Bentrovati amici dell'Avventura! Dopo una lunga attesa, torniamo nei meandri cavernosi di Infocom e di Zork per leggere la storia della nascita dei leggendari InvisiClues, ad opera di quell'irriducibile manipolo di nerd dello Zorks Users Group, guidati dal solito Mike Dornbrook. In un'epoca in cui le avventure testuali erano crudelmente sleali, al limite della violazione dei diritti umani (e i primi due Zork non rappresentavano certo un'eccezione), gli avventurieri avrebbero pagato montagne di zorkmid sonanti per poter sbirciare in rete le soluzioni agli enigmi più ostici, e sfuggire così all'insonnia. Peccato che il World Wide Web non esistesse ancora nel 1982! Fu così che i geniali (e costosi) InvisiClues divennero l'ultima speranza per gli insonni giocatori di Zork... e un affare notevole per lo Zork Users Group e la rampante Infocom. Non vi servirà alcun evidenziatore speciale per godere della lista degli articoli del ciclo Infocom: – Lo Zork User Group – Zork III, Parte 1 – Zork III, Parte 2 Buona lettura e ... occhio agli indizi invisibili! Festuceto |
Ero a una festa nella mia città natale con alcuni amici del liceo. Uno di loro aveva frequentato farmacia alla University of Wisconsin. Gli stavo descrivendo i miei tentativi di creare questi libretti, nel tentativo di trovare una soluzione al problema, quando lui mi disse: “perché non usi l’inchiostro simpatico?” |
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Non si può enfatizzare abbastanza quanto i war games e i giochi di ruolo da tavolo (e in particolare, ovviamente, Dungeons and Dragons della TSR) abbiano influenzato le prime narrative ludiche su computer. A volte tale influenza è del tutto palese, come nel caso di giochi tipo Eamon che cercavano esplicitamente di trasportare su computer l'esperienza del D&D. Altre volte però tale influenza è meno apparente.
A differenza dei tipici giochi da tavolo, o perfino dei war game, il D&D e i suoi contemporanei non erano commercializzati come prodotti singoli, ma come delle vere e proprie raccolte di esperienze, quasi uno stile di vita. Solo per iniziare a giocare con la punta di diamante, l'Advanced Dungones & Dragons, si dovevano acquistare tre grandi volumi dalla copertina rigida (Monster Manual, Players Handbook, e Dungeon Masters Guide), a cui si aggiunsero presto molti altri volumi, che descrivevano nuovi mostri, nuovi tesori, nuovi dei, nuove classi di personaggio, e nuove regole sempre più complesse per nuotare, per creare oggetti, per muoversi nelle ombre, per rubare, e -ovviamente- per combattere. Ma, soprattutto, c'erano i moduli d'avventura: avventure preconfezionate, vere e proprie narrative ludiche che potevano essere messe in scena utilizzando il sistema di gioco di D&D. Ne uscivano a dozzine, meticolosamente catalogate con un sistema alfanumerico che permetteva ai collezionisti compulsivi di tenerne traccia; una trilogia di moduli dedicati ai giganti fu etichettata da “G1” a “G3”, una serie di moduli creata nel Regno Unito fu etichettata “UK” [che sta per “United Kingdom”; ndAncient]. A parte i vari vantaggi ludici, questo sistema era indubbiamente il sogno di ogni addetto alle vendite. Perché limitarsi a vendere un solo gioco ai tuoi clienti, quando puoi incatenarli a un intero universo in continua espansione di prodotti?
La strategia di marketing della TSR (basata sulla filosofia di “un solo gioco / molti prodotti”) e il suo zelo per la catalogazione possono essere ritrovati anche fra quei primi sviluppatori di giochi per computer che non stavano provando esplicitamente ad adattare le regole del D&D ai loro mondi digitali. Scott Adams, per esempio, numerò tutte le sue avventure, arrivando così a una dozzina di giochi canonici (altre avventure, presumibilmente non scritte di proprio pugno dal maestro, furono invece pubblicate dalla Adventure International come delle specie di opere apocrife ufficiali sotto l'etichetta “OtherVentures”). I giocatori venivano incoraggiati a giocarle in ordine, visto che aumentavano gradualmente di difficoltà; in questo modo il giocatore principiante poteva affilarsi i denti con opere relativamente “forgiving” tipo Adventureland e Pirate Adventure, per poi gettarsi nei giochi successivi assurdamente difficili tipo Ghost Town e Savage Island. La On-Line Systems adottò un modello simile, sottotitolando retroattivamente Mystery House in Hi-Res Adventure #1 dopo aver pubblicato la Hi-Res Adventure #2 (The Wizard and the Princess). Il gioco successivo Mission: Asteroid, apparso all'inizio nel 1981, fu battezzato Hi-Res Adventure #0 (nonostante la cronologia delle uscite) perché era stato pensato come gioco per principianti, con un po' meno assurdità ed enigmi iniqui del solito. A tutti gli effetti queste similitudini con l'approccio del D&D erano qualcosa di più di un semplice fenomeno di marketing. Del resto entrambe le linee di giochi erano basate su motori riutilizzabili. Nello stesso modo in cui un gruppo di giocatori viveva intorno al tavolo molte avventure diverse usando le regole alla base del D&D, così le linee di avventure di Scott Adams o le Hi-Res Adventures erano essenzialmente delle regole base (il motore di gioco) applicate a molte narrative ludiche diverse.
