Lo Zork Users Group
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Bentrovati amici dell'Avventura! Dopo una lunga attesa, torniamo nei meandri cavernosi di Infocom e di Zork per leggere la storia della nascita dei leggendari InvisiClues, ad opera di quell'irriducibile manipolo di nerd dello Zorks Users Group, guidati dal solito Mike Dornbrook. 
In un'epoca in cui le avventure testuali erano crudelmente sleali, al limite della violazione dei diritti umani (e i primi due Zork non rappresentavano certo un'eccezione), gli avventurieri avrebbero pagato montagne di zorkmid sonanti per poter sbirciare in rete le soluzioni agli enigmi più ostici, e sfuggire così all'insonnia. Peccato che il World Wide Web non esistesse ancora nel 1982! Fu così che i geniali (e costosi) InvisiClues divennero l'ultima speranza per gli insonni giocatori di Zork... e un affare notevole per lo Zork Users Group e la rampante Infocom.
 
 Non vi servirà alcun evidenziatore speciale per godere della lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura e ... occhio agli indizi invisibili!
 
Festuceto
 

 
In un post precedente ho scritto di come lo Zork Users Group fosse stato fondato dopo che Mike Dornbrook aveva lasciato Boston (la patria della Infocom) per seguire un master in “businnes administration” alla University of Chicago, portando con sé quello che in buona sostanza era il reparto di public relation della società. Lo Zork Users Group non era un caso isolato: più o meno in quel periodo stava sbocciando un intero mercato secondario, dedito a prestare aiuto e assistenza ai giocatori dei giochi delle altre società, autentico segno di salute del crescente mercato del software di intrattenimento, pur nel mezzo di una brutta recessione. Lo Zork Users Group era però unico, in virtù della relazione così profonda che aveva con la Infocom. Molti altri publisher vedevano gli attori di questo nascente mercato secondario come poco più che dei parassiti, probabilmente per semplici considerazioni economiche: chi mai vorrebbe vedere altri vendere degli indizi che potrebbe vendere da solo? Altri publisher sembravano invece più inclini a controllare e/o arginare il fenomeno. Per fortuna lo Zork Users Group non doveva avere a che fare con questi publisher.
 
A dire il vero, però, affermare che lo Zork Users Group avesse una relazione privilegiata con la Infocom è poco. Ogni gioco della Infocom usciva con una cartolina che l’acquirente poteva spedire per unirsi allo Zork Users Group. E poi lo Zork Users Group non solo vendeva il proprio  merchandising, ma divenne anche un rivenditore ufficiale degli stessi giochi della Infocom, che commercializzava attraverso i propri cataloghi, insieme a tutta l’altra merce. Ma, per essere sicuri di non tralasciare niente, affrontiamo la storia dello Zork Users Group dagli inizi.
 
Il progetto iniziale di Dornbrook per lo Zork Users Group era di continuare come aveva sempre fatto: spedendo mappe e suggerimenti dal suo nuovo appartamento di Chicago. Tuttavia, senza il suo compagno della prima ora Steve Meretzky e con tutta la pressione del master che stava affrontando, questa si prospettava un’impresa ardua. Però, a cavallo fra il suo trasloco da Boston e l’inizio degli studi a Chicago, Dornbrook trascorse una settimana con la sua famiglia a Milwaukee. Suo padre era appena andato in pensione e, capendo il problema del figlio, gli fece una proposta: si sarebbe occupato lui della gestione degli ordini dallo scantinato della casa di famiglia, lasciando a Mike da Chicago il compito di rispondere alle richieste di aiuti e di concentrarsi su nuovi prodotti. Mike accettò di buon grado e così lo Zork Users Group divenne ufficialmente un’attività con sede a Milwaukee. Anche la mamma di Mike venne coinvolta, in qualità di curatrice della mailing list, che all’epoca consisteva in circa 1.000 nominativi e altrettanti indirizzi cartacei; come era del resto tipico di quei tempi, niente dello Zork Users Group passava per un computer.
 
Una volta stabilitosi a Chicago, Dornbrook incaricò Meretzky di disegnare una mappa di Zork II per venderla accanto a quella di Zork I, e ancora una volta commissionò le illustrazioni al suo amico Dave Ardito. All’inizio del 1982, Meretzky aveva accettato un lavoro ufficiale alla Infocom, in qualità di primo beta tester a tempo pieno. Era perfetto per portare avanti anche l’altro suo lavoretto di cartografo ufficiale dello Zork Users Group: avrebbe saputo tutto della geografia dei giochi prima ancora che venissero pubblicati. Per la mappa di Deadline [di cui, a questo punto del blog, il The Digital Antiquarian ha già trattato in dettaglio, ma che nella nostra traduzione italiana abbiamo momentaneamente saltato, per dare spazio a questo speciale dedicato alla saga di Zork; ndAncient], Meretzky fece ricorso ai suoi studi di edilizia, abbandonando la classica matrice di linee e rettangoli, per mostrare la magione dei Robner attraverso delle planimetrie di stampo architettonico.
 
 
Con la base clienti della Infocom in espansione, affamata, e fedele, lo Zork Users Group iniziò a produrre anche oggettistica di basso livello. Alla fine del 1982, vendevano non solo giochi, mappe e indizi, ma anche poster, T-shirt, adesivi da paraurti, e bottoni. Oltre a spedire i moduli d’acquisto per il proprio merchandising, avviarono una newsletter grossomodo semestrale per aggiornare i fan sugli ultimi avvenimenti del mondo dello Zork Users Group e della Infocom: The New Zork Times. In un post precedente osservavo che gran parte di quello che la gente si ricorda della Infocom era in realtà il frutto del lavoro della sua agenzia pubblicitaria (la G/R Copy). In modo del tutto simile, un’altra gran parte della loro immagine pubblica era stata forgiata non da loro stessi, ma da Dornbrook e dai suoi amici, attraverso l’egida dello Zork Users Group
 
E se lo Zork Users Group stava ampliando i propri orizzonti, gli indizi restavano una spina nel fianco di Dornbrook. E così, mentre gli iscritti allo Zork Users Group aumentavano vistosamente, lui aveva sempre più difficoltà a creare risposte personalizzate nel tempo rimanente dai suoi studi e dalle sue altre attività legate allo Zork Users Group. In più, il compito gli sembrava sempre più monotono, visto che la maggior parte delle domande erano sempre incentrate intorno alla solita manciata di passaggi più ostici. La soluzione più ovvia era quella di preparare un libretto degli indizi standard da vendere, ma l’idea non gli andava a genio, perché temeva che i giocatori si sarebbero, con ogni probabilità, rovinati ampi segmenti del gioco sbirciando la soluzione di appena uno o due enigmi. Un’altra sua preoccupazione, meno idealistica, era che qualcuno si sarebbe sicuramente fotocopiato i libretti degli indizi (o li avrebbe addirittura trascritti in formato digitale), facendoli circolare gratuitamente non appena avesse iniziato a venderli. Ma ormai era anche chiaro che occuparsi manualmente di tutte le richieste di aiuto ben presto sarebbe risultato non solo poco pratico, ma perfino impossibile. Infatti, di tutte, una cosa sola era certa: la Infocom e lo Zork Users Group stavano decollando! E così Dornbrook si mise alla ricerca di alternative a una semplice lista stampata di soluzioni.
 
Valutò di usare dei fogli da grattare come nei biglietti della lotteria [un po’ come i nostri “gratta e vinci”; ndAncient], delle pagine stampate in offset che si sarebbero potute leggere solo con degli occhiali 3D, una piccola finestra scorrevole lungo la pagina, che permetteva di vedere solo una riga o due alla volta. Ma niente di tutto questo si rivelava abbastanza pratico da usare. E così (tratto dagli extra del DVD di Get Lamp):
 
Ero a una festa nella mia città natale con alcuni amici del liceo. Uno di loro aveva frequentato farmacia alla University of Wisconsin. Gli stavo descrivendo i miei tentativi di creare questi libretti, nel tentativo di trovare una soluzione al problema, quando lui mi disse: “perché non usi l’inchiostro simpatico?”
 
Uno dei docenti dell’amico aveva usato l’inchiostro simpatico per delle prove: gli studenti che non conoscevano una risposta, potevano sviluppare l’indizio “invisibile” passando uno speciale evidenziatore sopra la parte appropriata del testo, al costo di una riduzione del voto finale. Dornbrook, che nel corso degli anni aveva lavorato sporadicamente in copisteria, non ne aveva mai sentito parlare. Dopo aver chiamato in tutti i posti che gli venivano in mente per chiedere di quella tecnologia (il tutto solo per farsi considerare un “pazzo” dai suoi interlocutori), alla fine chiamò direttamente l’ufficio del professore. Un assistente recuperò il nome della società da cui si era rifornito il professore: A.B. Dick. Questi, a loro volta, lo misero in contatto con una copisteria che possedeva la tecnologia per realizzare il progetto e così nacquero le InvisiClues. Le prime, scritte da Dornbrook per Zork I e illustrate dal solito Ardito, arrivarono nella primavera del 1982.
 
 
Ogni librettino di InvisiClues conteneva molte domande sul gioco di cui si occupava. L’utente trovava quella che gli interessava e sviluppava la soluzione passando lo speciale evidenziatore sopra la risposta “invisibile”. Ogni risposta veniva presentata come una serie di passaggi graduali, da sviluppare uno alla volta, da un piccolo indizio iniziale fino alla soluzione completa dell’enigma. Ogni librettino includeva un buon numero di domande farlocche per scoraggiare ulteriormente i lettori dallo sviluppare e divorare troppe risposte a caso, oltre che per occultare quello che davvero c’era o non c’era nel gioco (impedendo così al giocatore di rovinarsi il gioco anche solo leggendo le domande). Se sviluppate, le risposte alle domande farlocche rimproveravano adeguatamente (e sarcasticamente) il giocatore.
 
Le InvisiClues erano un’idea oltremodo geniale, seppur con un paio di svantaggi. Erano costose da realizzare e quindi costose da acquistare; se la Adventure International vendeva un “Book of Hints” per tutte e dodici le avventure di Scott Adams al prezzo di 8 dollari, un librettino di InvisiClues per un singolo gioco della Infocom poteva costare molto di più. E poi gli indizi sviluppati iniziavano a sbiadire dopo sei mesi. Eppure, al di là di questi svantaggi, le InvisiClues ebbero un grande successo. Del resto erano molto più divertenti dei messaggi cifrati e delle tabelle incrociate che le altre società utilizzavano per mascherare i propri indizi.
 
