Lo Zork Users Group
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Bentrovati amici dell'Avventura! Dopo una lunga attesa, torniamo nei meandri cavernosi di Infocom e di Zork per leggere la storia della nascita dei leggendari InvisiClues, ad opera di quell'irriducibile manipolo di nerd dello Zorks Users Group, guidati dal solito Mike Dornbrook. 
In un'epoca in cui le avventure testuali erano crudelmente sleali, al limite della violazione dei diritti umani (e i primi due Zork non rappresentavano certo un'eccezione), gli avventurieri avrebbero pagato montagne di zorkmid sonanti per poter sbirciare in rete le soluzioni agli enigmi più ostici, e sfuggire così all'insonnia. Peccato che il World Wide Web non esistesse ancora nel 1982! Fu così che i geniali (e costosi) InvisiClues divennero l'ultima speranza per gli insonni giocatori di Zork... e un affare notevole per lo Zork Users Group e la rampante Infocom.
 
 Non vi servirà alcun evidenziatore speciale per godere della lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura e ... occhio agli indizi invisibili!
 
Festuceto
 

 
In un post precedente ho scritto di come lo Zork Users Group fosse stato fondato dopo che Mike Dornbrook aveva lasciato Boston (la patria della Infocom) per seguire un master in “businnes administration” alla University of Chicago, portando con sé quello che in buona sostanza era il reparto di public relation della società. Lo Zork Users Group non era un caso isolato: più o meno in quel periodo stava sbocciando un intero mercato secondario, dedito a prestare aiuto e assistenza ai giocatori dei giochi delle altre società, autentico segno di salute del crescente mercato del software di intrattenimento, pur nel mezzo di una brutta recessione. Lo Zork Users Group era però unico, in virtù della relazione così profonda che aveva con la Infocom. Molti altri publisher vedevano gli attori di questo nascente mercato secondario come poco più che dei parassiti, probabilmente per semplici considerazioni economiche: chi mai vorrebbe vedere altri vendere degli indizi che potrebbe vendere da solo? Altri publisher sembravano invece più inclini a controllare e/o arginare il fenomeno. Per fortuna lo Zork Users Group non doveva avere a che fare con questi publisher.
 
A dire il vero, però, affermare che lo Zork Users Group avesse una relazione privilegiata con la Infocom è poco. Ogni gioco della Infocom usciva con una cartolina che l’acquirente poteva spedire per unirsi allo Zork Users Group. E poi lo Zork Users Group non solo vendeva il proprio  merchandising, ma divenne anche un rivenditore ufficiale degli stessi giochi della Infocom, che commercializzava attraverso i propri cataloghi, insieme a tutta l’altra merce. Ma, per essere sicuri di non tralasciare niente, affrontiamo la storia dello Zork Users Group dagli inizi.
 
Il progetto iniziale di Dornbrook per lo Zork Users Group era di continuare come aveva sempre fatto: spedendo mappe e suggerimenti dal suo nuovo appartamento di Chicago. Tuttavia, senza il suo compagno della prima ora Steve Meretzky e con tutta la pressione del master che stava affrontando, questa si prospettava un’impresa ardua. Però, a cavallo fra il suo trasloco da Boston e l’inizio degli studi a Chicago, Dornbrook trascorse una settimana con la sua famiglia a Milwaukee. Suo padre era appena andato in pensione e, capendo il problema del figlio, gli fece una proposta: si sarebbe occupato lui della gestione degli ordini dallo scantinato della casa di famiglia, lasciando a Mike da Chicago il compito di rispondere alle richieste di aiuti e di concentrarsi su nuovi prodotti. Mike accettò di buon grado e così lo Zork Users Group divenne ufficialmente un’attività con sede a Milwaukee. Anche la mamma di Mike venne coinvolta, in qualità di curatrice della mailing list, che all’epoca consisteva in circa 1.000 nominativi e altrettanti indirizzi cartacei; come era del resto tipico di quei tempi, niente dello Zork Users Group passava per un computer.
 
Una volta stabilitosi a Chicago, Dornbrook incaricò Meretzky di disegnare una mappa di Zork II per venderla accanto a quella di Zork I, e ancora una volta commissionò le illustrazioni al suo amico Dave Ardito. All’inizio del 1982, Meretzky aveva accettato un lavoro ufficiale alla Infocom, in qualità di primo beta tester a tempo pieno. Era perfetto per portare avanti anche l’altro suo lavoretto di cartografo ufficiale dello Zork Users Group: avrebbe saputo tutto della geografia dei giochi prima ancora che venissero pubblicati. Per la mappa di Deadline [di cui, a questo punto del blog, il The Digital Antiquarian ha già trattato in dettaglio, ma che nella nostra traduzione italiana abbiamo momentaneamente saltato, per dare spazio a questo speciale dedicato alla saga di Zork; ndAncient], Meretzky fece ricorso ai suoi studi di edilizia, abbandonando la classica matrice di linee e rettangoli, per mostrare la magione dei Robner attraverso delle planimetrie di stampo architettonico.
 
 
Con la base clienti della Infocom in espansione, affamata, e fedele, lo Zork Users Group iniziò a produrre anche oggettistica di basso livello. Alla fine del 1982, vendevano non solo giochi, mappe e indizi, ma anche poster, T-shirt, adesivi da paraurti, e bottoni. Oltre a spedire i moduli d’acquisto per il proprio merchandising, avviarono una newsletter grossomodo semestrale per aggiornare i fan sugli ultimi avvenimenti del mondo dello Zork Users Group e della Infocom: The New Zork Times. In un post precedente osservavo che gran parte di quello che la gente si ricorda della Infocom era in realtà il frutto del lavoro della sua agenzia pubblicitaria (la G/R Copy). In modo del tutto simile, un’altra gran parte della loro immagine pubblica era stata forgiata non da loro stessi, ma da Dornbrook e dai suoi amici, attraverso l’egida dello Zork Users Group
 
E se lo Zork Users Group stava ampliando i propri orizzonti, gli indizi restavano una spina nel fianco di Dornbrook. E così, mentre gli iscritti allo Zork Users Group aumentavano vistosamente, lui aveva sempre più difficoltà a creare risposte personalizzate nel tempo rimanente dai suoi studi e dalle sue altre attività legate allo Zork Users Group. In più, il compito gli sembrava sempre più monotono, visto che la maggior parte delle domande erano sempre incentrate intorno alla solita manciata di passaggi più ostici. La soluzione più ovvia era quella di preparare un libretto degli indizi standard da vendere, ma l’idea non gli andava a genio, perché temeva che i giocatori si sarebbero, con ogni probabilità, rovinati ampi segmenti del gioco sbirciando la soluzione di appena uno o due enigmi. Un’altra sua preoccupazione, meno idealistica, era che qualcuno si sarebbe sicuramente fotocopiato i libretti degli indizi (o li avrebbe addirittura trascritti in formato digitale), facendoli circolare gratuitamente non appena avesse iniziato a venderli. Ma ormai era anche chiaro che occuparsi manualmente di tutte le richieste di aiuto ben presto sarebbe risultato non solo poco pratico, ma perfino impossibile. Infatti, di tutte, una cosa sola era certa: la Infocom e lo Zork Users Group stavano decollando! E così Dornbrook si mise alla ricerca di alternative a una semplice lista stampata di soluzioni.
 