Tuttavia, fra gli sviluppatori che abbiamo esaminato fin qui, quelli che imitavano in modo più palese il modello del D&D erano -logicamente- quelli che provenivano direttamente dalla cultura del D&D: Donald Brown con il sistema di Eamon, e le Automated Simulations, gli sviluppatori della linea DunjonQuest che era iniziata con Temple of Apshai. J.W. Connelley, il principale sviluppatore del motore dell'Automated Simulations, aveva progettato per Temple of Apshai un motore riutilizzabile che leggeva i file di dati che rappresentavano i livelli del dungeon che si esplorava. Proprio come accadde per Scott Adams e per la On-Line Systems, questo approccio da un lato rese il gioco più facile da convertire (e infatti le versioni per tutte le principali macchine del 1979 -TRS-80, Apple II, Commodore PET- furono pubblicate quello stesso anno), e dall'altro lato velocizzò lo sviluppo di nuove iterazioni del medesimo concept. Tali iterazioni furono etichettate come un set unico di esperienze, che prese il nome di DunjonQuest. Il pittoresco appellativo dalla dizione medievale fu probabilmente scelto per evitare conflitti con la litigiosissima TSR, che, oltre alle regole del D&D, stava commercializzando anche un gioco da tavolo chiamato semplicemente Dungeon!
E la Automated Systems non fece certo mancare tali iterazioni! Altri due titoli della collana DunjonQuest apparvero lo stesso anno di Temple of Apshai. Sia Datestones of Ryn che Morloc’s Tower facevano parte di quelle che la Automated Simulations chiamò MicroQuests, nelle quali gli elementi di costruzione del personaggio erano completamente assenti. Al loro posto il giocatore doveva guidare un personaggio pregenerato attraverso un ambiente molto più piccolo. Ci si aspettava che il giocatore affrontasse più volte l'avventura, cercando di conseguire risultati sempre migliori. Nel 1980 la Automated Simulations pubblicò invece il “vero” seguito di Temple of Apshai, Hellfire Warrior, che conteneva i livelli dal quinto all'ottavo del labirinto iniziato col gioco precedente. Sempre quell'anno pubblicarono anche due titoli più modesti, Rescue at Rigel e Star Warrior, le prime e uniche uscite di una nuova serie, StarQuest, che catapultava il sistema DunjonQuest nello spazio.
Almeno secondo una prospettiva moderna, c'è una sorta di dissonanza cognitiva in queste serie, se le esaminiamo nel loro complesso. I manuali spingevano molto sull'aspetto sperimentale di questi giochi, come ben dimostrato da questo estratto del manuale di Hellfire Warrior:
Quali che siano il tuo background e le tue esperienze precedenti, ti invitiamo a proiettare nel “dunjon” non solo il tuo personaggio, ma anche tutto te stesso. Ti invitiamo a perderti nel labirinto. A sentire la polvere sotto i tuoi piedi. Ad ascoltare il suono di passi non umani che si avvicinano o il lamento di un'anima persa. Lascia che l'odore di zolfo assalga le tue narici. Brucia al caldo delle fiamme dell'inferno, e gela sopra un ponte di ghiaccio. Passa le dita in un cumulo di monete d'oro e immergiti in una pozza d'acqua magica. Entra nel mondo di DunjonQuest. |
Nonostante tutto questo, nessuno di questi giochi aveva la benché minima trama. Temple of Apshai e Hellfire Warrior non hanno nemmeno una fine vera e propria, ma solo dei dungeon che si rigenerano all'infinito da esplorare e un personaggio giocante da migliorare in eterno. Mentre le MicroQuests ricompensano i giocatori solo con un insoddisfacente punteggio finale al posto di un epilogo vero e proprio. Sebbene il background narrativo del suo manuale sia ideato con un'attenzione insolita, Datestones of Ryn ha un limite temporale di soli 20 minuti, che gli dà più un feeling da gioco d'azione, giocabile all'infinito e quasi privo di contesto, piuttosto che da gioco di ruolo per computer. Invece il gameplay della serie nel suo complesso, oggi, ci balza all'occhio per le sue similitudini con i roguelike, dei dungeon crawl senza storia (o, almeno, con pochissima storia) attraverso labirinti generati casualmente. Questa però sarebbe una lettura anacronistica: Rogue, il capostipite del genere, in realtà è uscito un anno dopo Temple of Apshai.
Credo che tutte queste stranezze possano essere spiegate se comprendiamo che Jon Freeman, il principale designer dietro il sistema, stava puntando a creare un tipo di narrativa ludica diverso da quella delle avventure testuali di Scott Adams e da quella tipica della On-Line Systems. Lui sperava che, dati un background, una descrizione degli ambienti, un set di regole per controllare ciò che vi accadeva, e una buona dosa di immaginazione da parte del giocatore, dal gioco emergesse autonomamente una narrativa ludica. In altre parole, usando un termine che appartiene ad un'era molto successiva, stava tentando di creare una narrativa emergente. Per comprendere meglio il suo approccio, ho pensato di dare una breve occhiata da vicino a uno dei suoi giochi, Rescue at Rigel.