Le fortune della Infocom e dello Zork Users Group si impennavano mano nella mano. La Infocom vendette 100.000 giochi nel 1982, partendo dai 12.000 dell’anno precedente. Gli iscritti allo Zork Users Group passarono da 1.000 di inizio anno, fino a 4.000 a metà dello stesso, per superare i 10.000 alla fine. A metà dell’anno successivo furono toccati i 20.000 membri. A quel punto le operazioni della società erano già state informatizzate (tramite un IBM PC con un esotico -per il tempo- hard disk da 10 MB) ed erano stati assunti tre dipendenti part-time al fianco di Mike e dei suoi genitori. La cosa buffa è che, a parte Mike, nessuno di loro aveva mai giocato a un gioco della Infocom, né avevano il benché minimo interesse a farlo.
 
Ci sarebbe molto altro da dire sul 1982 della Infocom, ma nel prossimo post ci sposteremo all’altro capo del mondo, per studiare una cultura informatica completamente diversa [noi della versione italiana del The Digital Antiquarian ci occuperemo invece del "playthrough" di Zork III; ndAncient].

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
Se anche voi apprezzerete questo interessantissimo blog, non mancate di visitare la pagina ufficiale (in lingua inglese) e di sostenerlo tramite Patreon.
Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Zork: Come Cavarsela Da Soli
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Prodi Avventurieri, vi siete infine ripresi dai bagordi delle festività natalizie? Io no! Ho ancora l'olezzo appiccicoso e penetrante di Grue e capitone nei peli della barba... 
Ma non importa, perché l'Avventura chiama! E noi, rispondiamo... Sempre! Riemersi dalle profondità del Regno Sotterraneo di
Zork è già il momento di scoprire le origini dell'ineluttabile seguito del capolavoro di Infocom, ma, attenzione, solo per questa volta, ci concederemo la libertà di compiere un balzo nella cronologia del Blog del "The Digital Antiquarian", proprio per seguire il percorso che abbiamo tracciato e che porterà a Zork II e persino a ... Zork III (come già rivelato nella nostra lista degli articoli).
Ma non temete, una volta concluso il ciclo degli articoli Infocom, riprenderemo la normale cronologia, recuperando tutti gli articoli "saltati" (il nostro traduttore, The Ancient One, rinchiuso in una stamberga da mesi, ne ha già tradotti a migliaia, perdendo così moglie e lavoro... ma è il giusto prezzo della gloria eterna!).
Ora vi lascio alla vostra meritata lettura, la prima di un anno speciale per noi avventurieri!
 
 L'ineffabile lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Stringete la cinghia e prendete la lanterna...si riparte per un lungo viaggio!
 
Festuceto
 
Con Zork ormai sugli scaffali e pronto a diventare un grande successo commerciale, per la Infocom era giunto il momento di pensare all’inevitabile seguito. Il compito di prepararlo ricadde su Dave Lebling. A prima vista poteva apparire un compito abbastanza lineare: doveva solo prendere la metà dell’originale Zork per PDP-10 (la metà che non era finita nella versione PC), etichettarla come Zork II, e avrebbe finito. In realtà però le cose erano un po’ più complicate di così. Come minimo, il nuovo gioco aveva bisogno di una ristrutturazione. Per esempio, lo scopo della versione per PDP-10 di Zork (così come della successiva versione PC del primo capitolo) era quello di raccogliere un insieme di tesori all’interno di quella casa bianca dinanzi alla quale il giocatore aveva iniziato la propria partita. Tuttavia tale casa bianca non poteva esistere in Zork II. Forse spinto inizialmente dalla necessità, Lebling iniziò a mettere mano al design originale. E ben presto, ispirato dalla nuova tecnologia ZIL (che la Infocom aveva sviluppato per portare Zork su PC, e che era una tecnologia molto più flessibile, molto più potente, e più semplice con cui lavorare rispetto all’MDL che invece stava dietro all’originale Zork), Lebling iniziò a dargli una forma drasticamente nuova, mischiando elementi presi dall’originale con nuove aree, nuovi enigmi, e nuovi personaggi. Finì con l’usare solo una metà del materiale rimasto dalla versione PDP-10, e tale materiale a sua volta componeva circa una metà di Zork II; l’altra metà sarebbe stata nuova. Questo fa di Lebling il primo “implementatore” a creare consapevolmente un gioco della Infocom destinato alla vendita come prodotto commerciale sul mercato PC.
 
Vista dal mondo esterno, la Infocom stava iniziando a mettere le basi di quei tratti distintivi che la gente ben presto avrebbe imparato ad amare non meno dei loro giochi, basata su un’inclusività amichevole e spensierata, che faceva sì che chi comprava i loro giochi si sentisse un po’ membro di un “club di persone intelligenti”. E l’organizzatore e guida di tale club, anziché essere uno dei creatori di Zork o uno dei soci della Infocom, era Mike Dornbrook, appena laureato in biologia al MIT, che aveva conosciuto Zork solo nel 1980, e che era stato il primo e più importante beta tester della versione PC.
 
Più di chiunque altro alla Infocom, Dornbrook credeva in Zork, convinto che fosse molto di più di un interessante esercizio di hacking, o di un modo per raggranellare un po’ di soldi facili in vista di prodotti più seri, o anche di più di un “semplice” gioco divertente. Considerava Zork come qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che nel suo piccolo poteva cambiare il mondo. E così incoraggiò vivamente la Infocom a costruire una community intorno a questa nascente forma d’arte. Su sua richiesta, la primissima versione di Zork includeva il seguente messaggio, scritto su un appunto all’interno dello studio dell’artista:
 
Congratulations!
You are the privileged owner of a genuine ZORK Great Underground Empire (Part I), a self contained and self maintaining universe. As a legitimate owner, you have available to you both the Movement Assistance Planner (MAP) and Hierarchical Information for Novice Treasure Seekers (HINTS). For information about these and other services, send a stamped, self-addressed, business-size envelope to:
 
Infocom, Inc.
GUE I Maintenance Division
PO Box 120, Kendall Station
Cambridge, Mass. 02142
 
A quei tempi, unirsi al club delle persone intelligenti era ancora piuttosto complicato. La lettera con l’indirizzo già scritto di cui sopra sarebbe stata ritirata da Stu Galley, che ogni giorno si recava diligentemente alle poste. A quel punto, egli spediva un foglio in cui si proponeva l’acquisto di una mappa, oltre che il definitivo servizio di indizi su misura: per un paio di dollari l’uno, la Infocom avrebbe risposto personalmente a tutte le domande!
 
La mappa era un adattamento dell’originale di Lebling, creato da Dave Ardito, un artista amico di Galley, che abbellì le linee e i rettangoli con degli orpelli di natura opportunamente avventurosa. Dornbrook, che aveva già esperienza di stampa, usò i suoi privilegi di ex alunno del MIT per stampare le mappe, nel cuore della notte, su una grande stampante normalmente destinata alla produzione di manifesti e di volantini per gli eventi del campus. In cerca d’aiuto, arruolò il suo compagno di stanza, Steve Meretzky.
 
Anche Meretzky era un ex studente del MIT, laureato nel 1979 in gestione delle costruzioni. Pur avendo frequentato la più importante università informatica del mondo, Meretzky non aveva alcuna intenzione di entrare a far parte di quel mondo. “Detestava” i computer e gli hacker. Nella sua intervista in Get Lamp, Dornbrook parla del primo approccio di Steve Meretzky con Zork. Dornbrook stava testando il gioco e si era fatto prestare un TRS-80, portandolo nel loro appartamento, dove lo aveva collocato sul tavolo della cucina.
 
Lui [Meretzky], rientrando a casa, vide il computer e disse: “Lungi da me!”, con quel tono che solo Steve sapeva usare. Cercai di dirgli: “Steve, questo ti piacerà!”. Cercavo di spiegargli come iniziare a giocarci e lui si mise le mani sulle orecchie e iniziò a urlare per non sentirmi.  
 
Ma evidentemente sentì quanto bastava. Nel corso delle successive settimane, quando tornavo a casa e mi accingevo a rimettermi a fare il beta testing, mi accorgevo che la tastiera era stata spostata di qualche centimetro o che i miei appunti erano stati leggermente mossi. Compresi che Steve ci stava giocando, ma non voleva ammetterlo. Una notte alla fine scoppiò e mi disse: “Va bene! Va bene! Mi serve un indizio!”. Lì iniziò il tracollo di Steve.
 
Di lì a poco Meretzky si candidò come beta tester e si unì a Dornbrook noi suoi progetti legati alla Infocom.
 
Fra gli extra di Get Lamp c’è un’ottima intervista a David Shaw, uno studente del MIT che scriveva sul giornale del campus, i cui uffici si trovavano proprio sopra la stampante che Dornbrook e Meretzky usavano di nascosto. Shaw era sorpreso dal fatto che la stampante “sembrava fosse sempre in funzione”, anche quando non c’erano nuovi eventi da promuovere: “Là sotto c’erano sempre i soliti due o tre tizi. Stampavano qualcosa che chiaramente non era il manifesto di un film, ed erano estremamente vaghi sull’oggetto del loro continuo stampare.” Un giorno Shaw trovò una “pila di scarti” delle mappe di Zork stampate da Dornbrook e Meretzky e comprese finalmente quel che stava accadendo.
 
Se le mappe erano uno sforzo di squadra, gli indizi ricadevano interamente su Dornbrook. Rispondeva a mano, su carta comune. Dopo un po’ si rese conto che si trattava di un impegno alquanto profittevole, seppure a volte noioso: molte delle richieste che riceveva erano solo variazioni di una manciata di identiche domande, e quindi predisporre delle risposte personalizzate non richiedeva poi tutto quel tempo che ci si sarebbe potuti aspettare (visitate la sezione della Infocom della Gallery of Undiscovered Entities per vedere delle scansioni della mappe originali e, meglio ancora, un paio di risposte scritte a mano da Dornbrook).
 