Valutò di usare dei fogli da grattare come nei biglietti della lotteria [un po’ come i nostri “gratta e vinci”; ndAncient], delle pagine stampate in offset che si sarebbero potute leggere solo con degli occhiali 3D, una piccola finestra scorrevole lungo la pagina, che permetteva di vedere solo una riga o due alla volta. Ma niente di tutto questo si rivelava abbastanza pratico da usare. E così (tratto dagli extra del DVD di Get Lamp):
 
Ero a una festa nella mia città natale con alcuni amici del liceo. Uno di loro aveva frequentato farmacia alla University of Wisconsin. Gli stavo descrivendo i miei tentativi di creare questi libretti, nel tentativo di trovare una soluzione al problema, quando lui mi disse: “perché non usi l’inchiostro simpatico?”
 
Uno dei docenti dell’amico aveva usato l’inchiostro simpatico per delle prove: gli studenti che non conoscevano una risposta, potevano sviluppare l’indizio “invisibile” passando uno speciale evidenziatore sopra la parte appropriata del testo, al costo di una riduzione del voto finale. Dornbrook, che nel corso degli anni aveva lavorato sporadicamente in copisteria, non ne aveva mai sentito parlare. Dopo aver chiamato in tutti i posti che gli venivano in mente per chiedere di quella tecnologia (il tutto solo per farsi considerare un “pazzo” dai suoi interlocutori), alla fine chiamò direttamente l’ufficio del professore. Un assistente recuperò il nome della società da cui si era rifornito il professore: A.B. Dick. Questi, a loro volta, lo misero in contatto con una copisteria che possedeva la tecnologia per realizzare il progetto e così nacquero le InvisiClues. Le prime, scritte da Dornbrook per Zork I e illustrate dal solito Ardito, arrivarono nella primavera del 1982.
 
 
Ogni librettino di InvisiClues conteneva molte domande sul gioco di cui si occupava. L’utente trovava quella che gli interessava e sviluppava la soluzione passando lo speciale evidenziatore sopra la risposta “invisibile”. Ogni risposta veniva presentata come una serie di passaggi graduali, da sviluppare uno alla volta, da un piccolo indizio iniziale fino alla soluzione completa dell’enigma. Ogni librettino includeva un buon numero di domande farlocche per scoraggiare ulteriormente i lettori dallo sviluppare e divorare troppe risposte a caso, oltre che per occultare quello che davvero c’era o non c’era nel gioco (impedendo così al giocatore di rovinarsi il gioco anche solo leggendo le domande). Se sviluppate, le risposte alle domande farlocche rimproveravano adeguatamente (e sarcasticamente) il giocatore.
 
Le InvisiClues erano un’idea oltremodo geniale, seppur con un paio di svantaggi. Erano costose da realizzare e quindi costose da acquistare; se la Adventure International vendeva un “Book of Hints” per tutte e dodici le avventure di Scott Adams al prezzo di 8 dollari, un librettino di InvisiClues per un singolo gioco della Infocom poteva costare molto di più. E poi gli indizi sviluppati iniziavano a sbiadire dopo sei mesi. Eppure, al di là di questi svantaggi, le InvisiClues ebbero un grande successo. Del resto erano molto più divertenti dei messaggi cifrati e delle tabelle incrociate che le altre società utilizzavano per mascherare i propri indizi.
 
Le fortune della Infocom e dello Zork Users Group si impennavano mano nella mano. La Infocom vendette 100.000 giochi nel 1982, partendo dai 12.000 dell’anno precedente. Gli iscritti allo Zork Users Group passarono da 1.000 di inizio anno, fino a 4.000 a metà dello stesso, per superare i 10.000 alla fine. A metà dell’anno successivo furono toccati i 20.000 membri. A quel punto le operazioni della società erano già state informatizzate (tramite un IBM PC con un esotico -per il tempo- hard disk da 10 MB) ed erano stati assunti tre dipendenti part-time al fianco di Mike e dei suoi genitori. La cosa buffa è che, a parte Mike, nessuno di loro aveva mai giocato a un gioco della Infocom, né avevano il benché minimo interesse a farlo.
 
Ci sarebbe molto altro da dire sul 1982 della Infocom, ma nel prossimo post ci sposteremo all’altro capo del mondo, per studiare una cultura informatica completamente diversa [noi della versione italiana del The Digital Antiquarian ci occuperemo invece del "playthrough" di Zork III; ndAncient].

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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DunjonQuest
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Non si può enfatizzare abbastanza quanto i war games e i giochi di ruolo da tavolo (e in particolare, ovviamente, Dungeons and Dragons della TSR) abbiano influenzato le prime narrative ludiche su computer. A volte tale influenza è del tutto palese, come nel caso di giochi tipo Eamon che cercavano esplicitamente di trasportare su computer l'esperienza del D&D. Altre volte però tale influenza è meno apparente.

A differenza dei tipici giochi da tavolo, o perfino dei war game, il D&D e i suoi contemporanei non erano commercializzati come prodotti singoli, ma come delle vere e proprie raccolte di esperienze, quasi uno stile di vita. Solo per iniziare a giocare con la punta di diamante, l'Advanced Dungones & Dragons, si dovevano acquistare tre grandi volumi dalla copertina rigida (Monster Manual, Players Handbook, e Dungeon Masters Guide), a cui si aggiunsero presto molti altri volumi, che descrivevano nuovi mostri, nuovi tesori, nuovi dei, nuove classi di personaggio, e nuove regole sempre più complesse per nuotare, per creare oggetti, per muoversi nelle ombre, per rubare, e -ovviamente- per combattere. Ma, soprattutto, c'erano i moduli d'avventura: avventure preconfezionate, vere e proprie narrative ludiche che potevano essere messe in scena utilizzando il sistema di gioco di D&D. Ne uscivano a dozzine, meticolosamente catalogate con un sistema alfanumerico che permetteva ai collezionisti compulsivi di tenerne traccia; una trilogia di moduli dedicati ai giganti fu etichettata da “G1” a “G3”, una serie di moduli creata nel Regno Unito fu etichettata “UK” [che sta per “United Kingdom”; ndAncient]. A parte i vari vantaggi ludici, questo sistema era indubbiamente il sogno di ogni addetto alle vendite. Perché limitarsi a vendere un solo gioco ai tuoi clienti, quando puoi incatenarli a un intero universo in continua espansione di prodotti?