Rescue at Rigel trae ispirazione dalla classica space opera, un genere che è stato recentemente riportato in vita dal fenomenale successo dei primi due film di Star Wars [l'articolo è stato scritto nel 2011, quindi l'autore si riferisce alla seconda trilogia di Guerre Stellari; ndAncient].
Nell'arena della vostra immaginazione, non tutti i nostri eroi (o le nostre eroine!) indossano armature nere o di uno scintillante argento, né prendono a mazzate dei barbari nemici su dei moli sferzati dal vento, né affrontano dei macabri destini per mano di depravati adepti le cui arti nere erano già vecchie quando il mondo era giovane. La fantascienza ci fa viaggiare su navi stellari con nomi come Enterprise, Hooligan, Little Giant, Millenium Falcon, Nemesis, Nostromo, Sisu, Skylark, e Solar Queen. Navi che viaggiano su mari stellati, che non sono percorsi da tempeste o infestati da demoni, ma che non per questo sono meno spaventosi. Navi che ci fanno approdare su nuovi mondi impavidi le cui forme, i cui panorami e i cui suoni sono più plausibili (ma non meno sbalorditivi) di quelli sperimentati da Sinbad. |
In questo titolo il giocatore assume il ruolo di Sudden Smith, un classico ed energico eroe pulp. Sta per teletrasportarsi nella base di una razza di alieni insettoidi conosciuti col nome di Tollah, che hanno catturato un gruppo di scienziati per le loro “ricerche” e fra questi c'è anche la fidanzata di Sudden. I Tollah sono uno dei pochissimi accenni ad eventi di un mondo più ampio che troverete nei primissimi videogiochi, al di là delle opere di fantasy e science-fiction. La casta che comanda i Tollah sono gli “High Tollah”, un chiaro riferimento allo Ayatollah Khomeyni, che a quel tempo aveva recentemente preso il potere in Iran e che teneva in ostaggio 52 Americani [“High Tollah”, cioé “Alto Tollah”, si pronuncia infatti in modo molto simile a Ayatollah; ndAncient]. Gli “High Tollah” ci dice il manuale, “sono altezzosi, autoritari, intolleranti, ottusi, privi di immaginazione e inflessibili.” Alla luce di tutto questo, è palese quale sia stata l'ispirazione per questo scenario di salvataggio degli scienziati.
Il gameplay si sviluppa intorno all'esplorazione della base dei Tollah, convenientemente strutturata come un labirinto, respingendo i Tollah e i robot della sicurezza, mentre cerchiamo i dieci scienziati che vi sono tenuti in ostaggio. Si tratta sostanzialmente, come in tanti altri giochi di ruolo per computer, di un gioco di gestione delle risorse: Sudden ha un numero limitato di medikit, di munizioni, e soprattutto una riserva limitata di energia all'interno del suo zaino che deve essere usata per tutto (dallo sparare agli Tollah, fino al teletrasportare gli scienziati al sicuro). Quel che è peggio è che Sudden ha soltanto 60 minuti di tempo reale per salvare il maggior numero possibile di scienziati e teletrasportarsi al sicuro. Freeman fa di tutto per rendere il gioco un motore di eccitante narrativa emergente. Ad esempio, se Sudden finisce completamente l'energia, ha comunque un'ultima possibile via di fuga: se riesce a tornare nei 60 minuti al punto in cui lo ha depositato il teletrasporto, un altro teletrasporto automatico lo riporterà in salvo. È facile immaginarsi una situazione disperata, che pare uscita direttamente da una storia di Guerre Stellari o di Dominic Flandry, con il giocatore che torna sui suoi passi, in mezzo al fuoco dei laser, mentre il tempo scorre e i Tollah gli sono alle calcagna. Di certo ci possiamo immaginare che Freeman si fosse immaginato tutto questo.
Ma per vivere queste storie è necessaria una notevole dedizione e una fervida immaginazione da parte del giocatore, come potrà probabilmente convenire chiunque abbia osservato l'orrendo screenshot di cui sopra. Effettivamente i giochi della serie DunjonQuest sembrano proprio una sorta di ibrido fra l'esperienza di un gdr da tavolo e di uno digitale, in cui ciò che emerge direttamente dall'immaginazione del giocatore è importante quanto quello offerto dal gioco stesso. È per questo che probabilmente è stata una mossa saggia per la Automated Simulations quella di usare come target del marketing di DunjonQuest proprio i giocatori di ruolo cartaceo. Del resto loro sono abituati a rimboccarsi le maniche e a usare la loro immaginazione per inventare delle narrative soddisfacenti. La Automated Simulations pubblicizzò ampiamente DunjonQuest sulla rivista Dragon Magazine della TSR, e (con una mossa che non potrebbe essere più indicativa della tipologia di pubblico che pensavano potesse apprezzare DunjonQuest) arrivarono persino a regalare il gioco da tavolo strategico chiamato Sticks and Stones con ogni acquisto di un gioco della serie DunjonQuest.