Poi Dornbrook fu accettato a un Master in “business administration” presso l’Università di Chicago, che sarebbe iniziato nell’ultimo semestre dell’anno; questo significava, ovviamente, che avrebbe dovuto lasciare Boston, rinunciando ai suoi contatti quotidiani con il gruppo della Infocom. Nessuno si sentiva in grado di rimpiazzare Dornbrook, che a questo punto era diventato (se non formalmente, di certo nei fatti) il capo delle pubbliche relazioni della Infocom. Dornbrook, preoccupato di ciò che sarebbe potuto accadere ai “suoi” fedeli clienti, cercò di convincere il Presidente Joel Berez ad assumere un dipendente che lo sostituisse. Impossibile, rispose Berez; semplicemente, l’azienda non aveva abbastanza risorse per poter impiegare una persona che si dedicasse esclusivamente ai rapporti con i clienti. Fu così che Dornbrook avanzò un’altra idea: avrebbe creato lui una nuova società, lo Zork Users Group, per vendere hint, mappe, memorabilia, e perfino i giochi della Infocom a un prezzo leggermente scontato per attirare nuovi membri del suo club, che lui avrebbe gestito da Chicago fra una lezione e l’altra. In cambio la Infocom si sarebbe liberata di questo complicato fardello. Avrebbero potuto semplicemente girare le richieste di aiuto a Dornbrook, preoccupandosi solo di fare più giochi, e migliori. Berez si disse d’accordo e lo Zork Users Group nacque ufficialmente nell’Ottobre del 1981. Avrebbe raggiunto i 20.000 membri, ma di questo parlerò meglio in futuro.
 
Per gran parte del 1981, la Infocom aveva dato per scontato che la Personal Software (il publisher del primo Zork) avrebbe pubblicato anche Zork II. Dopotutto Zork era stato un vero successo. Ed effettivamente la Personal Software rispose positivamente quando la Infocom gli parlò per la prima volta di Zork II nell’Aprile di quell’anno. Le due società dovevano addirittura firmare un contratto in Giugno. Ma un paio di mesi dopo, improvvisamente, la Personal Software si ritirò dall’accordo. E in più annunciò anche che avrebbe ritirato il primo Zork. "Cosa era accaduto?" si chiesero alla Infocom.
 
Quel che era accaduto, ovviamente, non poteva che essere VisiCalc. Dan Fylstra, fondatore della Personal Software, aveva fatto crescere la creazione di Dan Bricklin e Bob Frankston, donando loro un Apple II su cui sviluppare la loro idea. Pubblicato nell’Ottobre del 1979, VisiCalc trasformò l’industria dei microcomputer. E trasformò anche il suo publisher. La Personal Software, che fino ad allora era nota come publisher di giochi e di programmi per hobbisti, divenne di colpo “il publisher di VisiCalc”, una delle compagnie emergenti più promettenti della nazione. Per quanto fosse stato grande il successo di Zork, non era niente in confronto a VisiCalc. Già nel 1981 i giochi e il software per hobbisti costituivano meno del 10% del fatturato della Personal Software. C’è poco da meravigliarsi se spesso la Infocom avvertiva che la Personal Software avesse cambiato idea sul proprio gioco. In più, ora che l’IBM PC era all’orizzonte, la Personal Software si ritrovò corteggiata da giganti come la stessa “Big Blue”, che avevano bisogno che VisiCalc fosse disponibile anche sul loro nuovo computer. Quando anche la Microsoft iniziò a fare lo stesso, la Personal Software cominciò a trasformarsi, lasciandosi alle spalle le sue radici hacker e hobbistiche, per focalizzarsi sul mercato di VisiCalc e del software professionale, che in quel periodo stava letteralmente esplodendo. Per la prima volta iniziarono a sviluppare software internamente, sfornando tutta una linea di programmi pensati per capitalizzare il massimo profitto possibile dal nome di VisiCalc: VisiDex, VisiPlot, VisiTrend, VisiTerm, VisiFile. L’anno successivo, la Personal Software completò la propria “Visificazione”, cambiando nome in VisiCorp, ormai incamminati verso l’annichilimento in una gigantesca “VisiBotta”, che avrebbe prodotto uno dei più grandi fallimenti nella storia del software.
 
Secondo il nuovo paradigma aziendale, Zork non solo non era necessario, ma era addirittura potenzialmente pericoloso. I giochi erano l’anatema del nuovo esercito di clienti dai colletti bianchi, che di colpo avevano iniziato a comprare i PC. Le società come la Personal Software, che volevano rifornirli ed essere prese seriamente, nonostante le loro ambigue origini di hacker, iniziarono a tenersi alla larga da ogni cosa che fosse anche solo lontanamente legata all’entertainment. Tutta la linea di videogiochi sarebbe stata soppressa, vittima di quella stessa paranoia che teneva sveglio la notte Al Vezza.
 
 
Questa reazione mise la Infocom dinanzi a un bivio. Non che la cosa fosse particolarmente tragica: non mancavano di certo publisher più che lieti di metterli sotto contratto, adesso che avevano un gioco di grande successo all’attivo. Il problema era che non erano più sicuri che fosse quella la direzione in cui volevano andare. Anche se c’era certamente un certo prestigio nell’essere pubblicati dal più grande publisher del mondo, alla Infocom non sono mai stati davvero soddisfatti della Personal Software. Si sono sempre sentiti una bassa priorità. Il terribile packaging del “barbaro” di Zork portava a chiedersi se qualcuno alla Personal Software si fosse mai preso la briga di giocarci, e tutti gli sforzi pubblicitari erano apparsi sbrigativi e superficiali. Di certo la Personal Software non si era mai mostrata interessata ad aiutare la Infocom e Dornbrook a costruire una base fedele di clientela. Se davvero intendeva fare di Infocom il brand delle migliori avventure testuali del mercato, perché mai avrebbe dovuto tenere il logo di un’altra società sugli scatolati dei suoi giochi?
 
Ma, ovviamente, diventare un publisher significava per la Infocom diventare una “vera” società, anziché restare una società che faceva affari tramite una casella postale, con più personale dipendente e molti più soldi investiti. Dinanzi alla scelta fra mantenere la Infocom come una profittevole e piccola attività secondaria, o “provarci”, beh, i fondatori della Infocom scelsero questa seconda possibilità.
 
Diversi di loro contrassero un mutuo di rilevante entità per finanziare questo cambiamento. E assunsero anche un tizio chiamato Mort Rosenthal come direttore del marketing. Durò meno di un anno alla Infocom, facendosi licenziare per aver oltrepassato le proprie mansioni quando offrì i giochi della Infocom a Radio Shack con un ingente sconto pur di portarli in tutti i negozi della catena. Prima di allora però aveva fatto faville, e non solo nel marketing. Affarista di natura, secondo quanto racconta Stu Galley, egli riuscì ad assicurarsi: “un impianto di produzione in condivisione di tempo a Randolph, un’agenzia pubblicitaria a Watertown, un servizio di raccolta ordini in New Jersey, un fornitore di dischetti in California, e così via”, tutto nel giro di qualche settimana. Trovò anche il loro primo minuscolo ufficio sopra la storica Faneuil Hall Marketplace di Boston [“La Culla della Libertà”, in onore dei numerosi discorsi che vi sono stati tenuti da celebri indipendentisti americani; ndAncient]. I primi due dipendenti stipendiati che vi andarono a lavorare furono Berez, la principale mente affarista della società, e Marc Blanc, l’architetto della Z-Machine, che ormai da più di un anno aveva già lasciato il suo internato medico trasferendosi a Boston per far parte della rischiosa partita.
 
Mostrando un istinto del tutto sorprendente in un manipolo di hacker, la Infocom strinse un ultimo accordo con la Personal Software: avrebbe ricomprato le restanti copie di Zork, per impedire che esse inondassero il mercato a prezzi scontanti, svalutando così il marchio di Zork. Dovevano far uscire Zork II in tempo per Natale, e quindi lavorarono freneticamente al fianco della compagnia pubblicitaria, che Rosenthal aveva trovato, per dare un nuovo look alla serie. Lo stile che idearono era certamente molto più appropriato ed elegante del vecchio barbaro della Personal Software. E infatti ancora oggi è il “volto” ufficiale di Zork.
 
 
Ironicamente, per una società che produceva giochi testuali, il livello di raffinatezza visiva dei prodotti Infocom li contraddistingueva, già a partire dal logo classico dell’azienda, che debuttò già in questa occasione e che resterà un punto fermo per il resto della vita della società. Ma, parlando di testo, nelle pubblicità e nel packaging di Zork II troviamo già quel tono che i fan della Infocom impareranno a conoscere: un’atmosfera apparentemente casual e spiritosa, che però rifletteva un’immensa cura per i dettagli; il tutto in un’epoca dove la maggior parte dei publisher sembra non preoccuparsi nemmeno dell’ortografia dei suoi prodotti. Rispetto a tutti gli altri, la Infocom è sempre apparsa un po’ più di classe, un po’ più brillante, e un po’ più adulta. Ed è un'immagine che sicuramente gli ha giovato.
 
La prossima volta accetteremo l’invito qui sopra e ci tufferemo in Zork II, che riuscì per davvero a uscire in tempo per Natale.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
Se anche voi apprezzerete questo interessantissimo blog, non mancate di visitare la pagina ufficiale (in lingua inglese) e di sostenerlo tramite Patreon.
Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Giochi col Parser
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)



Benvenuti lettori temerari al consueto appuntamento con la traduzione ufficiale del The Digital Antiquarian, scritta dalla sapiente penna poliglotta del nostro The Ancient One e con la bislacca supervisione del sottoscritto: uno sforzo editoriale che si perpetua ormai da innumerevoli mesi e che raccoglie sempre più consensi e apprezzamenti.
Un lungo viaggio, dunque, che ci ha portati alla storia di Infocom e del primo grande successo commerciale nella storia delle avventure testuali, Zork. Ma, prima di addentrarci nel magico Regno Sotterraneo, L'Antiquario ci parlerà di un aspetto tecnico di importanza notevole per lo sviluppo delle avventure testuali: il parser. 
E come dimenticare la lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
– Giochi col Parser
– Esplorando Zork, Parte 1
– Esplorando Zork, Parte 2
– Esplorando Zork, Parte 3
– Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura avventurieri... e scegliete bene le parole!
 
Festuceto
 
Mi tufferò in maggior dettaglio dentro Zork nel mio prossimo post, ma prima mi sento in dovere di tornare in modo un po' più rigoroso sull'argomento che ho solo sfiorato nel primo post di questa serie: quanto era impressionante Zork nel mondo dei microcomputer del 1980-1981. Ho una tesi che vorrei illustrarvi, ma richiede un po' di teoria (ahia!). Ma, prima ancora, lasciatemi presentare lo scenario del nostro discorso, con alcune citazioni tratte dal progetto Get Lamp di Jason Scott.
 