La strategia di marketing della TSR (basata sulla filosofia di “un solo gioco / molti prodotti”) e il suo zelo per la catalogazione possono essere ritrovati anche fra quei primi sviluppatori di giochi per computer che non stavano provando esplicitamente ad adattare le regole del D&D ai loro mondi digitali. Scott Adams, per esempio, numerò tutte le sue avventure, arrivando così a una dozzina di giochi canonici (altre avventure, presumibilmente non scritte di proprio pugno dal maestro, furono invece pubblicate dalla Adventure International come delle specie di opere apocrife ufficiali sotto l'etichetta “OtherVentures”). I giocatori venivano incoraggiati a giocarle in ordine, visto che aumentavano gradualmente di difficoltà; in questo modo il giocatore principiante poteva affilarsi i denti con opere relativamente “forgiving” tipo Adventureland e Pirate Adventure, per poi gettarsi nei giochi successivi assurdamente difficili tipo Ghost Town e Savage Island. La On-Line Systems adottò un modello simile, sottotitolando retroattivamente Mystery House in Hi-Res Adventure #1 dopo aver pubblicato la Hi-Res Adventure #2 (The Wizard and the Princess). Il gioco successivo Mission: Asteroid, apparso all'inizio nel 1981, fu battezzato Hi-Res Adventure #0 (nonostante la cronologia delle uscite) perché era stato pensato come gioco per principianti, con un po' meno assurdità ed enigmi iniqui del solito. A tutti gli effetti queste similitudini con l'approccio del D&D erano qualcosa di più di un semplice fenomeno di marketing. Del resto entrambe le linee di giochi erano basate su motori riutilizzabili. Nello stesso modo in cui un gruppo di giocatori viveva intorno al tavolo molte avventure diverse usando le regole alla base del D&D, così le linee di avventure di Scott Adams o le Hi-Res Adventures erano essenzialmente delle regole base (il motore di gioco) applicate a molte narrative ludiche diverse.

Tuttavia, fra gli sviluppatori che abbiamo esaminato fin qui, quelli che imitavano in modo più palese il modello del D&D erano -logicamente- quelli che provenivano direttamente dalla cultura del D&D: Donald Brown con il sistema di Eamon, e le Automated Simulations, gli sviluppatori della linea DunjonQuest che era iniziata con Temple of Apshai. J.W. Connelley, il principale sviluppatore del motore dell'Automated Simulations, aveva progettato per Temple of Apshai un motore riutilizzabile che leggeva i file di dati che rappresentavano i livelli del dungeon che si esplorava. Proprio come accadde per Scott Adams e per la On-Line Systems, questo approccio da un lato rese il gioco più facile da convertire (e infatti le versioni per tutte le principali macchine del 1979 -TRS-80, Apple II, Commodore PET- furono pubblicate quello stesso anno), e dall'altro lato velocizzò lo sviluppo di nuove iterazioni del medesimo concept. Tali iterazioni furono etichettate come un set unico di esperienze, che prese il nome di DunjonQuest. Il pittoresco appellativo dalla dizione medievale fu probabilmente scelto per evitare conflitti con la litigiosissima TSR, che, oltre alle regole del D&D, stava commercializzando anche un gioco da tavolo chiamato semplicemente Dungeon!

E la Automated Systems non fece certo mancare tali iterazioni! Altri due titoli della collana DunjonQuest apparvero lo stesso anno di Temple of Apshai. Sia Datestones of Ryn che Morloc’s Tower facevano parte di quelle che la Automated Simulations chiamò MicroQuests, nelle quali gli elementi di costruzione del personaggio erano completamente assenti. Al loro posto il giocatore doveva guidare un personaggio pregenerato attraverso un ambiente molto più piccolo. Ci si aspettava che il giocatore affrontasse più volte l'avventura, cercando di conseguire risultati sempre migliori. Nel 1980 la Automated Simulations pubblicò invece il “vero” seguito di Temple of Apshai, Hellfire Warrior, che conteneva i livelli dal quinto all'ottavo del labirinto iniziato col gioco precedente. Sempre quell'anno pubblicarono anche due titoli più modesti, Rescue at Rigel e Star Warrior, le prime e uniche uscite di una nuova serie, StarQuest, che catapultava il sistema DunjonQuest nello spazio.

Almeno secondo una prospettiva moderna, c'è una sorta di dissonanza cognitiva in queste serie, se le esaminiamo nel loro complesso. I manuali spingevano molto sull'aspetto sperimentale di questi giochi, come ben dimostrato da questo estratto del manuale di Hellfire Warrior:

Quali che siano il tuo background e le tue esperienze precedenti, ti invitiamo a proiettare nel “dunjon” non solo il tuo personaggio, ma anche tutto te stesso. Ti invitiamo a perderti nel labirinto. A sentire la polvere sotto i tuoi piedi. Ad ascoltare il suono di passi non umani che si avvicinano o il lamento di un'anima persa. Lascia che l'odore di zolfo assalga le tue narici. Brucia al caldo delle fiamme dell'inferno, e gela sopra un ponte di ghiaccio. Passa le dita in un cumulo di monete d'oro e immergiti in una pozza d'acqua magica.
Entra nel mondo di DunjonQuest.

Nonostante tutto questo, nessuno di questi giochi aveva la benché minima trama. Temple of Apshai e Hellfire Warrior non hanno nemmeno una fine vera e propria, ma solo dei dungeon che si rigenerano all'infinito da esplorare e un personaggio giocante da migliorare in eterno. Mentre le MicroQuests ricompensano i giocatori solo con un insoddisfacente punteggio finale al posto di un epilogo vero e proprio. Sebbene il background narrativo del suo manuale sia ideato con un'attenzione insolita, Datestones of Ryn ha un limite temporale di soli 20 minuti, che gli dà più un feeling da gioco d'azione, giocabile all'infinito e quasi privo di contesto, piuttosto che da gioco di ruolo per computer. Invece il gameplay della serie nel suo complesso, oggi, ci balza all'occhio per le sue similitudini con i roguelike, dei dungeon crawl senza storia (o, almeno, con pochissima storia) attraverso labirinti generati casualmente. Questa però sarebbe una lettura anacronistica: Rogue, il capostipite del genere, in realtà è uscito un anno dopo Temple of Apshai.

Credo che tutte queste stranezze possano essere spiegate se comprendiamo che Jon Freeman, il principale designer dietro il sistema, stava puntando a creare un tipo di narrativa ludica diverso da quella delle avventure testuali di Scott Adams e da quella tipica della On-Line Systems. Lui sperava che, dati un background, una descrizione degli ambienti, un set di regole per controllare ciò che vi accadeva, e una buona dosa di immaginazione da parte del giocatore, dal gioco emergesse autonomamente una narrativa ludica. In altre parole, usando un termine che appartiene ad un'era molto successiva, stava tentando di creare una narrativa emergente. Per comprendere meglio il suo approccio, ho pensato di dare una breve occhiata da vicino a uno dei suoi giochi, Rescue at Rigel

Rescue at Rigel trae ispirazione dalla classica space opera, un genere che è stato recentemente riportato in vita dal fenomenale successo dei primi due film di Star Wars [l'articolo è stato scritto nel 2011, quindi l'autore si riferisce alla seconda trilogia di Guerre Stellari; ndAncient].