Negli ultimi mesi del 1980 la Automated Simulations cambiò il suo nome nel meno prosaico Epyx, adottando il motto: “Computer games thinkers play” [traducibile all'incirca come “Videogiochi a cui giocano le persone che pensano”; ndAncient]. I giochi della serie DunjonQuest continuarono comunque a uscire per altri due anni. Fra le ultime pubblicazioni ci furono anche un paio di espansioni per Temple of Apshai e Hellfire Warrior, che credo siano i primi esempi del genere tra i giochi commerciali per computer. Invece l'utilizzo più strano e creativo dell'engine di DunjonQuest arrivò nel 1981 con Crush, Crumble, and Chomp!: The Great Movie Monster Game, nel quale il giocatore assumeva il controllo di Godzilla (anzi, no, di Goshzilla!), o di qualche altro mostro famoso lanciato nella distruzione di una città. Per un esame dettagliato di tutta la serie di DunjonQuest, che alla fine si compose di una dozzina di titoli, potete leggere questo articolo di Hardcore Gaming 101.
Crush, Crumble, and Chomp! fu l'ultimo lavoro di Freeman per la Epyx. Alla West Coast Computer Faire of 1980 incontrò infatti una collega programmatrice chiamata Anne Westfall e di lì a poco i due iniziarono a frequentarsi. Westfall si unì alla Epyx per un po', andando a lavorare come programmatrice su alcuni degli ultimi giochi di DunjonQuest. Lei e Freeman però ben presto si stufarono del disinteresse di Connelley nel miglioramento dell'engine di DunjonQuest. Scritto in BASIC sull'ormai vetusto TRS-80 Model I, tale engine era sempre stato tremendamente lento e ormai iniziava a sembrare davvero datato nei porting per le piattaforme più moderne e capaci. In più Freeman, un designer irrequieto e creativo, si stava annoiando delle continue iterazioni del solito concept di DunjonQuest; perfino creare Crush, Crumble, and Chomp! aveva richiesto una dura battaglia da parte sua... Alla fine del 1981 Freeman e Westfall lasciarono la Epyx per creare una casa di sviluppo indipendente, la Free Fall Associates, della quale avrò molto altro da dire in futuro. E, dopo un paio di ultime pubblicazioni per DunjonQuest, la Epyx si trasformò da “Computer games thinkers play” in qualcosa di molto diverso, e anche di questo avrò molto da dire in futuro. Con incassi buoni, ma mai enormi, neppure al massimo del proprio splendore, i giochi della serie DunjonQuest sfiguravano abbastanza nel confronto con la nuova generazione di giochi di ruolo per computer, dei quali -come avrete immaginato- avrò molto altro da dire in futuro.
Se volete sperimentare l'esperienza di DunjonQuest, posso fornirvi un pacchetto con un immagine per Apple II che include Temple of Apshai, Rescue at Rigel, Morloc’s Tower, e Datestones of Ryn, oltre ai relativi manuali.
La prossima volta inizieremo a esplorare un'opera con una profondità tematica senza precedenti, che fa già drizzare tutte le mie antenne di studioso di letteratura.
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The Count si apre con un title screen destinato a diventare iconico e longevo in modo quasi bizzarro, apparendo non solo su tutti i giochi del TRS-80 della serie classica di Scott Adams, ma anche su tutte le piattaforme su cui sarebbe sbarcata la linea. Questa schermata del titolo resterà sostanzialmente immutata perfino nel suo porting illustrato.
Un paio di cose ci colpiscono immediatamente a colpo d'occhio.
La prima è l'indelebile stile svogliatamente entusiastico che caratterizza tutti i suoi giochi come una firma d'autore. Da quel che si può vedere, l'interprete si chiama semplicemente ADVENTURE ed è già (!) alla versione 8.2, mentre il The Count vero e proprio ("Adventure Number 5") è alla versione 1.15. La supplica, con cui si conclude il messaggio, ci mostra invece come la pirateria informatica fosse già un problema rilevante nel 1979, e non un mero spauracchio del solo Bill Gates. Col passare del tempo sarebbe diventata -come sappiamo bene- una questione ben più ampia, mano a mano che i pirati si dotavano di sofisticati network di distribuzione e nasceva una intera sottocultura (affascinante quanto immorale); ma di questo parlerò più profusamente quando ci arriveremo. Dal canto suo Adams si era forse fatto prendere un po' troppo la mano pur di spiegare il suo punto di vista: non aveva chiaramente speso "più di un anno" a sviluppare The Count, anche considerando che nel solo 1979 aveva pubblicato ben altri cinque giochi (che si stesse forse riferendo allo sviluppo del sistema ADVENTURE nel suo complesso?).
Ma -vi starete chiedendo- perché il testo ha un aspetto così buffo? Forse vi ricorderete di quando ho spiegato che il TRS-80 base non era equipaggiato per supportare i caratteri minuscoli. In un certo senso questo è solo parzialmente vero. La ROM dei caratteri, che conteneva i glifi di tutti i caratteri visualizzabili, aveva al suo interno anche i glifi per tutte le minuscole, oltre che per le maiuscole. Immagino che, come avveniva per molte delle componenti del TRS-80, anche questa era una parte esistente che era più facile ignorare che modificare per rimuovere i glifi extra. Quello che veramente mancava al TRS-80 era un modo per inserire le lettere minuscole. Il mercato secondario, sempre molto inventivo, risolse rapidamente questo problema con vari kit di modifica, uno dei quali fu evidentemente acquistato da Adams all'inizio del 1979. Tuttavia, anche con un kit del genere, il display del TRS-80 (essendo stato progettato con in mente le sole maiuscole) non possedeva ancora il concetto dei tratti discendenti. Quindi i caratteri come "y", "p", e "g" sono disegnati sopra il rigo, invece che scenderne al di sotto, generando così quell'aspetto strano che vedete nell'immagine sopra. E poi, si sa... a quel che non ammazza, ci si abitua.
