa il labirinto, dovendo decidere se sfidare la sorte e continuare ad avanzare, oppure se voltarsi e ritirare verso l'uscita, impauriti dalla possibile apparizione di un altro mostro errante mentre -a fatica e gravemente feriti- ripercorriamo i nostri passi, avendo magari sfidato la sorte più del necessario. L'esperienza trasmette una sensazione viscerale, che tanti dungeon crawler successivi non riusciranno a catturare. Ciò dipende, in parte dal gameplay in tempo reale, ma anche da altre scelte che non hanno un corrispettivo nel D&D da tavolo. Mano a mano che il vostro personaggio perde salute, per esempio, si muove più lentamente, si affatica prima e diventa meno efficiente, dimostrando quindi il suo stato in modo decisamente palpabile. Il design di Freeman è particolarmente intelligente, e da tanti punti di vista risulta perfino originale (anche rispetto a tanti giochi che lo seguiranno). 
 
Ma ci sono dei limiti a ciò che anche un bravo game designer può fare su un TRS-80 da 16 K. Possiamo certamente perdonare facilmente l'assenza totale di magia nel gioco: sostanzialmente il giocatore può impersonare soltanto l'equivalente della classe del guerriero di D&D. Più penalizzante è il fatto che le due componenti del gioco, "Inkeeper" ["Taverniere"] (che veniva usato per la gestione del personaggio) e  “DunjonMaster” (dove si svolgeva invece l'esperienza esplorativa nel labirinto) in realtà non comunicano davvero fra loro. Ci si aspetta infatti che il giocatore tenga traccia autonomamente per ogni spedizione delle sue caratteristiche e degli oggetti che trova nel labirinto, per poi inserirli manualmente quando rientra in Innkeeper! A questo va poi aggiunto che, anziché essere collegati fra loro, i quattro livelli del dungeon hanno accessi separati: niente impedisce al giocatore di inserire un super personaggio in Innkeeper e iniziare la sua esplorazione già dal livello 4. E del resto non è che l'esplorazione metodica abbia uno scopo preciso, dato che non c'è assolutamente nessun modo per vincere; nonostante tutta la sua enfasi sulla componente esperienziale, in Temple of Apshai non esiste alcuna conclusione vera e propria. Ci si limita a esplorare, livellare, e ad accumulare... finché non ci si stufa.
 
 
Eppure, pur con tutte le sue limitazioni tecniche, Temple of Apshai ha un suo strano fascino. Piuttosto che presentarci una storia, si aspetta che il giocatore lo utilizzi per costruire una storia che esiste tanto nella sua immaginazione, quanto nel computer. "Certo che puoi 'barare' creando un personaggio con tutte le statistiche a 18" sembra dirci, "ma dove starebbe il divertimento?". Allo stesso modo, se il gioco non ha un finale vero e proprio come abbiamo ormai imparato ad aspettarci, ciò non impedisce al giocatore di inventarsene uno tutto suo. Infatti nel livello 4 c'è un incontro che ha tutto l'aspetto di un vero climax; oppure il giocatore può semplicemente fissarsi lo scopo di visitare tutte le stanze e raccogliere ogni singolo tesoro che contengono. Temple of Apshai si aspetta che tu collabori con lui, per contribuire a creare il divertimento. Del resto Freeman, riferendosi ad una campagna di GDR da tavolo, ha scritto: "Non ha mai termine, se non temporaneamente: non c'è una vittoria finale, nessuno scopo per giocare se non il gioco in sé, e nessun fine ultimo se non il continuo sviluppo del tuo personaggio." E quindi perché mai l'equivalente informatico dovrebbe essere diverso? E infatti, se viene giocato come avrebbero voluto i suoi designer, Temple of Apshai non restituisce il feeling di un vero e proprio gioco per computer, quanto piuttosto quello di un ibrido: un GDR in solitario assistito dal computer, anziché un GdR su computer.
 