Nell'arena della vostra immaginazione, non tutti i nostri eroi (o le nostre eroine!) indossano armature nere o di uno scintillante argento, né prendono a mazzate dei barbari nemici su dei moli sferzati dal vento, né affrontano dei macabri destini per mano di depravati adepti le cui arti nere erano già vecchie quando il mondo era giovane. La fantascienza ci fa viaggiare su navi stellari con nomi come Enterprise, Hooligan, Little Giant, Millenium Falcon, Nemesis, Nostromo, Sisu, Skylark, e Solar Queen. Navi che viaggiano su mari stellati, che non sono percorsi da tempeste o infestati da demoni, ma che non per questo sono meno spaventosi. Navi che ci fanno approdare su nuovi mondi impavidi le cui forme, i cui panorami e i cui suoni sono più plausibili (ma non meno sbalorditivi) di quelli sperimentati da Sinbad.

In questo titolo il giocatore assume il ruolo di Sudden Smith, un classico ed energico eroe pulp. Sta per teletrasportarsi nella base di una razza di alieni insettoidi conosciuti col nome di Tollah, che hanno catturato un gruppo di scienziati per le loro “ricerche” e fra questi c'è anche la fidanzata di Sudden. I Tollah sono uno dei pochissimi accenni ad eventi di un mondo più ampio che troverete nei primissimi videogiochi, al di là delle opere di fantasy e science-fiction. La casta che comanda i Tollah sono gli “High Tollah”, un chiaro riferimento allo Ayatollah Khomeyni, che a quel tempo aveva recentemente preso il potere in Iran e che teneva in ostaggio 52 Americani [“High Tollah”, cioé “Alto Tollah”, si pronuncia infatti in modo molto simile a Ayatollah; ndAncient]. Gli “High Tollah” ci dice il manuale, “sono altezzosi, autoritari, intolleranti, ottusi, privi di immaginazione e inflessibili.” Alla luce di tutto questo, è palese quale sia stata l'ispirazione per questo scenario di salvataggio degli scienziati.

Il gameplay si sviluppa intorno all'esplorazione della base dei Tollah, convenientemente strutturata come un labirinto, respingendo i Tollah e i robot della sicurezza, mentre cerchiamo i dieci scienziati che vi sono tenuti in ostaggio. Si tratta sostanzialmente, come in tanti altri giochi di ruolo per computer, di un gioco di gestione delle risorse: Sudden ha un numero limitato di medikit, di munizioni, e soprattutto una riserva limitata di energia all'interno del suo zaino che deve essere usata per tutto (dallo sparare agli Tollah, fino al teletrasportare gli scienziati al sicuro). Quel che è peggio è che Sudden ha soltanto 60 minuti di tempo reale per salvare il maggior numero possibile di scienziati e teletrasportarsi al sicuro. Freeman fa di tutto per rendere il gioco un motore di eccitante narrativa emergente. Ad esempio, se Sudden finisce completamente l'energia, ha comunque un'ultima possibile via di fuga: se riesce a tornare nei 60 minuti al punto in cui lo ha depositato il teletrasporto, un altro teletrasporto automatico lo riporterà in salvo. È facile immaginarsi una situazione disperata, che pare uscita direttamente da una storia di Guerre Stellari o di Dominic Flandry, con il giocatore che torna sui suoi passi, in mezzo al fuoco dei laser, mentre il tempo scorre e i Tollah gli sono alle calcagna. Di certo ci possiamo immaginare che Freeman si fosse immaginato tutto questo.

Ma per vivere queste storie è necessaria una notevole dedizione e una fervida immaginazione da parte del giocatore, come potrà probabilmente convenire chiunque abbia osservato l'orrendo screenshot di cui sopra. Effettivamente i giochi della serie DunjonQuest sembrano proprio una sorta di ibrido fra l'esperienza di un gdr da tavolo e di uno digitale, in cui ciò che emerge direttamente dall'immaginazione del giocatore è importante quanto quello offerto dal gioco stesso. È per questo che probabilmente è stata una mossa saggia per la Automated Simulations quella di usare come target del marketing di DunjonQuest proprio i giocatori di ruolo cartaceo. Del resto loro sono abituati a rimboccarsi le maniche e a usare la loro immaginazione per inventare delle narrative soddisfacenti. La Automated Simulations pubblicizzò ampiamente DunjonQuest sulla rivista Dragon Magazine della TSR, e (con una mossa che non potrebbe essere più indicativa della tipologia di pubblico che pensavano potesse apprezzare DunjonQuest) arrivarono persino a regalare il gioco da tavolo strategico chiamato Sticks and Stones con ogni acquisto di un gioco della serie DunjonQuest.

Negli ultimi mesi del 1980 la Automated Simulations cambiò il suo nome nel meno prosaico Epyx, adottando il motto: “Computer games thinkers play” [traducibile all'incirca come “Videogiochi a cui giocano le persone che pensano”; ndAncient]. I giochi della serie DunjonQuest continuarono comunque a uscire per altri due anni. Fra le ultime pubblicazioni ci furono anche un paio di espansioni per Temple of Apshai e Hellfire Warrior, che credo siano i primi esempi del genere tra i giochi commerciali per computer. Invece l'utilizzo più strano e creativo dell'engine di DunjonQuest arrivò nel 1981 con Crush, Crumble, and Chomp!: The Great Movie Monster Game, nel quale il giocatore assumeva il controllo di Godzilla (anzi, no, di Goshzilla!), o di qualche altro mostro famoso lanciato nella distruzione di una città. Per un esame dettagliato di tutta la serie di DunjonQuest, che alla fine si compose di una dozzina di titoli, potete leggere questo articolo di Hardcore Gaming 101.

Crush, Crumble, and Chomp! fu l'ultimo lavoro di Freeman per la Epyx. Alla West Coast Computer Faire of 1980 incontrò infatti una collega programmatrice chiamata Anne Westfall e di lì a poco i due iniziarono a frequentarsi. Westfall si unì alla Epyx per un po', andando a lavorare come programmatrice su alcuni degli ultimi giochi di DunjonQuest. Lei e Freeman però ben presto si stufarono del disinteresse di Connelley nel miglioramento dell'engine di DunjonQuest. Scritto in BASIC sull'ormai vetusto TRS-80 Model I, tale engine era sempre stato tremendamente lento e ormai iniziava a sembrare davvero datato nei porting per le piattaforme più moderne e capaci. In più Freeman, un designer irrequieto e creativo, si stava annoiando delle continue iterazioni del solito concept di DunjonQuest; perfino creare Crush, Crumble, and Chomp! aveva richiesto una dura battaglia da parte sua... Alla fine del 1981 Freeman e Westfall lasciarono la Epyx per creare una casa di sviluppo indipendente, la Free Fall Associates, della quale avrò molto altro da dire in futuro. E, dopo un paio di ultime pubblicazioni per DunjonQuest, la Epyx si trasformò da “Computer games thinkers play” in qualcosa di molto diverso, e anche di questo avrò molto da dire in futuro. Con incassi buoni, ma mai enormi, neppure al massimo del proprio splendore, i giochi della serie DunjonQuest sfiguravano abbastanza nel confronto con la nuova generazione di giochi di ruolo per computer, dei quali -come avrete immaginato- avrò molto altro da dire in futuro.