Ma ora lasciate che vi parli specificatamente di The Count e di cosa lo rende un pezzo unico e interessante nella produzione di Adams. Se Mission Impossible aveva introdotto l'uso del tempo come elemento a servizio della trama sotto forma di una ticchettante (letteralmente) bomba ad orologeria, The Count si spinge oltre, molto oltre.
All'inizio ci svegliamo in una camera da letto di una casa infestata da Dracula in persona. Siamo stati portati lì dagli abitanti impauriti del villaggio, con le precise istruzioni di uccidere Dracula o di morire (o, meglio, di diventare vampiri a nostra volta) provandoci. Ovviamente (grazie ai testi ridotti ai minimi termini, all'assenza di ogni documentazione aggiuntiva, e al design old-school), tutto questo lo possiamo solo intuire quando abbandoniamo l'edificio e veniamo uccisi da una folla infuriata - il che oltretutto ci fa legittimamente chiedere se sia più malvagio Dracula o la folla degli abitanti del villaggio... ma chiuderemo un occhio su questo aspetto.
La trama si svolge su tre (o, al massimo, quattro) pomeriggi, e altrettante sere, durante le quali dovremo organizzare tutti i dettagli per raggiungere il nostro scopo: piantare l'obbligatorio paletto nel cuore del vampiro, ponendo così fine al regno di Dracula.
Non solo il tempo scorre attraverso questi giorni, con i pomeriggi che diventano notti (con gli effetti conseguenti sull'illuminazione generale), ma ci sono anche eventi della trama che accadono all'interno dell'universo di gioco in momenti specifici, e in particolare vanno segnalate due consegne postali che avvengono il primo e il secondo pomeriggio.
Al solito non voglio esagerare l'importanza di tutto questo; siamo ancora molto lontani da una storia seria e articolata; The Count è ancora pienamente inchiodato al solito stile scherzoso di Scott Adams.
Quello che abbiamo qui, però, è un universo che, almeno da alcuni punti di vista, è molto più dinamico di qualunque cosa si fosse mai vista prima. Per quanto Adventure poteva vantarsi dei suoi nani e dei suoi pirati capaci di movimento autonomo (che, a modo loro, erano incredibilmente sofisticati), il suo mondo restava completamente statico fino all'attivazione della scena finale e assolutamente privo di ogni percezione del tempo (se si esclude la lanterna che si esaurisce). Non a caso, The Count inserisce il verbo ASPETTA (un comando che nei giochi precedenti sarebbe stato del tutto superfluo), giacché il giocatore deve pianificare le proprie azione anche in base all'orario del giorno e a quei due fondamentali pacchi che devono essere consegnati.
Nel suo complesso il gioco non è altro che un nuovo tipo di meta-enigma sistemico, con il giocatore intento a mappare mentalmente il modo in cui gli eventi si dipanano e il funzionamento di ogni singolo elemento (morendo un numero infinito di volte nel frattempo...), al fine di mettere a punto il piano che lo porterà alla vittoria finale. The Count, in un certo senso, introduce quindi un nuovo paradigma di gameplay per le avventure testuali: uno non più basato sull'esplorazione geografica (anzi, per l'epoca la sua mappa è molto piccola e facile da gestire), ma su un modo di pensare dinamico e sistemico, che ce lo fa apparire molto più vicino ad un'esperienza narrativa. Il sistema è addirittura abbastanza sofisticato da prevedere un buon numero di percorsi diversi per arrivare alla vittoria finale; praticamente tutte le soluzioni del gioco che ho trovato avevano un approccio diverso.
Nonostante questo, a volte il confine fra il sistema della narrazione e il sistema del programma è un po' fumoso, e si rimane con la sensazione di giocare al programma piuttosto che alla storia.
Per esempio, nel gioco ci si sposta fra i piani della casa usando un montavivande (tralasceremo di parlare della mancanza di una scalinata interna, che è uno di quei crimini contro la mimesi che ci sentiamo di poter perdonare in un gioco tanto vecchio e primitivo). Dovete sapere che, se si perdono i sensi e si viene messi a letto per la notte (presumibilmente dallo stesso Dracula...) su un piano diverso da quello che contiene la camera, tale montavivande resta al piano dove lo abbiamo lasciato, impedendoci così di finire il gioco! Questo non ha alcun senso all'interno dell'universo narrativo (dove si è mai sentito di un montavivande che sale o scende solo con un passeggero all'interno?!?), ma è invece solo un limite del programma.
È per ragioni come questa che la risoluzione del gioco si rivela più noiosa che divertente; del resto neppure la Infocom nei suoi giochi più dinamici, con un'impostazione simile a The Count, riuscirà a risolvere fino in fondo questa "sindrome dell'imparare morendo". Sono proprio i tanti fattori di frustrazione come questo che fanno di The Count un gioco meno divertente di quanto non sia invece interessante come tecnologia e come concept.