“Due sono i prodotti che hanno venduto più computer di tutti gli altri: VisiCalc e Zork.” — Mike Berlyn
 
“Dopo la scuola andavamo in questo negozio e giocavamo a qualunque gioco ci fosse disponibile, oppure inserivamo personalmente il codice dei giochi, e mi ricordo anche di quando uscì Zork e lo giocavamo su Apple II, e ne eravamo semplicemente estasiati.” — Andrew Kaluzniacki
 
“La gente vedeva Zork e diceva: 'Lo voglio anche io, assolutamente sì. A chi intesto l'assegno?'” — Mike Berlyn
 
“Credo che ci sia stato un periodo di tempo, probabilmente fra l'80 e l'84, in cui, per un sacco di macchine, non c'era praticamente niente di lontanamente simile.” — Mike Dornbrook
 
Certo, il fatto che Berlyn metta Zork sullo stesso piano di un programma che ha definito un'intera industria come VisiCalc è forse un po' esagerato, ma dà un’idea di ciò di cui sto parlando. Affermazioni come quest'ultima oggi ci suonano ironiche, se non addirittura un po' tragiche. Nel giro di qualche anno da quel periodo (indicato da Dornbrook) che va dal 1980 al 1984, i publisher e gli appassionati avrebbero iniziato a individuare nella mancanza di un’attrattiva immediata delle IF, la ragione principale del declino delle fortune commerciali di tale genere (oltre ovviamente a lamentarsi dell'analfabetismo adolescenziale all'interno del segmento di popolazione che tipicamente fruiva dei videogiochi, e altri argomenti simili).
 
E, allora, cos'era che questi primissimi giocatori trovavano di così immediatamente attrattivo in Zork? Di certo il suo mondo non era solo più grande, ma anche modellato in un modo più rigoroso e più sofisticato di qualunque altra cosa si fosse mai vista prima. Di certo la scrittura (seppur a volte necessariamente sintetica a causa dei limiti di spazio) mostrava una certa verve e una certa nuance, oltre che -beh!- un'attenzione alla grammatica e all'ortografia che surclassava tutta la concorrenza. E di certo il suo gameplay era (seppur ancora afflitto da irritanti labirinti e da alcuni enigmi tragici) più equo della norma. Ma queste sono tutte cose che possono essere notate solo dagli appassionati di avventure testuali: il genere di cose che si palesa solo dopo aver passato un po' di ore dentro Zork e (almeno) un po' di ore con altri giochi del periodo. Invece, come illustrano bene le citazioni riportate qui sopra, la gente giocava Zork in negozio per qualche minuto e lo comprava in preda allo stupore. E forse, al di là dell'iperbole di Berlyn, a volte insieme comprava anche l'Apple II che serviva per giocarci. Perché? Credo che la risposta risieda nella relazione di amore-odio dei giochi d'avventura con il proprio parser.
 
In Joysprick, un libro su James Joyce, Anthony Burgess divide gli autori in due categorie (qui inserite liberamente la vostra barzelletta preferita che inizi con “C'erano due...”; fate con calma. Fatto? Bene...). Gli autori di Classe Uno si preoccupano esclusivamente dello storyworld (la realtà virtuale, se preferite) che vive “dietro” le loro parole. “Il contenuto diventa più importante dello stile, i referenti bramano di essere liberi dalle loro parole e di venir presentati direttamente come dati percepiti”. La “buona” scrittura, da questo punto di vista, è la scrittura che esiste esclusivamente per servire l’ambientazione e la storia che essa rivela, una scrittura che sa evocarle entrambe il più vividamente possibile, ma che al tempo stesso nasconde sé stessa dinanzi al lettore che con la sua immaginazione ricostruisce la sottostante realtà virtuale, rifiutandosi diligentemente di richiamare l’attenzione su di sé. Gli autori di Classe Due, all’opposto, sono preoccupati del loro linguaggio di per sé. I loro libri “sono fatti di parole, non meno che di personaggi”. A volte, come nel caso di Finnegans Wake o del capitolo “Sirene” dell’Ulysses, il linguaggio sembra essere l’unica cosa presente; la scrittura è tutta “superficie”. Alcuni potrebbero rimarcare che avere successo (o, almeno, provarci) su questo secondo piano è ciò che divide la “letteratura” dalla “fiction”. Ma noi ci terremo lontani da questo vaso di Pandora. Anzi, nel cercare di applicare questi concetti all’interactive fiction, mi asterrò dall’esprimere giudizi di valore.
 
Non voglio per ora applicare queste idee al testo che un’opera di IF mostra al giocatore, quanto piuttosto al testo che il giocatore vi immette (il parser, in altre parole). Non a caso, un modo per avvicinarsi alla narrativa interattiva è quella di considerarla una ricca realtà virtuale da abitare. Da questo punto di vista (quello di un giocatore di Classe Uno) il parser per lui esisterà solo come mezzo per iniettare le proprie scelte nel mondo, esattamente come un lettore di Classe Uno considera il testo come una finestra (idealmente il più trasparente possibile) attraverso cui osservare l’azione che si svolge nello storyworld. Questo è sempre stato il mio approccio di base all’interactive fiction, sia come giocatore che come scrittore. Visto che ormai in questo post mi sono concesso un sacco di citazioni dirette, lasciate che pecchi di modestia citando un mio precedente intervento sull’argomento. Nel 2008 ho scritto quanto segue, come commento al blog di Mike Rubin:
 
Credo che molte persone, incluso me stesso, abbiano effettivamente giocato a Facade come fosse una commedia, provando azioni sempre più oltraggiose per vedere cosa sarebbe successo, cercando cioè di arrivare a “rompere” il sistema. Mi permetto di osservare, però, che quando il giocatore inizia a fare ciò, è segno che il game designer ha, in una qualche misura, fallito. Ho infatti iniziato ad adottare un approccio ironico con Facade dopo aver provato numerose condotte ragionevoli a cui il gioco o non ha risposto affatto, o ha risposto in un modo che era palesemente inappropriato alle mie azioni. A quel punto per me la mimesi è crollata e ho iniziato a trattare il sistema come fosse un giocattolo ingegnoso, anziché come una narrativa interattiva immersiva. Ovviamente non c’è niente di male nel fallimento di Facade: è un concept rivoluzionario e dovrà necessariamente passare per molte altre iterazioni prima che possa sperare anche solo di avvicinarsi a un realismo completo.
 
Questo però solleva un punto: non credo che i giochi possano mantenere la propria mimesi rimproverando il giocatore, dicendogli in termini espliciti “di NO”, quando tenta di mangiarsi la spada o di colpire un amico. Dovremmo piuttosto impegnarci per rendere la nostra scrittura così buona, le nostre ambientazioni così credibili, e le nostre interazioni così lisce, che il giocatore sia assolutamente catturato dalla nostra storia, in modo che non gli venga mai in mente di mangiarsi la spada o di colpire gli amici, esattamente come non verrebbe mai in mente al suo avatar. Detto in altre parole, dobbiamo fare in modo che il giocatore DIVENTI davvero il suo avatar per tutto il poco tempo che giocherà.
 
Appena il gioco inizia ad andare in frantumi (per usare questa metafora)… è allora che il giocatore si ricorderà solo una stupida avventura testuale, ed è allora che inizierà a giocare per ridere, cercando di rompere più che mai il sistema. Io lo faccio ogni anno con almeno una dozzina di giochi dell’IFComp, cercando di RUBARE porte ed edifici, e più in generale di creare scompiglio nello storyworld. Del resto il divertimento sta dove lo si trova.
 
Ovviamente ci sono giocatori che affrontano ogni gioco con l’intenzione di romperlo. E alcuni potrebbero certamente considerare l’interactive fiction più interessante come un sistema con cui giocare che come storia, anche se penso che altri generi sarebbero più adatti per soddisfare questo loro bisogno. A questi giocatori dico: bene, divertitevi come più vi piace. Tuttavia credo che la maggior parte delle persone che giocano all’interactive fiction vi arrivino desiderando di essere immersi, per un po', in uno storyworld (e, sì, magari anche in una storia coerente) e di sperimentarlo attraverso gli occhi di qualcun altro. E le ricompense di un tale approccio devono essere infinitamente più grandi del provare azioni a caso per vedere dove sono collocati i confini della simulazione (per quanto anche questo possa risultare divertente).  
 
(Ma non avevamo detto qualcosa sul non esprimere giudizi di valore? Mi è passato di mente...)
 
Premesso questo, la gente che si meravigliava dinanzi a Zork nei negozi di computer non reagiva considerandolo una narrazione profonda e immersiva, né tantomeno un gioco d’avventura estremamente sofisticato. Lo stupore era tutto riservato al parser, inteso come oggetto (giocattolo) di per sé. Perché, nonostante le limitazioni di spazio entro cui dovevano lavorare, alla Infocom si ritagliarono dello spazio per le risposte ironiche proprio a quel genere di input, fuori di testa e privo di senso, che la gente di passaggio in un negozio di computer poteva inserire.
 
WEST OF HOUSE
YOU ARE STANDING IN AN OPEN FIELD WEST
OF A WHITE HOUSE, WITH A BOARDED FRONT
DOOR.
THERE IS A SMALL MAILBOX HERE.
>FUCK
SUCH LANGUAGE IN A HIGH-CLASS
ESTABLISHMENT LIKE THIS!
>SHIT
YOU OUGHT TO BE ASHAMED OF YOURSELF.
>TAKE ME
HOW ROMANTIC!
>ZORK
AT YOUR SERVICE!
>XYZZY
A HOLLOW VOICE SAYS 'CRETIN'.
>FIND HOUSE
IT'S RIGHT IN FRONT OF YOU. ARE YOU
BLIND OR SOMETHING?
>FIND HANDS
WITHIN SIX FEET OF YOUR HEAD, ASSUMING
YOU HAVEN'T LEFT THAT SOMEWHERE.
>FIND ME
YOU'RE AROUND HERE SOMEWHERE...
>CHOMP
I DON'T KNOW HOW TO DO THAT. I WIN IN
ALL CASES!
>WIN
NATURALLY!
>SIGH
YOU'LL HAVE TO SPEAK UP IF YOU EXPECT ME
TO HEAR YOU!
>REPENT
IT COULD VERY WELL BE TOO LATE!
>WHAT IS A GRUE?
THE GRUE IS A SINISTER, LURKING PRESENCE
IN THE DARK PLACES OF THE EARTH. ITS
FAVORITE DIET IS ADVENTURERS, BUT ITS
INSATIABLE APPETITE IS TEMPERED BY ITS
FEAR OF LIGHT. NO GRUE HAS EVER BEEN
SEEN BY THE LIGHT OF DAY, AND FEW HAVE
SURVIVED ITS FEARSOME JAWS TO TELL THE
TALE.
>WHAT IS A ZORKMID?
THE ZORKMID IS THE UNIT OF CURRENCY OF
THE GREAT UNDERGROUND EMPIRE.
>YELL
AAAARRRRGGGGHHHH!
 