Se volete sperimentare l'esperienza di DunjonQuest, posso fornirvi un pacchetto con un immagine per Apple II che include Temple of Apshai, Rescue at Rigel, Morloc’s Tower, e Datestones of Ryn, oltre ai relativi manuali.

La prossima volta inizieremo a esplorare un'opera con una profondità tematica senza precedenti, che fa già drizzare tutte le mie antenne di studioso di letteratura.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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The Count
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

The Count si apre con un title screen destinato a diventare iconico e longevo in modo quasi bizzarro, apparendo non solo su tutti i giochi del TRS-80 della serie classica di Scott Adams, ma anche su tutte le piattaforme su cui sarebbe sbarcata la linea. Questa schermata del titolo resterà sostanzialmente immutata perfino nel suo porting illustrato.

* ADVENTURE * (Versione: 8.2) Adventure number: 5 (Versione: 1.15)
Copyright Adams 1979. Casella postale 3435 Longwood FL Phone 1-305-862-6917
Questo programma vi permetterà di vivere una "Adventure" senza alzarvi dalla vostra sedia! Vi troverete in uno strano mondo nuovo. Potrete GUARDARE, RACCOGLIERE e MANIPOLARE in vari modi gli oggetti che troverete. Potrete anche VIAGGIARE da una locazione all'altra. Io sarò la vostra marionetta in questa Avventura. Potrete comandarmi con frasi in inglese di 2 parole. Ho un vocabolario di 120 termini, quindi se una parola non funziona, provatene un'altra!
Alcuni dei comandi che conosco: AIUTO, SALVA, PUNTEGGIO, INVENTARIO, ESCI.
L'Autore ha lavorato più di un anno su questo programma ed è attualmente al lavoro su molte altre nuove avventure. Quindi PER FAVORE: NON COPIATE E NON ACCETTATE COPIE "PIRATATE" DELL'AVVENTURA.

Un paio di cose ci colpiscono immediatamente a colpo d'occhio.
La prima è l'indelebile stile svogliatamente entusiastico che caratterizza tutti i suoi giochi come una firma d'autore. Da quel che si può vedere, l'interprete si chiama semplicemente ADVENTURE ed è già (!) alla versione 8.2, mentre il The Count vero e proprio ("Adventure Number 5") è alla versione 1.15. La supplica, con cui si conclude il messaggio, ci mostra invece come la pirateria informatica fosse già un problema rilevante nel 1979, e non un mero spauracchio del solo Bill Gates. Col passare del tempo sarebbe diventata -come sappiamo bene-  una questione ben più ampia, mano a mano che i pirati si dotavano di sofisticati network di distribuzione e nasceva una intera sottocultura (affascinante quanto immorale); ma di questo parlerò più profusamente quando ci arriveremo. Dal canto suo Adams si era forse fatto prendere un po' troppo la mano pur di spiegare il suo punto di vista: non aveva chiaramente speso "più di un anno" a sviluppare The Count, anche considerando che nel solo 1979 aveva pubblicato ben altri cinque giochi (che si stesse forse riferendo allo sviluppo del sistema ADVENTURE nel suo complesso?).

Ma -vi starete chiedendo- perché il testo ha un aspetto così buffo? Forse vi ricorderete di quando ho spiegato che il TRS-80 base non era equipaggiato per supportare i caratteri minuscoli. In un certo senso questo è solo parzialmente vero. La ROM dei caratteri, che conteneva i glifi di tutti i caratteri visualizzabili, aveva al suo interno anche i glifi per tutte le minuscole, oltre che per le maiuscole. Immagino che, come avveniva per molte delle componenti del TRS-80, anche questa era una parte esistente che era più facile ignorare che modificare per rimuovere i glifi extra. Quello che veramente mancava al TRS-80 era un modo per inserire le lettere minuscole. Il mercato secondario, sempre molto inventivo, risolse rapidamente questo problema con vari kit di modifica, uno dei quali fu evidentemente acquistato da Adams all'inizio del 1979. Tuttavia, anche con un kit del genere, il display del TRS-80 (essendo stato progettato con in mente le sole maiuscole) non possedeva ancora il concetto dei tratti discendenti. Quindi i caratteri come "y", "p", e "g" sono disegnati sopra il rigo, invece che scenderne al di sotto, generando così quell'aspetto strano che vedete nell'immagine sopra. E poi, si sa... a quel che non ammazza, ci si abitua.

Ma ora lasciate che vi parli specificatamente di The Count e di cosa lo rende un pezzo unico e interessante nella produzione di Adams. Se Mission Impossible aveva introdotto l'uso del tempo come elemento a servizio della trama sotto forma di una ticchettante (letteralmente) bomba ad orologeria, The Count si spinge oltre, molto oltre.
All'inizio ci svegliamo in una camera da letto di una casa infestata da Dracula in persona. Siamo stati portati lì dagli abitanti impauriti del villaggio, con le precise istruzioni di uccidere Dracula o di morire (o, meglio, di diventare vampiri a nostra volta) provandoci. Ovviamente (grazie ai testi ridotti ai minimi termini, all'assenza di ogni documentazione aggiuntiva, e al design old-school), tutto questo lo possiamo solo intuire quando abbandoniamo l'edificio e veniamo uccisi da una folla infuriata - il che oltretutto ci fa legittimamente chiedere se sia più malvagio Dracula o la folla degli abitanti del villaggio... ma chiuderemo un occhio su questo aspetto.
La trama si svolge su tre (o, al massimo, quattro) pomeriggi, e altrettante sere, durante le quali dovremo organizzare tutti i dettagli per raggiungere il nostro scopo: piantare l'obbligatorio paletto nel cuore del vampiro, ponendo così fine al regno di Dracula.

Sono in una cucina. Oggetti visibili:
Forno. Montavivande.
Uscite evidenti: EST
<-------------------------------------------------------------------------------------------
-------> Dimmi cosa fare? GUARDA OROLOGIO
Strano orologio dice
50 mosse prima del tramonto.
-------> Dimmi cosa fare?

Non solo il tempo scorre attraverso questi giorni, con i pomeriggi che diventano notti (con gli effetti conseguenti sull'illuminazione generale), ma ci sono anche eventi della trama che accadono all'interno dell'universo di gioco in momenti specifici, e in particolare vanno segnalate due consegne postali che avvengono il primo e il secondo pomeriggio.

Sono all'esterno del castello. Oggetti visibili:
Cartolina. Corda della campanella.
Uscite evidenti: EST OVEST
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Lenzuola. Cuscino. Blasone. PALETTO della tenda. Orologio da taschino.
Da qualche parte risuona una campanella: "DING-DONG".
-------> Dimmi cosa fare? PRENDI CARTOLINA

Al solito non voglio esagerare l'importanza di tutto questo; siamo ancora molto lontani da una storia seria e articolata; The Count è ancora pienamente inchiodato al solito stile scherzoso di Scott Adams.