E non si può dire nemmeno che il finale risollevi le sorti del gioco...
Dobbiamo aggiungere che in seguito Adams non ha mai fatto molto per sviluppare queste idee, rifugiandosi di lì in poi prevalentemente negli schemi della caccia al tesoro e in simili gameplay statici, e lasciando questo approccio più dinamico alla Infocom che tre anni dopo svilupperà il rivoluzionario Deadline. Ma, come dico sempre, di questo parleremo in seguito.
Se volete giocare The Count nella sua forma originale, ecco un file CMD che potete caricare nell'emulatore MESS usando "Device –> Quickload" dal menù dell'emulatore.
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Articoli precedenti:
- Sulle tracce di The Oregon Trail
- In difesa del BASIC
- A Caccia del Wumpus
- L'Avventura di Crowther
- TOPS-10 in a Box
- L'Avventura completata
- Tutto il TRaSh del TRS-80
- Eliza
- Adventureland
- Dog Star Adventure
- Qualche domanda per Lance Micklus
- Un 1979 indaffarato
- The Count
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Dire che il 1979 di Scott Adams fu molto produttivo è dir poco... Basti citare il fatto che in quell'anno pubblicò la bellezza di sei nuovi giochi completi: Mission Impossible, Voodoo Castle, The Count, Strange Odyssey, Mystery Fun House, e Pyramid of Doom.
E, fra questi sei, ben quattro erano scritti di suo solo pugno!
Voodoo Castle è attribuito ufficialmente anche a Alexis, la moglie d'allora di Adams. Tuttavia il ruolo che ha avuto non è molto chiaro, visto che nelle ultime interviste Adams ne ha sminuito il contributo, affermando che le sono attribuibili solo le linee guida della trama, mentre sarebbe stato lui a occuparsi quasi interamente della scrittura dei testi e completamente della programmazione. Purtroppo, con il passaggio degli anni e i risentimenti che inevitabilmente accompagnano ogni divorzio, non sapremo probabilmente mai se Alexis Adams può essere legittimamente considerata la prima donna game designer di avventure (battendo quindi sul tempo Roberta Williams di oltre un anno).
Ben più chiaro è invece il contribuito che Alvin Files ha dato a Pyramid of Doom. Lavorando in modo autonomo (senza aver accesso al codice sorgente o ai progetti originali), Files fece il reverse-engineering del motore di Adams, creando per quella via un gioco tutto suo, per poi spedire il risultato definitivo ad Adams, che lo aggiustò un po' e lo pubblicò come l'Adventure #8, riconoscendo a Files il "90 percento" del merito. Pyramid of Doom fu pubblicato intorno all'Ottobre del 1979, ma un primo segno dell'amicizia fra i due risale già a quell'estate con The Count, che è ufficialmente "dedicato ad Alvin Files".
Nel costruire questa cronologia tramite riviste e documenti dell'epoca, sono rimasto sorpreso nel constatare che quasi due terzi di quella, che sarebbe poi diventata (in modo un po' arbitrario) la dozzina di avventure che compongono il canone di Scott Adams, è stata creata prima della Adventure International, la società di Adams. Essa fu infatti fondata prima della fine dell'anno, quando Adams era già impegnato in un altro importante passo: il porting del suo engine su altri microcomputer.
La prima piattaforma canditata per il porting fu inevitabilmente l'Apple II, la seconda macchina più popolare del 1979. Tuttavia nel giro di pochi anni l'esplosione di macchine incompatibili fra loro, unita alla dedizione di Adams a supportarne il più possibile, avrebbe portato i suoi giochi su oltre una dozzina di piattaforme diverse.
E, se anche il 1979 non fu ancora l'anno dell'esplosione dei giochi d'avventura, fu comunque l'anno in cui Adams pose le basi perché ciò accadesse. L'avvento del nuovo anno lo vide infatti armato di una società appena fondata, di un engine per avventure che poteva essere facilmente oggetto di porting verso nuove piattaforme, e con un catalogo di tutto rispetto di giochi già pronti che spaziavano in un'ampia varietà di generi diversi. Aveva perfino creato una versione "dimostrativa", semplificata, di Adventureland per chi volesse conoscere meglio il nuovo genere.
Adams apportò dei notevoli miglioramenti tecnici al suo engine anche per il buon vecchio TRS-80. A cavallo fra la pubblicazione di Mission Impossible nella primavera del 1979 e di Voodoo Castle e The Count in quell'estate, Adams (apparentemente incitato a farlo da Lance Micklus) riscrisse il suo interprete -originariamente scritto in BASIC- in linguaggio assembly, con conseguenti giganteschi incrementi di velocità. Implementò anche una nuova impostazione della schermata di gioco, che successivamente sarebbe diventata una sorta di suo marchio di fabbrica, con la descrizione della stanza in cui ci si trova e i relativi contenuti sempre in mostra in una "finestra" separata, senza scrolling, collocata nella metà superiore dello schermo.