In un articolo sulla rivista Byte, Freeman descrive le differenze fra l'approccio simulativo alla narrativa (che è tipico dei GdR) e la preferenza delle avventure testuali per il design predefinito, lasciando però un alone di dubbio su dove cada la propria preferenza:
 

"Non c'è vero gioco di ruolo, per esempio, nella famiglia di Adventure e di Zork: il protagonista siete voi, solo immerso in un'ambientazione strana. I giochi di questo tipo si concentrano sul trasmettere la sensazione di un'azione senza confini: non solo c'è una moltitudine di comandi disponibili (tipicamente molti di più dei circa diciotto di  Dunjonquest), ma essi non vi vengono resi noti in anticipo, ma solo tramite la sperimentazione dentro il gioco. Può quindi rivelarsi particolarmente difficile trovare la chiave giusta, il momento giusto, e il comando giusto per inserirla nella giusta serratura; però, quando lo avrete fatto, la porta si aprirà – sempre. È per questo che un gioco come Adventure in realtà è un grande puzzle che, una volta risolto, perde completamente di interesse.
 
La serie di Dunjonquest impiega invece un approccio diverso. Per prima cosa tutte le situazioni sono definite principalmente in modo grafico, e non testuale: vedi ciò che succede e non ti limiti a esserne informato. Poi -ed è un aspetto ancora più importante per il nostro discorso attuale- anche se certi giochi di Dunjonquest (come  Morloc’s Tower) hanno uno scopo preciso (trovare ed uccidere Morloc, lo stregone pazzo e sfuggente), se andiamo a vedere nel dettaglio si tratta sempre di giochi molto aperti. Detto in termini più generali, non ci sono risposte "giuste": l'esito di ogni evento è probabilistico, non predeterminato.
 
Brian Hammerhand, il protagonista/alter ego assegnato al giocatore di Morloc’s Tower e di The Datestones of Ryn, ad esempio, può uccidere un lupo crudele nove volte su dieci, ma ogni volta può uscire dallo scontro illeso, ma anche dilaniato e allo stremo delle forze – senza considerare poi che c'è sempre quella decima volta... A questo va aggiunto che l'esatto esito di ogni scontro dipende sia dalla tattica scelta, che dai tratti specifici del personaggio che interpretiamo. L'esperienza è diversa a ogni partita e molto diversa per ogni nuovo personaggio che vi facciamo avventurare. Questo è gioco di ruolo: uscire da sé stessi, per mettersi nella pelle di un altro essere (anche se immaginario)."
 
L'affermazione secondo cui un approccio simulativo porta al gioco di ruolo, mentre un approccio basato su scelte predefinite non lo fa, ci deve però apparire altamente sospetta – anche se dobbiamo riconoscere che all'epoca in cui  Freeman scriveva questo passaggio, i protagonisti delle avventure testuali erano universalmente del tipo "avventuriero senza nome e senza volto". Tuttavia è indubbio che la tensione fra i due diversi approcci descritti da Freeman rimanga intatta fino ai giorni nostri con la narrativa ludica, spesso anche all'interno di uno stesso tipo di game design.  E infatti ritorneremo molte altre volte su questo argomento nel prosieguo di questo nostro piccolo viaggio nella storia. 
 
Se volete sperimentare di persona Temple of Apshai, ecco qua le istruzioni con cui partire. Notate, tuttavia, che vi servirà la pazienza di un santo: per le sensibilità moderne la versione originale per TRS-80 è quasi ingiocabile a causa della sua leeeeentissima velocità di aggiornamento dello schermo e della sua divisione in due metà del programma di cui ho parlato prima.
 
 
2. Avviate sdltrs emulator.
3. Premete F7, poi caricate “newdos.dsk” sul floppy drive 0 e “apshai.dsk” sul floppy drive 1.
4. Riavviate l'emulatore premendo F10.
5. Al prompt DOS digitate BASIC.
6. Digitate LOAD “INN:1”.
7. Digitate RUN.
 
Il manuale e la "quick reference card" nel file zip di cui sopra dovrebbero accompagnarvi con successo nei passi successivi.
 
In futuro continueremo ad occuparci dello sviluppo dei GdR su computer, ma la prossima volta torneremo alle avventure testuali, per scoprire in cosa era impegnato il nostro vecchio amico Scott Adams all'inizio degli anni '80.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto

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