Sono in un bagno. Oggetti visibili:
Specchio. Toilette.
Uscite evidenti: SUD
<-------------------------------------------------------------------------------------------
-------> Dimmi cosa fare? GUARDA TOILETTE
C'è qualcosa là dentro, forse dovrei provare ad andarci?
-------> Dimmi cosa fare? VAI TOILETTE
OK
Ah, ora va molto meglio!
-------> Dimmi cosa fare?

Sono in una cripta. Oggetti visibili:
Cumulo di sigarette spente. BARA di pietra.
Bara è chiusa. Grossa lima per unghie temprata. Sfiato.
Cartello dice: "ASSOLUTAMENTE VIETATO FUMARE!" firmato Dracula.

 
Uscite evidenti: SUD
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-------> Dimmi cosa fare? FUMA SIGARETTE
Nella stanza si sente tossire (sic)
[questo è un gioco di parole fra COFFIN (bara) e COUGHIN' (tossire), che hanno quasi la stessa pronuncia. ndTraduttore]
-------> Dimmi cosa fare?

Quello che abbiamo qui, però, è un universo che, almeno da alcuni punti di vista, è molto più dinamico di qualunque cosa si fosse mai vista prima. Per quanto Adventure poteva vantarsi dei suoi nani e dei suoi pirati capaci di movimento autonomo (che, a modo loro, erano incredibilmente sofisticati), il suo mondo restava completamente statico fino all'attivazione della scena finale e assolutamente privo di ogni percezione del tempo (se si esclude la lanterna che si esaurisce). Non a caso, The Count inserisce il verbo ASPETTA (un comando che nei giochi precedenti sarebbe stato del tutto superfluo), giacché il giocatore deve pianificare le proprie azione anche in base all'orario del giorno e a quei due fondamentali pacchi che devono essere consegnati.

Nel suo complesso il gioco non è altro che un nuovo tipo di meta-enigma sistemico, con il giocatore intento a mappare mentalmente il modo in cui gli eventi si dipanano e il funzionamento di ogni singolo elemento (morendo un numero infinito di volte nel frattempo...), al fine di mettere a punto il piano che lo porterà alla vittoria finale. The Count, in un certo senso, introduce quindi un nuovo paradigma di gameplay per le avventure testuali: uno non più basato sull'esplorazione geografica (anzi, per l'epoca la sua mappa è molto piccola e facile da gestire), ma su un modo di pensare dinamico e sistemico, che ce lo fa apparire molto più vicino ad un'esperienza narrativa. Il sistema è addirittura abbastanza sofisticato da prevedere un buon numero di percorsi diversi per arrivare alla vittoria finale; praticamente tutte le soluzioni del gioco che ho trovato avevano un approccio diverso.

Nonostante questo, a volte il confine fra il sistema della narrazione e il sistema del programma è un po' fumoso, e si rimane con la sensazione di giocare al programma piuttosto che alla storia.
Per esempio, nel gioco ci si sposta fra i piani della casa usando un montavivande (tralasceremo di parlare della mancanza di una scalinata interna, che è uno di quei crimini contro la mimesi che ci sentiamo di poter perdonare in un gioco tanto vecchio e primitivo). Dovete sapere che, se si perdono i sensi e si viene messi a letto per la notte (presumibilmente dallo stesso Dracula...) su un piano diverso da quello che contiene la camera, tale montavivande resta al piano dove lo abbiamo lasciato, impedendoci così di finire il gioco! Questo non ha alcun senso all'interno dell'universo narrativo (dove si è mai sentito di un montavivande che sale o scende solo con un passeggero all'interno?!?), ma è invece solo un limite del programma.
È per ragioni come questa che la risoluzione del gioco si rivela più noiosa che divertente; del resto neppure la Infocom nei suoi giochi più dinamici, con un'impostazione simile a The Count, riuscirà a risolvere fino in fondo questa "sindrome dell'imparare morendo". Sono proprio i tanti fattori di frustrazione come questo che fanno di The Count un gioco meno divertente di quanto non sia invece interessante come tecnologia e come concept.

E non si può dire nemmeno che il finale risollevi le sorti del gioco...

Sono in una grande BARA. Oggetti visibili:
Coperchio della bara è aperto. Chiusura rotta.
Vecchio scheletro ammuffito con paletto nella cassa toracica.
Uscite evidenti: SU
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-------> Dimmi cosa fare? UCCIDI DRACULA
Infilo il paletto nel suo CUORE. Gli abitanti del villaggio vengono e mi portano via in trionfo!
(Non preoccuparti, gli ho spiegato che è tutto merito tuo!!!)
L'avvenutra è finita. Vuoi provare di nuovo questa avventura?

Dobbiamo aggiungere che in seguito Adams non ha mai fatto molto per sviluppare queste idee, rifugiandosi di lì in poi prevalentemente negli schemi della caccia al tesoro e in simili gameplay statici, e lasciando questo approccio più dinamico alla Infocom che tre anni dopo svilupperà il rivoluzionario Deadline. Ma, come dico sempre, di questo parleremo in seguito.

Se volete giocare The Count nella sua forma originale, ecco un file CMD che potete caricare nell'emulatore MESS usando "Device –> Quickload" dal menù dell'emulatore.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
Se anche voi apprezzerete questo interessantissimo blog, non mancate di visitare la pagina ufficiale (in lingua inglese) e di sostenerlo tramite Patreon.

Articoli precedenti:
- Sulle tracce di The Oregon Trail
- In difesa del BASIC
- A Caccia del Wumpus
- L'Avventura di Crowther
- TOPS-10 in a Box
- L'Avventura completata
- Tutto il TRaSh del TRS-80
- Eliza
- Adventureland
- Dog Star Adventure
- Qualche domanda per Lance Micklus
- Un 1979 indaffarato
- The Count


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Un 1979 indaffarato
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Dire che il 1979 di Scott Adams fu molto produttivo è dir poco... Basti citare il fatto che in quell'anno pubblicò la bellezza di sei nuovi giochi completi: Mission Impossible, Voodoo Castle, The Count, Strange Odyssey, Mystery Fun House, e Pyramid of Doom.
E, fra questi sei, ben quattro erano scritti di suo solo pugno!

Voodoo Castle è attribuito ufficialmente anche a Alexis, la moglie d'allora di Adams. Tuttavia il ruolo che ha avuto non è molto chiaro, visto che nelle ultime interviste Adams ne ha sminuito il contributo, affermando che le sono attribuibili solo le linee guida della trama, mentre sarebbe stato lui a occuparsi quasi interamente della scrittura dei testi e completamente della programmazione. Purtroppo, con il passaggio degli anni e i risentimenti che inevitabilmente accompagnano ogni divorzio, non sapremo probabilmente mai se Alexis Adams può essere legittimamente considerata la prima donna game designer di avventure (battendo quindi sul tempo Roberta Williams di oltre un anno).