Considerando il display a 64 caratteri per 16 linee del TRS-80 e l'aspettativa degli utenti ad avere una buona fluidità nelle parti di maggiore interesse, questo rappresentò un grosso passo in avanti. Il nuovo interprete supportava perfino i caratteri minuscoli, anche se la prosa, la grammatica e anche gli errori ortografici non divennero mai una priorità... Con questi miglioramenti il nuovo sistema, per il quale vennero rapidamente riadattati anche i primi tre giochi, rese l'andare in cerca d'avventura sul TRS-80 un'esperienza assai più piacevole.
E che dire del contenuto di questi giochi? Beh, l'engine limitato e il ritmo infuocato con cui Adams li sfornava hanno rappresentato un inevitabile limite alle loro potenzialità; tuttavia in questi nuovi titoli ci sono dei nuovi sviluppi di cui vale la pena parlare.
Il primo di questi sviluppi è rappresentato dal fattore tempo. Sia l'Adventure originale che Adventureland richiedevano, come è noto, un'attenzione particolare alla gestione del tempo per far fronte alle fonti di luce che si esaurivono; Mission: Impossible invece si spinge un po' oltre, legando maggiormente il fattore tempo alla trama sotto forma di una ticchettante bomba a orologeria che minaccia di distruggere un impianto nucleare.
A distanza di due soli giochi da questo, abbiamo invece The Count, il gioco che rappresenta l'apice dell'ambizione concettuale di Adams, nonché un significativo passo in avanti per le avventure testuali intese come mezzo per raccontare una storia. La prossima volta esaminerò quindi in maggior dettaglio The Count, di gran lunga il più interessante di queste sei fatiche di Scott Adams.
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Articoli precedenti:
- Sulle tracce di The Oregon Trail
- In difesa del BASIC
- A Caccia del Wumpus
- L'Avventura di Crowther
- TOPS-10 in a Box
- L'Avventura completata
- Tutto il TRaSh del TRS-80
- Eliza
- Adventureland
- Dog Star Adventure
- Qualche domanda per Lance Micklus
- Un 1979 indaffarato
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Nel 1978 l'idea di un programma per computer come merce vendibile (acquistabile come fosse un libro o un album musicale) era ancora abbastanza nuova. Nel mondo dei grandi computer istituzionali, il software commerciale si limitava per lo più ai sistemi operativi e alle applicazioni più essenziali e complicate (come i compilatori), e veniva quindi creato e venduto da quelle stesse compagnie che producevano l'hardware su cui girava. Il TOPS-10 era un prodotto della stessa DEC, il Time-Shared BASIC era un prodotto della Hewlett-Packard, e così via.
Questi programmi venivano venduti non come prodotti individuali con un prezzo fisso, ma piuttosto erano parte di contratti complessi, che includevano anche l'hardware per farli funzionare e il personale umano per il supporto. Il software creato dagli utenti finali di queste macchine era spesso talmente specializzato da risultare inutilizzabile al di fuori del contesto dove era stato creato e, se anche fosse stato fruibile al di fuori di quel contesto, veniva comunque distribuito gratuitamente. Non esistendo un vero mercato per il software, non c'era nemmeno alcun incentivo a fare le cose diversamente.
Tutto questo iniziò a cambiare con l'avvento dei microcomputer. Il primo pezzo di software commerciale per microcomputer, venduto separatamente dall'hardware, fu creato dalla società che (nel bene o nel male) è poi diventata il sinonimo del modello di distribuzione commerciale "closed-source": la Microsoft.
Il primo prodotto di quella compagnia, creato nel 1975 (quando Bill Gates e Paul Allen erano ancora solo dei trasandati studenti universitari) era una versione del BASIC venduta su nastro perforato per il kit dell'Altair 8800. Il 3 Febbraio 1976 Gates spedì una "lettera aperta agli hobbisti" destinata a diventare celebre, nella quale egli si faceva beffe della diffusa pratica di copiare il software della Microsoft, notando che, nonostante ogni possessore di Altair stesse usando il BASIC, meno del 10% di tali utenti l'aveva acquistato, affermando che il ritorno economico suo e di Allen per il tempo speso a svilupparlo era inferiore a due dollari l'ora.
Gli hobbisti reagirono a quella lettera con sorpresa e con un certo sdegno. Credo si possa affermare che la sola idea di un software che non fosse liberamente distribuibile (e quindi anche l'idea stessa di "pirateria") non li avesse mai sfiorati, tanto era antitetica all'etica della condivisione e del libero scambio di informazioni di posti come il celebre Homebrew Computer Club.
Un certo Jim Warren gli rispose così:
Notate le virgolette intorno a "furto" e "rubato", come se tali concetti fossero inapplicabili al software. Il dibattito acceso da Gates e Warren infuria tutt'oggi. Ed è una palude in cui ho imparato a non infangarmi. Qui basterà far notare che con il BASIC dell'Altair ormai il dado era tratto e la distribuzione del software era cambiata per sempre.
Come avevo fatto notare in un post precedente, Radio Shack fu abbastanza saggia da comprendere che un buon supporto software era fondamentale per il successo del suo nuovo computer (un fatto ovvio, che però la Commodore -fra gli altri- non sembra aver mai compreso fino in fondo).