Questo significa giocare a Zork come fosse Eliza: scoprire che risposte sono prodotte da questo o quell’input, in cerca dei limiti. Come dimostrato da alcuni recenti esperimenti, questa modalità di interazione è ancora oggi sostanzialmente la norma per i principianti che affrontano un’opera di narrativa interattiva per la prima volta. Nel 1981, quando i computer non erano ancora stati compresi così bene e per la maggior parte delle persone erano ancora qualcosa di vagamente magico (se non persino qualcosa di inquietante), l’idea di digitare qualcosa (specialmente qualcosa di poco pertinente al contesto o addirittura completamente inappropriato) ed essere ugualmente "compresi", era davvero molto potente e richiamava alla mente HAL e il computer parlante dell’Enterprise.
 
Ma perché vi dico tutto questo? Non sono così sicuro che ci sia qualcosa da imparare in tutto ciò. Dopo un po’ di tempo, giocare col parser e cercare di rompere le cose perde di fascino, e il giocatore o inizia ad appassionarsi allo storyworld e alla narrazione, oppure semplicemente passa ad altro. Da qui l’irrequietezza che esprimo sopra per i giocatori che non sembrano in grado di andare oltre il trionfo che scaturisce dal constatare che sì, senza troppi sforzi è possibile rompere il parser e con ogni probabilità anche la simulazione del mondo. Oltre dieci anni dopo Zork, un’avventura grafica chiamata Myst divenne per alcuni anni il gioco per computer più venduto di sempre. Spesso veniva definito il bestseller meno giocato di sempre. La gente lo comprava per ostentare le proprie nuove schede grafiche, le schede sonore, e i lettori CD-ROM, nel bel mezzo del boom dei “PC Multimediali” degli anni ‘90, ma resterei sorpreso se anche solo un dieci percento di loro si fosse seriamente appassionato ai suoi intricati enigmi intellettuali o avesse compiuto un vero sforzo per finirlo. In modo del tutto analogo, sospetto che molte delle copie di Zork esistevano più come qualcosa da tirar fuori alle feste, piuttosto che come genuina passione di coloro che le possedevano.
 
Ora però non iniziate a stampare le vostre t-shirt con la scritta “Io apprezzo Zork ad un livello molto più profondo di voi”, perché è pur vero che nessuno di noi è mai diventato fino in fondo un giocatore di Classe Uno. Ecco un’altra citazione ancora da Get Lamp, stavolta di Bob Bates, che cattura bene “gli avanti e indietro” che compongono gran parte dei piaceri delle avventure testuali:
 
“Molti giochi prevedano solo la parte del ‘se’, che poi sarebbe il percorso principale attraverso il gioco, di cui parlavo prima. Se il giocatore fa esattamente questo e tutto va bene, allora il gioco risponde così e tutto va avanti. Ma c’è sempre anche ‘altro’. E se il giocatore non facesse ciò che dovrebbe? Che succede se gli viene questa strana idea, o se digita quella o quell’altra cosa stramba che vuole provare semplicemente per vedere se il gioco si rompe? Così, tanto per vedere dove sono i confini. Ecco, questo fa parte del divertimento di giocare a un’avventura testuale, nonché parte del divertimento (una GRANDE parte del divertimento) del crearle; io infatti mi immagino un dialogo con il giocatore, così che alla fine quando il giocatore fa questa cosa estremamente strana e nel farla esclama ‘ah, nessuno può aver pensato di fare questo!’ e poi ‘Oh, cielo! Quella non è una risposta standard! Anche l’autore ci aveva pensato!’. Questo aiuta a forgiare un legame fra te e l’autore. ‘Quel tizio è strambo quanto me. Io e lui pensiamo nello stesso modo.’”
 
Quindi un motto per il successo di una buona avventura testuale potrebbe essere: attraili e affascinali con il parser, ma trattienili con il tuo storyworld. Con lo spirito di essere trattenuti con lo storyworld, la prossima volta indosseremo le nostre divise da giocatori di Classe Uno e ci avventureremo nel Grande Impero Sotterraneo. Stavolta davvero, promesso. 

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Come Vendettero Zork
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)



Rieccoci fedeli lettori al nostro appuntamento settimanale con l'Avventura (con la "A" maiuscola). E dopo aver esplorato gli aspetti tecnici dello sviluppo di Zork e della sua incredibile conversione per le umili piattaforme casalinghe dell'epoca, il sapiente Antiquario ci racconterà di quando la neonata Infocom impegnò tutte le risorse di cui disponeva per presentare la propria creatura al grande pubblico.
Nel 1980 il mercato videoludico era praticamente agli albori
 e le avventure testuali in circolazione erano, più o meno, quelle di Scott Adams pubblicate dalla Adventure International e poco altro...niente a che vedere con Zork!
 
Ma prima, l'imperdibile lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
– Come Vendettero Zork
– Giochi col Parser
– Esplorando Zork, Parte 1
– Esplorando Zork, Parte 2
– Esplorando Zork, Parte 3
– Infocom: Come Cavarsela da Soli
– Zork II, Parte 1
– Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
– Zork III, Parte 1
– Zork III, Parte 2
 
Buona lettura avventurieri... e raccogliete tanti zorkmid!
 
Festuceto
 
Quando ci siamo lasciati, era la fine dell'estate del 1979 e sette dei nove soci della Infocom vivevano a Boston, ognuno col proprio lavoro a tempo pieno, discutendo -quando il tempo lo permetteva- di quello che avrebbe dovuto fare la loro società nuova di zecca. Nel frattempo gli altri due soci, Marc Blank e Joel Berez vivevano a Pittsburgh e stavano affrontando il problema in modo più pratico, progettando (per ora interamente su carta) un sistema che permettesse di convertire Zork (o almeno una buona metà di Zork) dal PDP-10 ai microcomputer. Mentre Blank e Berez continuavano il proprio lavoro in quell'autunno, si convincevano sempre di più che, sì, la loro idea avrebbe potuto funzionare e così iniziarono a fare pressioni sugli altri di Boston per fare in modo che Zork diventasse il primo progetto della Infocom. Il loro piano era così allettante che alla fine persino il riluttante Al Vezza accettò.
 
In quel periodo Berez era stato ammesso a un programma di economia post-laurea alla Sloan School of Management del MIT; così quel Novembre rientrò a Boston per frequentare – e per assumere la carica di Presidente di una Infocom ancora esistente principalmente sulla carta. Dinanzi alla prospettiva di restare intrappolato da solo a Pittsburgh mentre i suoi amici implementavano il suo progetto, Blank prese la decisione -importantissima sul piano personale- di lasciare l’internato medico e trasferirsi a Boston. Così, all’alba dell’anno 1980, la proverbiale banda era di nuovo riunita e i lavori sul nuovo Zork procedevano di buona lena.
 
Con i loro rapporti al MIT e alla DEC, del tempo su un PDP-10 non era poi difficile da recuperare, anche se tutti quelli della Infocom avevano ormai ufficialmente lasciato il MIT. Nonostante il loro scopo finale fosse quello di vendere Zork sui microcomputer, in questa fase la Infocom continuava a lavorare interamente sul PDP-10; probabilmente il vecchio motto “Noi odiamo i micro!” non era ancora  completamente passato di moda. Blank e Lebling scrissero sul PDP-10 l’intero sistema di sviluppo ZIL, incluso il compilatore, nonché (per poter fare delle prove) la prima versione funzionante della macchina virtuale Z-Machine. Sorprendentemente, il progetto astratto che Blank e Berez avevano ideato su dei tovagliolini e su dei pezzi di carta usata, si rivelò perfettamente funzionante nella realtà. Come dicevo nel mio ultimo post, implementare di nuovo il gioco in ZIL diede loro l’opportunità di migliorare ancora da diversi punti di vista l’originale Zork.
 
Perfino quando arrivò il momento di abbandonare il PDP-10, le preferenze della Infocom restarono evidenti: la seconda implementazione della Z-Machine non era né per la macchina della Radio Shack, né per quella della Apple, bensì per un DEC PDP-11. Se il PDP-10 era l’ammiraglia della DEC (tanto grande e potente che forse si meriterebbe di essere etichettato come mainframe piuttosto che come minicomputer), il PDP-11 era un modello più piccolo, più economico, pensato per “portare il pane a casa”. Si stima che la DEC ne avesse venduti più di 170.000 nei soli anni ‘70. Relativamente trasportabile (se la possibilità di trasportare un computer con un singolo camioncino lo rende “trasportabile”) e senza che necessiti di un pavimento sopraelevato o di altre macchinazioni da "data-center", i PDP-11 erano ovunque: nelle fabbriche, nei laboratori, nei centri di controllo del traffico aereo, e… nella camera da letto di Joel Berez (!!!). In un certo senso il PDP-11 aveva già il suo Zork, essendo stata la prima piattaforma su cui fu creato il porting in FORTRAN di Dungeon, ma ciò non fermò la Infocom dal rendere lo Zork per PDP-11 il suo primo prodotto commerciale. Nonostante la diffusione del PDP-11, il suo mercato non era esattamente una roccaforte del gaming: è riportato che Zork su quella piattaforma vendette meno di 100 copie (una delle quali di recente è apparsa su eBay: sul sito di "Get Lamp" di Jason Scott trovate una scansione del suo manuale, sorprendentemente completa, seppur battuta a macchina e ciclostilata [Il link originale è stato rimosso, ma potete trovare una copia del manuale qui, ndFestuceto]). Era del tutto evidente che la Infocom doveva convertire Zork per i microcomputer.
 
In questo spirito, la Infocom comprò un sistema TRS-80 e Scott Cutler (uno dei pochi soci che avesse avuto una qualche esperienza con i microcomputer) si mise al lavoro, con l’aiuto di Blank, per  costruire un’ apposita Z-Machine. Il momento della verità era arrivato:
 
Scott e Marc dimostrarono che Zork I poteva vivere al suo interno, avviando il gioco e riuscendo a fare dei punti con l’incantamento “N.E.OPEN.IN.” (che di certo non sono meno memorabili del “Come here, Mr. Watson; I want you!” di Alexander Graham Bell). 
 