Ben più chiaro è invece il contribuito che Alvin Files ha dato a Pyramid of Doom. Lavorando in modo autonomo (senza aver accesso al codice sorgente o ai progetti originali), Files fece il reverse-engineering del motore di Adams, creando per quella via un gioco tutto suo, per poi spedire il risultato definitivo ad Adams, che lo aggiustò un po' e lo pubblicò come l'Adventure #8, riconoscendo a Files il "90 percento" del merito. Pyramid of Doom fu pubblicato intorno all'Ottobre del 1979, ma un primo segno dell'amicizia fra i due risale già a quell'estate con The Count, che è ufficialmente "dedicato ad Alvin Files".

Nel costruire questa cronologia tramite riviste e documenti dell'epoca, sono rimasto sorpreso nel constatare che quasi due terzi di quella, che sarebbe poi diventata (in modo un po' arbitrario) la dozzina di avventure che compongono il canone di Scott Adams, è stata creata prima della Adventure International, la società di Adams. Essa fu infatti fondata prima della fine dell'anno, quando Adams era già impegnato in un altro importante passo: il porting del suo engine su altri microcomputer.
La prima piattaforma canditata per il porting fu inevitabilmente l'Apple II, la seconda macchina più popolare del 1979. Tuttavia nel giro di pochi anni l'esplosione di macchine incompatibili fra loro, unita alla dedizione di Adams a supportarne il più possibile, avrebbe portato i suoi giochi su oltre una dozzina di piattaforme diverse.
E, se anche il 1979 non fu ancora l'anno dell'esplosione dei giochi d'avventura, fu comunque l'anno in cui Adams pose le basi perché ciò accadesse. L'avvento del nuovo anno lo vide infatti armato di una società appena fondata, di un engine per avventure che poteva essere facilmente oggetto di porting verso nuove piattaforme, e con un catalogo di tutto rispetto di giochi già pronti che spaziavano in un'ampia varietà di generi diversi. Aveva perfino creato una versione "dimostrativa", semplificata, di Adventureland per chi volesse conoscere meglio il nuovo genere.

Adams apportò dei notevoli miglioramenti tecnici al suo engine anche per il buon vecchio TRS-80. A cavallo fra la pubblicazione di Mission Impossible nella primavera del 1979 e di Voodoo Castle e The Count in quell'estate, Adams (apparentemente incitato a farlo da Lance Micklus) riscrisse il suo interprete -originariamente scritto in BASIC- in linguaggio assembly, con conseguenti giganteschi incrementi di velocità. Implementò anche una nuova impostazione della schermata di gioco, che successivamente sarebbe diventata una sorta di suo marchio di fabbrica, con la descrizione della stanza in cui ci si trova e i relativi contenuti sempre in mostra in una "finestra" separata, senza scrolling, collocata nella metà superiore dello schermo.

   

Considerando il display a 64 caratteri per 16 linee del TRS-80 e l'aspettativa degli utenti ad avere una buona fluidità nelle parti di maggiore interesse, questo rappresentò un grosso passo in avanti. Il nuovo interprete supportava perfino i caratteri minuscoli, anche se la prosa, la grammatica e anche gli errori ortografici non divennero mai una priorità... Con questi miglioramenti il nuovo sistema, per il quale vennero rapidamente riadattati anche i primi tre giochi, rese l'andare in cerca d'avventura sul TRS-80 un'esperienza assai più piacevole.

E che dire del contenuto di questi giochi? Beh, l'engine limitato e il ritmo infuocato con cui Adams li sfornava hanno rappresentato un inevitabile limite alle loro potenzialità; tuttavia in questi nuovi titoli ci sono dei nuovi sviluppi di cui vale la pena parlare.
Il primo di questi sviluppi è rappresentato dal fattore tempo. Sia l'Adventure originale che Adventureland richiedevano, come è noto, un'attenzione particolare alla gestione del tempo per far fronte alle fonti di luce che si esaurivono; Mission: Impossible invece si spinge un po' oltre, legando maggiormente il fattore tempo alla trama sotto forma di una ticchettante bomba a orologeria che minaccia di distruggere un impianto nucleare.
A distanza di due soli giochi da questo, abbiamo invece The Count, il gioco che rappresenta l'apice dell'ambizione concettuale di Adams, nonché un significativo passo in avanti per le avventure testuali intese come mezzo per raccontare una storia. La prossima volta esaminerò quindi in maggior dettaglio The Count, di gran lunga il più interessante di queste sei fatiche di Scott Adams.

    

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Articoli precedenti:
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- In difesa del BASIC
- A Caccia del Wumpus
- L'Avventura di Crowther
- TOPS-10 in a Box
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- Eliza
- Adventureland
- Dog Star Adventure
- Qualche domanda per Lance Micklus
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Adventureland - Parte 2
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Nel 1978 l'idea di un programma per computer come merce vendibile (acquistabile come fosse un libro o un album musicale) era ancora abbastanza nuova. Nel mondo dei grandi computer istituzionali, il software commerciale si limitava per lo più ai sistemi operativi e alle applicazioni più essenziali e complicate (come i compilatori), e veniva quindi creato e venduto da quelle stesse compagnie che producevano l'hardware su cui girava. Il TOPS-10 era un prodotto della stessa DEC, il Time-Shared BASIC era un prodotto della Hewlett-Packard, e così via.
Questi programmi venivano venduti non come prodotti individuali con un prezzo fisso, ma piuttosto erano parte di contratti complessi, che includevano anche l'hardware per farli funzionare e il personale umano per il supporto. Il software creato dagli utenti finali di queste macchine era spesso talmente specializzato da risultare inutilizzabile al di fuori del contesto dove era stato creato e, se anche fosse stato fruibile al di fuori di quel contesto, veniva comunque distribuito gratuitamente. Non esistendo un vero mercato per il software, non c'era nemmeno alcun incentivo a fare le cose diversamente. 
 
Tutto questo iniziò a cambiare con l'avvento dei microcomputer. Il primo pezzo di software commerciale per microcomputer, venduto separatamente dall'hardware, fu creato dalla società che (nel bene o nel male) è poi diventata il sinonimo del modello di distribuzione commerciale "closed-source": la Microsoft.
Il primo prodotto di quella compagnia, creato nel 1975 (quando Bill Gates e Paul Allen erano ancora solo dei trasandati studenti universitari) era una versione del BASIC venduta su nastro perforato per il kit dell'Altair 8800. Il 3 Febbraio 1976 Gates spedì una "lettera aperta  agli hobbisti" destinata a diventare celebre, nella quale egli si faceva beffe della diffusa pratica di copiare il software della Microsoft, notando che, nonostante ogni possessore di Altair stesse usando il BASIC, meno del 10% di tali utenti l'aveva acquistato, affermando che il ritorno economico suo e di Allen per il tempo speso a svilupparlo era inferiore a due dollari l'ora.
Gli hobbisti reagirono a quella lettera con sorpresa e con un certo sdegno. Credo si possa affermare che la sola idea di un software che non fosse liberamente distribuibile (e quindi anche l'idea stessa di "pirateria") non li avesse mai sfiorati, tanto era antitetica all'etica della condivisione e del libero scambio di informazioni di posti come il celebre Homebrew Computer Club.
Un certo Jim Warren gli rispose così:

Esiste una valida alternativa per i problemi sollevati da Bill Gates nella sua irritata lettera rivolta agli hobbisti in merito al "furto" del suo software. Quando il software sarà libero (o così poco costoso da essere più facile acquistarlo che copiarlo), non verrà più "rubato".