Poiché quasi tutti i TRS-80 venivano venduti nei negozi di Radio Shack, la società aveva la grande opportunità di creare in prima persona tale supporto, incoraggiando l'invio di software da parte degli hobbisti, per poi vendere i prodotti migliori fianco a fianco ai computer. Suona quindi quasi strano che i migliori programmi per TRS-80 non siano stati pubblicati da Radio Shack. Posso solo immaginare che gli svantaggi di dover interagire con l'ufficio acquisizioni di una gigantesca azienda senza volto fossero maggiori dei conseguenti vantaggi distributivi.
In quell'epoca il principale fattore di facilitazione della distribuzione del software erano (abbastanza sorprendentemente) le riviste. Prima dell'arrivo del TRS-80 e dei suoi competitor, la Creative Computing stava come sappiamo già pubblicando da anni listati di programmi in BASIC, e ovviamente continuò a farlo ancora a lungo.
Invece nell'Ottobre del 1978 la rivista SoftSide (la prima rivista specifica per il TRS-80, nonché -credo- la prima rivista dedicata ad una piattaforma specifica) aprì le pubblicazioni con questa mission:
Inutile dire che la "trascrizione" dei listati era una vera sofferenza; digitare con fatica le centinaia di linee di codice di alcuni dei programmi eccezionalmente complessi che SoftSide pubblicò era l'antitesi del divertimento, indipendentemente da quanto si potesse essere innamorati del proprio nuovo computer. Senza dimenticare poi i subdoli bug che potevano essere introdotti semplicemente sbagliando un carattere o un numero qua e là. È per questo che SoftSide veniva venduta a scelta anche con una cassetta contenente tutti i programmi pubblicati in quel numero.
Ma questo era solo l'inizio. Già prima della nascita della rivista, gli editori di SoftSide avevano creato The TRS-80 Software Exchange, un organo di distribuzione del software commerciale a pagamento. I più cinici adesso penseranno che SoftSide fosse stata creata principalmente per promuovere il TSE: in ogni numero infatti veniva dedicato un numero considerevole di pagine all'elenco dei titoli del catalogo del TSE, con quelli commercialmente più promettenti a cui veniva accordata anche una mezza pagina o una pagina intera.
In un certo senso il TSE fu uno dei primi publisher di software - ma solo in un certo senso. Pubblicare un'opera con il TSE portava però con sé un vantaggio per cui oggi gli sviluppatori potrebbero uccidere:
Che affare, eh? Non c'è da meravigliarsi se moltissimi hobbisti, desiderosi di far arrivare i propri programmi nelle mani delle masse (e magari, contemporaneamente, di guadagnarci qualcosa), si affrettarono a spedire le proprie creazioni.
Fra loro c'era anche Scott Adams. Egli, ancora prima di aver scritto Adventureland, aveva pubblicato tramite il TSE un "gioco del tris 3D" e un gioco del backgammon. E, come molti altri, approfittò dei generosi termini contrattuali del TSE per pubblicare anche con Creative Computing Software (un organo molto simile al TSE, creato dall'omonima rivista), e per vendere in prima persona quello che poté (se volete leggere qualche aneddoto divertente al riguardo, vi consiglio questa intervista di Matt Barton ad Adams).
Tutto questo avvenne abbondantemente un anno prima della fondazione da parte di Adams della sua Adventure International, un vero e proprio publisher di sua proprietà. Adventureland apparve per la prima volta nel numero di Gennaio 1979 di SoftSide, venduto a 24,95 dollari insieme a una seconda avventura (che Scott aveva già scritto con la sua moglie di allora, Alexis). Chiamato Pirate Adventure, questo secondo titolo è più ricordato dalla maggior parte dei giocatori di quanto non fosse Adventureland.
Oggi ci appare strano osservare quanto fosse goffo e ingenuo il primo mercato dei giochi commerciali. Adams e il TSE non riuscivano nemmeno a mettersi d'accordo sul nome da dare ai giochi. Oltre al suo (presunto) nome vero, Adventureland appare nelle pubblicità del TSE anche come Adventure (ecco un buon modo per creare confusione!) e -ed è il mio favorito- come l'evocativo e attraente Land Adventure (che è forse anche quello più accurato...).
Il nome del secondo gioco invece oscillava fra Pirate Adventure, Pirate’s Adventure e Pirate’s Cove.
Ma questa confusione sul nome non spostò le cose di una virgola. Le avventure di Adams erano assolutamente uniche ed erano commercializzate in un mercato in forte espansione, affamato di nuovi giochi interessanti e divertenti. La maggior parte dei possessori di TRS-80 non aveva mai avuto accesso alle grandi macchine istituzionali su cui girava l'originale Adventure, e quindi stavano scoprendo il genere attraverso i giochi di Adams, che rappresentarono quindi il ponte che portò le innovazioni di Crowther e Woods nel promettente mondo dell'home computing.
E (proprio come accadde agli hacker del PDP-10 con Adventure) quando ebbero risolto i giochi di Adams, molti programmatori del TRS-80 iniziarono a pensare a come creare il loro Adventureland. E fu così che un genere era nato davvero.
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Articoli precedenti:
- Sulle tracce di The Oregon Trail
- In difesa del BASIC
- A Caccia del Wumpus
- L'Avventura di Crowther
- TOPS-10 in a Box
- L'Avventura completata
- Tutto il TRaSh del TRS-80
- Eliza
- Adventureland
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