È sempre un momento teso quando un progetto finalmente prende vita e mostra qualcosa di concreto. Ricordo ancora quanto fossi eccitato quando il mio personalissimo interprete di Z-Machine, Filfre, visualizzò il testo d’apertura del primo gioco con cui avevo deciso di provarlo, Infidel. Posso solo immaginare l’eccitazione di Blank e Cutler, quando tutto questo era così nuovo e la posta in gioco era così tanto più alta. Quel che conta però è che l’idea della Z-Machine funzionò. Quando il giocò fu completamente giocabile, la Infocom (erede di una lunga tradizione di informatica istituzionale che faceva le cose come dovevano essere fatte) fece qualcosa di virtualmente senza precedenti per un gioco per microcomputer: sottopose il proprio gioco a una fase di betatesting rigorosa e ripetuta. Il suo tester principale fu uno studente del MIT chiamato Mike Dornbrook, che si era innamorato del gioco al punto di diventarne oltremodo ossessionato, tracciando delle bellissime mappe dettagliate della sua geografia e lavorando sodo per affinare non solo i problemi tecnici ma anche gli enigmi peggiori e le difficoltà del parser (se solo in quei primi tempi la On-Line Systems, Scott Adams, e gli altri sviluppatori avessero avuto una pazienza simile e altrettanta dedizione alla qualità...)
 
Se si esclude il betatest che era ancora in corso, la Infocom a quel punto aveva un vero prodotto da commercializzare. Ora dovevano solo decidere come lo avrebbero venduto. Un’opzione era quella di fare ciò che Ken Williams stava decidendo di fare più o meno proprio in quel periodo: provarci da soli. Tuttavia, data la poca esperienza e la scarsa conoscenza della giovane industria dei microcomputer, ciò sembrò rischioso e nessuno dei soci era poi così eccitato all’idea di inventarsi un packaging e di duplicare migliaia (questa, almeno, era la speranza) di dischi. Iniziarono quindi a proporre Zork a vari publisher. Un tentativo con Microsoft fu respinto dal dipartimento di marketing: avevano già la loro avventura testuale (niente di meno che Adventure in persona) e evidentemente credevano che una fosse più che sufficiente per un singolo publisher. In seguito Bill Gates (che era stato un fan di Zork sul PDP-10) seppe dell’offerta e provò a riaprire la trattativa, ma a quel punto la Infocom stava già trattando con Dan Fylstra della Personal Software, facendo dello Zork della Microsoft un qualcosa di affascinante che sarebbe potuto essere ma non è mai stato.
 
Personal Software oggi è stata quasi completamente dimenticata, ma all’epoca era la stella più luminosa della giovane industria, in grado di eclissare facilmente anche la Microsoft. Fondata da  Peter R. Jennings e Dan Fylstra, fondatori della seminale rivista Byte, la Personal Software trovò la sua miniera d’oro nel 1979, quando raggiunse un accordo con Dan Bricklin e Bob Frankston per la pubblicazione del loro VisiCalc per l’Apple II. Col supporto di un’intelligente campagna promozionale da parte della Personal Software (che enfatizzava opportunamente la natura rivoluzionaria di questo prodotto autenticamente rivoluzionario), al tempo in cui la Infocom si presentò a bussare alla porta del publisher, VisiCalc era sulla bocca di tutto il mondo degli affari, diventando la hit della giovane industria dei microcomputer e arrivando così a vendere centinaia di migliaia di copie. VisiCalc non solo fece della Personal Software il più grande publisher del pianeta, nonché l’oggetto di articoli su riviste come il Time, ma gli conferì anche un enorme potere all’interno del settore. Questo potere si estendeva perfino sulla Apple stessa: un numero infinito di clienti metteva il carro davanti ai buoi, e comprava gli Apple II solo per avere un computer su cui far girare la loro nuova copia di VisiCalc. Fu, insomma, la prima “killer application” dell’era dei PC, e come tale vendette tutti gli Apple II che ciò comportava. Con così tanti soldi e con un tale potere, la Personal Software non sembrò alla Infocom una brutta strada per far uscire il loro nuovo gioco. Fylstra aveva frequentato la scuola di economia al MIT, dove aveva conosciuto sia Vezza che la versione PDP-10 del gioco. Non fu quindi troppo difficile per Berez e Vezza chiudere la trattativa, che incluse anche un anticipo sulle future royalty, aspetto questo per loro assolutamente indispensabile, giacché la Infocom aveva sostanzialmente già speso i suoi 11.500 $ iniziali in hardware, betatester, e tempo sul PDP-10.
 
Nel mezzo dei rispettivi compiti, gli altri soci scrissero anche un paio di articoli per le riviste, che servissero per stimolare un po’ l’attenzione. “Come far entrare un programma grande in una macchina piccola”, una spiegazione un po’ evanescente dei concetti di virtual machine e di virtual memory, apparso nel numero di Luglio di Creative Computing; e “Zork e il futuro delle simulazioni fantasy su computer”, un articolo più teorico sulla nascente arte delle avventure testuali, apparso nel grande numero dedicato alle avventure di Byte di dicembre. Non avendo ancora adottato l’elegante nome di “interactive fiction”, in questo secondo articolo Lebling affibbiò a Zork e ai suoi simili l’etichetta (alquanto scomoda) di “computerized fantasy simulations” (“CFS”). La versione per TRS-80 di Zork stava ormai per sbarcare sul mercato sotto l’ombrello della Personal Software.
 
Le vendite iniziali non furono eccezionali: la versione TRS-80 vendette circa 1.500 copie nei suoi primi nove mesi. Questi numeri possono forse essere in parte spiegati con il marketing poco convinto e privo di immaginazione della Personal Software, che (alla luce del colosso VisiCalc) era sempre meno convinta di voler essere coinvolta nel mercato videoludico. È altresì vero che il mercato del software per TRS-80 non ha mai prosperato nel modo che ci si potrebbe aspettare se lo paragoniamo alle vendite del rispettivo hardware. Uno dei colpevoli principali era da ricercarsi nelle politiche di Radio Shack. Radio Shack insisteva infatti nel voler vendere nei propri negozi solo il software pubblicato sotto la propria etichetta. E al tempo stesso offriva agli sviluppatori delle royalty davvero modeste se confrontate col resto dell’industria, rifiutandosi perfino di attribuirgli adeguatamente la paternità del prodotto sul software stesso, preferendo promuovere l’immagine di una caritatevole Tandy Corporation che apparentemente generava immacolate creazioni software direttamente dal suo didietro. Nel frattempo i proprietari dei negozi di computer (come quelli di ComputerLand, che stavano esplodendo in tutta la nazione) lasciarono Radio Shack da sola a vendere e a occuparsi delle proprie macchine, concentrandosi piuttosto su altre piattaforme. È probabile che lo Zork per TRS-80 fosse finito, almeno in parte, in questa specie di buco nero distributivo, che stava già trasformando il TRS-80 in uno sconfitto, in contrasto con il nuovo gioiellino dell’industria dei microcomputer, l’Apple II. Infatti, quello stesso dicembre la Apple si quotò in borsa, facendo seduta stante dei suoi fondatori e di altre 300 persone, dei miliardari: la prima grande Offerta Pubblica Iniziale del mercato tech, il segno che presto “l’industria dei microcomputer” sarebbe diventata semplicemente “l’industria dei computer”.
 
A proposito dell’Apple II, Bruce Daniels (l’unico membro del team originale di Zork che all’epoca non si era associato alla Infocom) aveva accettato un posto alla Apple, trasferendosi in California dopo la laurea. Accettò di creare sotto contratto la Z-Machine per l’Apple II. Lo Zork dell’Apple II fu così pubblicato nel Febbraio del 1981 e fece molto meglio della versione per TRS-80, vendendo costantemente circa 1.000 copie al mese. Adesso la Infocom aveva finalmente un flusso costante di introiti, oltre all’infrastruttura tecnologica di base (lo ZIL e la Z-Machine) che avrebbe caratterizzato la società per il resto della sua vita. Le cose iniziavano ad andare per il verso giusto, ma dei risvolti imprevisti erano già all’orizzonte.
 
Ve ne parlerò molto presto, ma la prossima volta voglio lasciare da parte la realtà storica in favore di quella virtuale. Ebbene sì, faremo un piccolo viaggio nel Grande Impero Sotterraneo di Zork.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Le Radici della Infocom
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

 
Dopo una prolungata pausa estiva riprende la traduzione ufficiale del nostro "Antiquario" preferito e - come avranno intuito i lettori più scaltri - i prossimi articoli riguarderanno un argomento molto caro agli avventurieri e per certi versi di grande attualità, il perché vi sarà chiaro nei mesi a venire...
L'articolo del The Digital Antiquarian (versione italiana) che vi presentiamo inaugura il ciclo dedicato alla nascita della Infocom e ai primi due capitoli della serie di Zork.
 
Il percorso di lettura includerà i seguenti articoli:
 
Le Radici della Infocom
Zork sul PDP-10
La Nascita della Infocom
ZIL e la Z-Machine
Come Vendemmo Zork
Giochi a Parser
Esplorando Zork, Parte 1
Esplorando Zork, Parte 2
Esplorando Zork, Parte 3
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
 
Buona Lettura!
 
Festuceto
 
 
Zork
by Personal Software
 
Zork è un fantasy digitale di sfida definitiva. Creature immonde sono a guardia di tesori inimmaginabili. Labirinti ingarbuglieranno la tua quest. Quindi affila il tuo ingegno e scegli attentamente il tuo percorso attraverso il Grande Impero Sotterraneo. L’oggetto più improbabile potrebbe essere il solo in grado di salvarti la vita.
Nonostante tutto, potresti farcela. Scopri i 20 tesori di Zork, riportali nell’Armadietto dei Trofei, e vattene con la tua vita. Ma porta con te tutta l’astuzia e il coraggio che possiedi, perché in Zork… non si fanno prigionieri!
 
Zork, Il Grande Impero Sotterraneo è stato creato dalla Infocom inc. ed è disponibile per Apple II 32K e II Plus e S-80 32 K Model I Level II.
$39.95
 
Nel novembre del 1980, la Personal Software iniziò a pubblicizzare l’annuncio di cui sopra sulle riviste di computer, per promuovere un nuovo gioco disponibile su TRS-80 e (qualche mese più tardi) sull'Apple II. Non si può definire esattamente un capolavoro del marketing: l'artwork pacchiano e dilettantesco può essere difeso solo perché in linea con le altre pubblicità dell'epoca, e il testo riesce a non spiegare assolutamente niente di cosa contraddistingua Zork dalle altre avventure testuali simili. Come non perdonare un avventuriero scafato che abbia voltato distrattamente pagina alla lettura dei “labirinti che ingarbuglieranno la tua quest” e dei “20 tesori” che devono essere riposti “nell'Armadietto dei Trofei”. Perfino Scott Adams (che non era esattamente il paladino della sperimentazione) aveva ritenuto opportuno spingersi oltre le semplicistiche cacce al tesoro fantasy. Senza considerare poi che Zork non offriva nemmeno le belle immagini dei primi giochi della On-Line Systems (per quanto questi fossero punitivi fin quasi al punto di risultare ingiocabili).
 