Notate le virgolette intorno a "furto" e "rubato", come se tali concetti fossero inapplicabili al software. Il dibattito acceso da Gates e Warren infuria tutt'oggi. Ed è una palude in cui ho imparato a non infangarmi. Qui basterà far notare che con il BASIC dell'Altair ormai il dado era tratto e la distribuzione del software era cambiata per sempre.

Come avevo fatto notare in un post precedente, Radio Shack fu abbastanza saggia da comprendere che un buon supporto software era fondamentale per il successo del suo nuovo computer (un fatto ovvio, che però la Commodore -fra gli altri- non sembra aver mai compreso fino in fondo).
Poiché quasi tutti i TRS-80 venivano venduti nei negozi di Radio Shack, la società aveva la grande opportunità di creare in prima persona tale supporto, incoraggiando l'invio di software da parte degli hobbisti, per poi vendere i prodotti migliori fianco a fianco ai computer. Suona quindi quasi strano che i migliori programmi per TRS-80 non siano stati pubblicati da Radio Shack. Posso solo immaginare che gli svantaggi di dover interagire con l'ufficio acquisizioni di una gigantesca azienda senza volto fossero maggiori dei conseguenti vantaggi distributivi.
 
In quell'epoca il principale fattore di facilitazione della distribuzione del software erano (abbastanza sorprendentemente) le riviste. Prima dell'arrivo del TRS-80 e dei suoi competitor, la Creative Computing stava come sappiamo già pubblicando da anni listati di programmi in BASIC, e ovviamente continuò a farlo ancora a lungo.
Invece nell'Ottobre del 1978 la rivista SoftSide (la prima rivista specifica per il TRS-80, nonché -credo- la prima rivista dedicata ad una piattaforma specifica) aprì le pubblicazioni con questa mission:

La nostra intenzione è pubblicare il software - tanto software, tutto da trascrivere gratuitamente. Ogni mese offriremo programmi per gli affari, giochi, programmi per la gestione familiare, e anche programmi educativi per i più piccoli, che faranno del vostro home computer quel supporto educativo che avete sempre desiderato che fosse. I nostri contenuti saranno unici e sempre diversi, così come lo saranno anche i programmatori che collaboreranno con noi.

Inutile dire che la "trascrizione" dei listati era una vera sofferenza; digitare con fatica le centinaia di linee di codice di alcuni dei programmi eccezionalmente complessi che SoftSide pubblicò era l'antitesi del divertimento, indipendentemente da quanto si potesse essere innamorati del proprio nuovo computer. Senza dimenticare poi i subdoli bug che potevano essere introdotti semplicemente sbagliando un carattere o un numero qua e là. È per questo che SoftSide veniva venduta a scelta anche con una cassetta contenente tutti i programmi pubblicati in quel numero.
 
Ma questo era solo l'inizio. Già prima della nascita della rivista, gli editori di SoftSide avevano creato The TRS-80 Software Exchange, un organo di distribuzione del software commerciale a pagamento. I più cinici adesso penseranno che SoftSide fosse stata creata principalmente per promuovere il TSE: in ogni numero infatti veniva dedicato un numero considerevole di pagine all'elenco dei titoli del catalogo del TSE, con quelli commercialmente più promettenti a cui veniva accordata anche una mezza pagina o una pagina intera.
In un certo senso il TSE fu uno dei primi publisher di software - ma solo in un certo senso. Pubblicare un'opera con il TSE portava però con sé un vantaggio per cui oggi gli sviluppatori potrebbero uccidere:

Manterrai tutti i diritti sul programma sul quale hai tanto faticato. Se il tuo programma non vende, non fai soldi, e quindi perché mai dovresti incatenare il tuo software a un contratto di esclusiva? Con SoftSide resti libero di commercializzare il tuo programma con noi e, al tempo stesso, di venderlo privatamente o attraverso altri accordi non in esclusiva. Noi crediamo che siano solo i nostri risultati l'unico "vero legame" che ci serve.

 

Che affare, eh? Non c'è da meravigliarsi se moltissimi hobbisti, desiderosi di far arrivare i propri programmi nelle mani delle masse (e magari, contemporaneamente, di guadagnarci qualcosa), si affrettarono a spedire le proprie creazioni.
Fra loro c'era anche Scott Adams. Egli, ancora prima di aver scritto Adventureland, aveva pubblicato tramite il TSE un "gioco del tris 3D" e un gioco del backgammon. E, come molti altri, approfittò dei generosi termini contrattuali del TSE per pubblicare anche con Creative Computing Software (un organo molto simile al TSE, creato dall'omonima rivista), e per vendere in prima persona quello che poté (se volete leggere qualche aneddoto divertente al riguardo, vi consiglio questa intervista di Matt Barton ad Adams).
Tutto questo avvenne abbondantemente un anno prima della fondazione da parte di Adams della sua Adventure International, un vero e proprio publisher di sua proprietà. Adventureland apparve per la prima volta nel numero di Gennaio 1979 di SoftSide, venduto a 24,95 dollari insieme a una seconda avventura (che Scott aveva già scritto con la sua moglie di allora, Alexis). Chiamato Pirate Adventure, questo secondo titolo è più ricordato dalla maggior parte dei giocatori di quanto non fosse Adventureland.

Oggi ci appare strano osservare quanto fosse goffo e ingenuo il primo mercato dei giochi commerciali. Adams e il TSE non riuscivano nemmeno a mettersi d'accordo sul nome da dare ai giochi. Oltre al suo (presunto) nome vero, Adventureland appare nelle pubblicità del TSE anche come Adventure (ecco un buon modo per creare confusione!) e -ed è il mio favorito- come l'evocativo e attraente Land Adventure (che è forse anche quello più accurato...).
Il nome del secondo gioco invece oscillava fra Pirate Adventure, Pirate’s Adventure e Pirate’s Cove.
 
Ma questa confusione sul nome non spostò le cose di una virgola. Le avventure di Adams erano assolutamente uniche ed erano commercializzate in un mercato in forte espansione, affamato di nuovi giochi interessanti e divertenti. La maggior parte dei possessori di TRS-80 non aveva mai avuto accesso alle grandi macchine istituzionali su cui girava l'originale Adventure, e quindi stavano scoprendo il genere attraverso i giochi di Adams, che rappresentarono quindi il ponte che portò le innovazioni di Crowther e Woods nel promettente mondo dell'home computing.
E (proprio come accadde agli hacker del PDP-10 con Adventure) quando ebbero risolto i giochi di Adams, molti programmatori del TRS-80 iniziarono a pensare a come creare il loro Adventureland. E fu così che un genere era nato davvero.

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