Nonostante ciò, Zork rappresenta una vera svolta nel genere della avventure testuali, anzi... un’intera collezione di svolte, a partire dal suo parser che mostrava davvero un barlume di uso corretto della lingua inglese (invece del solito semplicissimo schema ripetitivo del testo in-game), tale da far pensare per la prima volta che dietro vi fossero degli autori davvero interessati alla qualità della loro prosa, che non ritenevano la grammatica e l’ortografia delle inutili distrazioni.
In una delle mie parti preferite del documentario Get Lamp di Jason Scott, diversi intervistati riflettono su quanto formidabile fosse Zork nel mondo dell’informatica del 1980-1981. Tutti concordano nell’affermare che, per un breve lasso di tempo, esso sia stato il dischetto più impressionante da tirar fuori per mostrare ciò di cui erano capaci i nuovi TRS-80 e Apple II.
 
Zork giocava su un livello completamente diverso da qualunque altro gioco d’avventura, cosa che del resto non sorprende più di tanto, considerando il suo pedigree. Di certo non si può dedurlo dalla pubblicità qui sopra, ma Zork nasce nell’area più leggendaria della più importante università della storia dell’ingegneria informatica: il MIT. A ben vedere il pedigree di Zork è così impressionante che è difficile sapere da dove iniziare a descriverlo e ancor più difficile sapere dove smettere, e altrettanto difficile evitare di venir risucchiati in un'interminabile versione informatica del “Numero di Bacon”. Per gestire la cosa, cercherò il più possibile di limitarmi alle persone coinvolte direttamente con Zork o con la Infocom, la società che lo ha sviluppato. Iniziamo quindi con Joseph Carl Robnett Licklider, un tizio che per sua ammissione ebbe un ruolo più marginale che diretto nella storia della Infocom, ma che ci serve come esempio della “rarefatta aria di ingegneria informatica” che si respirava alla Infocom.
 
Nato nel 1915 a Saint Louis, Licklider era uno psicologo di mestiere, ma aveva quell’intelletto irrequieto di cui Joseph Weizenbaum avrebbe lamentato la scomparsa (apparente) nelle successive generazioni di studenti del MIT. Conseguì un triplice bachelor's degree in fisica, matematica, e psicologia alla Washington University in Saint Louis all’età di 22 anni, avendo anche “flirtato”, lungo il percorso, con la chimica e le belle arti. Si fermò un attimo per concentrarsi sulla psicologia per il suo Master's degree e per il suo dottorato di ricerca, pur restando costantemente interessato a connettere la scienza “soft” della psicologia con le scienze “hard” e con la tecnologia. E così, studiando la componente psicologica dell’udito, apprese la conformazione fisica del sistema nervoso uditivo dell’uomo e degli animali più di quanto non facciano molti medici specialisti (una volta lo ebbe a definire “il prodotto di un superbo architetto e di un approssimativo operaio”). Durante la Seconda Guerra Mondiale le ricerche sugli effetti dell’altitudine sugli equipaggi dei bombardieri lo portarono ad essere altrettanto coinvolto nella ricerca sulla tecnologia radio utilizzata per le comunicazioni tra i membri dell'equipaggio e con gli altri aerei.
 
Dopo alcuni brevi periodi in varie università, Licklider arrivò al MIT nel 1950, inizialmente per continuare i suoi studi sull’acustica e sull’udito. Tuttavia l’anno seguente il complesso militare-industriale americano si rivolse al MIT in cerca di aiuto per create un network di allerta precoce per i bombardieri sovietici, che ci si immaginava avrebbero potuto calare sull'America dal Circolo Polare Artico. Licklider si unì all’istituzione che fu creata per portare avanti il progetto (il Lincoln Laboratory) in qualità di capo del gruppo di “human-engineering”, ed ebbe un ruolo nella creazione del Semi-Automatic Ground Environment (SAGE), di gran lunga la più ambiziosa applicazione di tecnologia informatica concepita fino ad allora e per molti anni a venire. Creato dal Lincoln Lab del MIT insieme alla IBM e altri partner, il cuore del SAGE era un insieme di mainframe IBM AN/FSQ-7, fisicamente i computer più grandi mai costruiti (un record che probabilmente deterranno per sempre). Il sistema compilava i dati provenienti da molte stazioni radar, per permettere agli operatori di tracciare in tempo reale un ipotetico attacco. Potevano far decollare in allarme e guidare aerei americani per intercettare i bombardieri, con una visuale a volo d’uccello sulla battaglia risultante. Le versioni successive di SAGE consentivano perfino di prendere il momentaneo controllo di aerei alleati, guidandoli verso il punto di intercettazione attraverso un collegamento ai loro sistemi di auto-pilota. SAGE è rimasto operativo dal 1959 al 1983, costando più di quel Manhattan Project, che per primo aveva scoperchiato il vaso di Pandora del conflitto nucleare, e produsse giganteschi passi avanti nell’informatica, in particolare nelle aree del networking e del time-sharing interattivo. D’altro canto, però, se consideriamo che, quando esso divenne operativo, la minaccia rappresentata dai bombardieri nucleari (che il SAGE avrebbe dovuto fronteggiare) era stata già abbondantemente surclassata da quella dei Missili Balistici Intercontinentali, la sua utilità da un punto di vista militare è quantomeno discutibile.
 
 
Negli anni '50 la maggior parte delle persone, fra cui anche molti degli ingegneri e dei primi programmatori che ci lavoravano, vedevano i computer essenzialmente come dei giganteschi calcolatori. Mettevi dei numeri in un'estremità e ne ottenevi altri dall'altra, che si trattasse della giusta traiettoria di un pezzo di artiglieria destinato a colpire un qualunque bersaglio, o che si trattasse dei conti correnti dei milioni di clienti di una banca. Tuttavia, osservando i primi tester di SAGE mentre tracciavano in tempo reale delle minacce simulate, Licklider ebbe una visione radicalmente nuova dall'informatica, in cui l'uomo e il computer potevano collaborare attivamente insieme, in modo interattivo, per risolvere problemi, generare idee, e magari anche divertirsi. E lui si portò dietro queste idee quando nel 1953 lasciò il nascente progetto SAGE per galleggiare fra vari ruoli diversi all'interno del MIT, allontanandosi lentamente sempre di più dalla psicologia tradizionale a favore dell'informatica. Nel 1957 iniziò a dedicarsi all'informatica a tempo pieno, quando (seppur solo temporaneamente) lasciò il MIT per la società di consulenze Bolt Beranek and Newman, una società che giocherà un ruolo enorme nello sviluppo dei network informatici e di quella che oggi conosciamo come internet (i lettori più fedeli di questo blog si ricorderanno che la BBN è anche il luogo dove era impiegato Will Crowther quando creò la versione originale di Adventure come svago dalla sua attività principale di programmazione del codice di gestione dei primi router per network informatici).
 
Licklider, che voleva che tutti (perfino i suoi studenti universitari) lo chiamassero semplicemente “Lick”, era una persona brillante quanto umile. Con la parlata lenta e strascicata del Missouri che poteva oscurare il genio di alcune delle sue idee, non ha mai pensato alla carriera o alla fama personale, e non ha mai fatto uso di inganni o di scaltrezze per avere più successo. Quando uno dei suoi colleghi più ambiziosi rubava una sua idea, Lick si limitava a scrollare le spalle, dicendo: “Non importa che si prenderà il merito; quel che conta è che il risultato sia raggiunto.” Tutti lo adoravano. Gran parte del suo lavoro sarà anche stato finanziato dalla realpolitik dell'industria militare, ma Lick era di indole idealista. Si era convinto che i computer avrebbero potuto plasmare una società migliore e più giusta, in cui gli uomini avrebbero potuto creare ed esplorare il proprio potenziale affiancati dai computer, che si sarebbero assunti tutti i compiti noiosi e ripetitivi. Anticipando in modo sorprendente il World Wide Web, si era immaginato un mondo di “plance di home computer” connesse a un network più ampio che avrebbe portato il mondo dentro casa, in modo interattivo (invece che nel modo passivo e dominato dalle grandi società, come avveniva nella televisione). Tutte queste idee le mise anche nero su bianco in uno studio del 1960 (“Man-Computer Symbiosis” [“Simbiosi Uomo-Computer”]), inserendo il suo pensiero nella lunga schiera degli utopisti informatici, che giocheranno un ruolo essenziale nello sviluppare tecnologie più amichevoli per l'uomo comune, come il linguaggio di programmazione BASIC e i microcomputer veri e propri.  
 
Nel 1958 il governo degli Stati Uniti d'America creò l'Advanced Research Projects Agency in risposta alla presunta superiorità tecnologica e scientifica dell'Unione Sovietica alla luce del lancio dello Sputnik (il primo satellite del mondo) avvenuto l'anno precedente. L'ARPA sarebbe dovuta essere un qualcosa di “visionario”, che metteva insieme scienziati e ingegneri per ricercare idee e tecnologie che sarebbero anche potute non essere di immediata applicabilità nei programmi militari in corso, ma che si sarebbero potute dimostrare utili in futuro. Fu il passo successivo di Lick dopo la BBN: nel 1962 assunse il ruolo di capo del loro “Information Processing Techniques Office”. Rimase all'ARPA per soli due anni, ma in molti gli riconoscono il merito di aver profondamente cambiato il modo di pensare dell'agenzia. Prima di lui l'ARPA era concentrata su monolitici mainframe, usati come gigantesche “macchine per risposte”, che operavano in batch-processing. Da Where Wizards Stay Up Late:
 
Avrebbero immesso nel computer informazioni segrete provenienti da varie fonti umane, quali pettegolezzi da feste od osservazioni alle parate militari del Primo Maggio, per cercare di delineare uno scenario probabile delle prossime mosse dei Sovietici. “L'idea consisteva nell'immettere in un potente calcolatore informazioni qualitative del tipo: 'Il comandante dell'aviazione ha bevuto due Martini' oppure ' Khrushchev non legge la Pravda il lunedì', ricorda Ruina. 'E il computer avrebbe recitato la parte di Sherlock Holmes, e ne avrebbe concluso che i russi stavano costruendo un missile MX-72, o qualcosa del genere.”
 
“Robe da asini” tipo queste erano il motore di gran parte delle riflessioni sui computer di quei giorni, perfino in università prestigiose come il MIT. Tuttavia Lick virò ARPANET in una direzione più gestibile e fruttifera, verso delle reti di computer che gestissero applicazioni interattive in connubio con gli umani: dei fatti e dei numeri se ne sarebbe occupato il computer, mentre delle conclusioni e del processo decisionale se ne sarebbe occupato l'uomo. Questo cambiamento di rotta condusse, nel giro di una decade, alla creazione di ARPANET. E, come tutti oggi ben sanno, ARPANET alla fine divenne Internet (dite quel che volete della Guerra Fredda, ma non che non abbia portato dei giganteschi passi in avanti nell’informatica). La visione umanistica dell’informatica, di cui Lick era paladino, resta percorribile e allettante ancora oggi, mentre restiamo in attesa che i fautori dell’intelligenza artificiale ci producano il primo HAL.
 
 
Lick tornò al MIT nel 1968, stavolta come direttore del leggendario Project MAC. Creato nel 1963 col fine di condurre ricerche per ARPA, la sigla MAC stava (a seconda della persona con cui stiamo parlando) per "Multiple Access Computing" o per "Machine Aided Cognition". Questi due nomi definiscono anche l’oggetto principale delle prime ricerche che vi venivano condotte: sistemi in "time-sharing" che permettessero a utenti multipli di condividere risorse e usare programmi interattivi su una singola macchina; e intelligenza artificiale, sotto la guida di due dei più famosi sostenitori dell’IA: John McCarthy (che ne ha anche coniato il termine) e Marvin Minsky. Potrei scrivere con facilità altri post (se non addirittura dozzine di post) sulla carriera e sulle idee di questi due uomini, affascinanti, problematici, e a volte un po’ inquietanti. E potrei dire lo stesso di molti altri dei luminari dell’informatica del MIT con cui Lick fu in stretto contatto, tipo Ivan Sutherland, l’inventore del primo programma di disegno nonché sostanzialmente di tutto il campo della ricerca nella computer grafica, oltre che suo successore alla guida di ARPA. Invece mi limiterò (ancora una volta) a segnalarvi Hackers di Steven Levy, un libro di facile lettura ma necessariamente incompleto, che descrive il fermento intellettuale del MIT degli anni ‘60, e poi Where Wizards Stay Up Late di Matthew Lyon e Katie Hafner, per approfondire i primi anni della carriera di Lick, ma anche la BBN, il MIT, e il nostro vecchio amico Will Crowther.
 
Il Project MAC si divise in due nel 1970, diventando il MIT AI Laboratory e il Laboratory for Computer Science (LCS). Lick rimase con quest’ultimo nel ruolo di una sorta di figura paterna per la nuova generazione di giovani hacker che alla fine degli anni ‘70 stavano lentamente rimpiazzando la vecchia guardia, di cui parla il libro di Levy. La sua era una mente accorta, sempre pronta a raccogliere le loro idee, e lui riusciva sempre (grazie anche alla sua rete di connessioni col governo e con l’industria) a trovare i fondi per portarle avanti.
 
L’LCS era formato da una serie di gruppi di lavoro più piccoli, uno dei quali era noto come il Dynamic Modeling Group. È stranamente difficile abbinare questi gruppi a uno scopo univoco. A ben vedere non è possibile farlo nemmeno con gli stessi AI Lab e LCS. Molte ricerche che si sarebbero potute facilmente considerate inerenti all’IA si svolgevano all’LCS, e molte che invece non rientravano tanto comodamente sotto quell’ombrello si svolgevano all’AI Lab (per esempio Richard Stallman sviluppò il text editor definitivo per gli hacker, l'EMACS, al AI Lab – un progetto indiscutibilmente meritevole, ma che ha davvero poco a che fare con l’intelligenza artificiale). I gruppi e gli individui al loro interno avevano un’immensa libertà di "hackerare" su qualunque progetto giustificabile di loro interesse (con i progetti non giustificabili che venivano rimandati al dopolavoro), aspetto questo che fece dell’LCS e dell’AI Lab l'amatissima casa degli hacker. E molti di loro arrivarono a ritardare la propria laurea, o addirittura non ci persero proprio tempo, tanto era intellettualmente fertile l’atmosfera nel MIT in contrasto con ciò che avrebbero trovato in una “normale” carriera nell’industria privata.
 
 
Il direttore del Dynamic Modeling Group era un tizio chiamato Albert (Al) Vezza, che ricopriva anche il ruolo di direttore aggiunto dell’LCS. E qui dobbiamo prestare attenzione. Se sapete già qualcosa della storia della Infocom, probabilmente vi ricorderete di Vezza come dell'imprenditore severo e cattivo, che non riusciva a vedere la magia nel nuovo medium della narrativa interattiva che il resto della società voleva perseguire, e che insisteva nel voler ridurre il lavoro della divisione ludica a una mera fonte di introiti per finanziare le applicazioni professionali più “serie”, e che alla fine condusse la società alla rovina per colpa delle sue errate priorità. È però anche vero che non c’è nemmeno mai stato un vero scontro diretto fra gli ex studenti universitari della Infocom e Vezza. Un’intervista con Mike Dornbrook per un progetto di uno studente del MIT impegnato a studiare la storia della Infocom, ci fornisce la seguente immagine di Vezza al MIT:
 
Se Licklider era carismatico e veniva affettuosamente chiamato “Lick” dai suoi studenti, Vezza non parlava quasi mai con i membri dell’LCS e di solito la mattina passava dall’ascensore al suo ufficio senza una minima deviazione, chiudendosi la porta alle spalle, per poi non vedere più nessuno per tutto il giorno. All’LCS c’era chi era scontento del suo stile dirigenziale, affermando che fosse freddo e che “non parlava mai con le altre persone se non vi era costretto, perfino con quelle che lavoravano all'interno del Lab.”
 
D’altro canto Lyon e Hafner hanno però questo da dire al riguardo:
 
Vezza faceva sempre una buona impressione. Era affabile ed eloquente in modo impeccabile; aveva un’arguta mente scientifica e istinti amministrativi di primissimo livello.
 
Al di là dei suoi difetti, Vezza era molto più di un vuoto colletto bianco privo di immaginazione. Ha infatti avuto una lunga e brillante carriera, spesa in gran parte a portare avanti le idee inizialmente proposte dallo stesso Lick; per esempio, appare nel libro di Lyon e Hafner perché ebbe un ruolo chiave nell’organizzazione della prima dimostrazione pubblica delle capacità della nascente ARPANET. Anche dopo gli anni alla Infocom, la sua restò una voce importante nel World Wide Web Consortium, l’ente che sviluppò molti degli standard che ancora oggi guidano internet. Di certo non rende onore a Vezza il fatto che la sua pagina di Wikipedia consista quasi esclusivamente nel suo inglorioso mandato alla Infocom, un periodo che probabilmente lui considera poco più che una sgradevole parentesi della sua carriera. Anche noi però siamo principalmente interessati a tale parentesi, benché per adesso ci accontentiamo di tracciare il ritratto di un uomo che era più un amministratore o un burocrate che un hacker, e che era più pragmatico che idealista; un uomo che, in conseguenza di ciò, aveva problemi a relazionarsi con le persone che avrebbe dovuto dirigere.
 
Molte di queste persone avevano nomi che i fan della Infocom hanno imparato a conoscere bene: Dave Lebling, Marc Blank, Stu Galley, Joel Berez, Tim Anderson, ecc. ecc. Come Lick, molte di queste persone erano diventate hacker passando per vie traverse. Lebling, per esempio, aveva conseguito un diploma in scienze politiche prima di venir risucchiato nell’LCS, mentre Blank faceva la spola fra Boston e New York, dove in qualche modo riuscì a completare i suoi studi di medicina pur "hackerando" come un pazzo al MIT. Una cosa però accomuna tutte queste persone: erano in gamba. Del resto all’LCS i cretini erano mal sopportati – anzi, non erano sopportati per niente.
 
Uno dei primi lavori del Dynamic Modeling Group fu la creazione di un nuovo linguaggio di programmazione da utilizzare nei suoi progetti, che (con la tipica impudenza degli hacker) fu chiamato “Muddle” [“bordello”]. Il Muddle divenne rapidamente l’MDL (MIT Design Language) in risposta a qualcuno (Vezza?) che non apprezzava lo humour del Dynamic Modeling Group. Si trattava, in sostanza, di una versione migliorata di un vecchio linguaggio di programmazione sviluppato al MIT da John McCarthy, che era (e resta ancora oggi) il linguaggio favorito dai ricercatori nel campo dell’intelligenza artificiale: il LISP.
 
Forti del MDL, il Dynamic Modeling Group si lanciò in una serie di progetti, individuali o cooperativi. Alcuni di questi progetti avevano anche delle vere applicazioni militari che dovevano strizzare l'occhio a quelle persone che, in ultima analisi, pagavano per tenere in piedi tutta la baracca; Lebling, per esempio, passò un bel po’ di tempo su dei sistemi informatizzati di riconoscimento del codice morse. Ma c’erano anche molti giochi, in alcuni dei quali anche Lebling partecipava, incluso quello più ricordato di tutti, Maze. Maze funzionava in rete, con fino a 8 Imlac PDS-1 (dei microcomputer molto semplici, dotati di primitive capacità grafiche) che fungevano da “client” connessi ad un singolo “server” DEC PDP-10. I giocatori sui PDS-1 potevano navigare attraverso un ambiente condiviso, sparandosi contro; una sorta di antenato di giochi moderni tipo Counter-Strike. Maze divenne un grande successo, nonché un serio problema per i burocrati tipo Vezza; non solo un vero gioco da 8 giocatori spingeva il server PDP-10 ai suoi limiti, ma aveva anche la tendenza a far crashare del tutto questa macchina, che altri dovevano usare per lavorare davvero. Vezza chiese più e più volte che venisse rimosso dai sistemi, ma cercare di imbrigliare il caos del Dynamic Modeling Group era una causa persa in partenza. Fra gli altri progetti “divertenti”, Lebling creò anche un quiz, che permetteva agli utenti di ARPANET di inviare le domande scritte da loro e che alla fine poteva contare su un database di migliaia di domande.
 
E poi, nella primavera del 1977, Adventure arrivò al MIT. Come nei dipartimenti di informatica di tutta la nazione, anche qui il lavoro sostanzialmente si fermò mentre tutti cercavano di risolverlo; alla fine i membri del Dynamic Modeling Group conquistarono quel “last lousy point” [cioè “quell’ultimo disgustoso punto”; ndAncient] con l’aiuto di uno strumento di debugging. Forti di questo risultato, iniziarono (come molti altri hacker, in molti altri luoghi) a pensare a come avrebbero potuto creare un Adventure migliore. A differenza di altri, però, il  Dynamic Modeling Group aveva degli strumenti a portata di mano che lo metteva in una posizione più che unica per riuscirci.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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