Giochi col Parser
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)



Benvenuti lettori temerari al consueto appuntamento con la traduzione ufficiale del The Digital Antiquarian, scritta dalla sapiente penna poliglotta del nostro The Ancient One e con la bislacca supervisione del sottoscritto: uno sforzo editoriale che si perpetua ormai da innumerevoli mesi e che raccoglie sempre più consensi e apprezzamenti.
Un lungo viaggio, dunque, che ci ha portati alla storia di Infocom e del primo grande successo commerciale nella storia delle avventure testuali, Zork. Ma, prima di addentrarci nel magico Regno Sotterraneo, L'Antiquario ci parlerà di un aspetto tecnico di importanza notevole per lo sviluppo delle avventure testuali: il parser. 
E come dimenticare la lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
– Giochi col Parser
– Esplorando Zork, Parte 1
– Esplorando Zork, Parte 2
– Esplorando Zork, Parte 3
– Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura avventurieri... e scegliete bene le parole!
 
Festuceto
 
Mi tufferò in maggior dettaglio dentro Zork nel mio prossimo post, ma prima mi sento in dovere di tornare in modo un po' più rigoroso sull'argomento che ho solo sfiorato nel primo post di questa serie: quanto era impressionante Zork nel mondo dei microcomputer del 1980-1981. Ho una tesi che vorrei illustrarvi, ma richiede un po' di teoria (ahia!). Ma, prima ancora, lasciatemi presentare lo scenario del nostro discorso, con alcune citazioni tratte dal progetto Get Lamp di Jason Scott.
 
“Due sono i prodotti che hanno venduto più computer di tutti gli altri: VisiCalc e Zork.” — Mike Berlyn
 
“Dopo la scuola andavamo in questo negozio e giocavamo a qualunque gioco ci fosse disponibile, oppure inserivamo personalmente il codice dei giochi, e mi ricordo anche di quando uscì Zork e lo giocavamo su Apple II, e ne eravamo semplicemente estasiati.” — Andrew Kaluzniacki
 
“La gente vedeva Zork e diceva: 'Lo voglio anche io, assolutamente sì. A chi intesto l'assegno?'” — Mike Berlyn
 
“Credo che ci sia stato un periodo di tempo, probabilmente fra l'80 e l'84, in cui, per un sacco di macchine, non c'era praticamente niente di lontanamente simile.” — Mike Dornbrook
 
Certo, il fatto che Berlyn metta Zork sullo stesso piano di un programma che ha definito un'intera industria come VisiCalc è forse un po' esagerato, ma dà un’idea di ciò di cui sto parlando. Affermazioni come quest'ultima oggi ci suonano ironiche, se non addirittura un po' tragiche. Nel giro di qualche anno da quel periodo (indicato da Dornbrook) che va dal 1980 al 1984, i publisher e gli appassionati avrebbero iniziato a individuare nella mancanza di un’attrattiva immediata delle IF, la ragione principale del declino delle fortune commerciali di tale genere (oltre ovviamente a lamentarsi dell'analfabetismo adolescenziale all'interno del segmento di popolazione che tipicamente fruiva dei videogiochi, e altri argomenti simili).
 
E, allora, cos'era che questi primissimi giocatori trovavano di così immediatamente attrattivo in Zork? Di certo il suo mondo non era solo più grande, ma anche modellato in un modo più rigoroso e più sofisticato di qualunque altra cosa si fosse mai vista prima. Di certo la scrittura (seppur a volte necessariamente sintetica a causa dei limiti di spazio) mostrava una certa verve e una certa nuance, oltre che -beh!- un'attenzione alla grammatica e all'ortografia che surclassava tutta la concorrenza. E di certo il suo gameplay era (seppur ancora afflitto da irritanti labirinti e da alcuni enigmi tragici) più equo della norma. Ma queste sono tutte cose che possono essere notate solo dagli appassionati di avventure testuali: il genere di cose che si palesa solo dopo aver passato un po' di ore dentro Zork e (almeno) un po' di ore con altri giochi del periodo. Invece, come illustrano bene le citazioni riportate qui sopra, la gente giocava Zork in negozio per qualche minuto e lo comprava in preda allo stupore. E forse, al di là dell'iperbole di Berlyn, a volte insieme comprava anche l'Apple II che serviva per giocarci. Perché? Credo che la risposta risieda nella relazione di amore-odio dei giochi d'avventura con il proprio parser.
 
In Joysprick, un libro su James Joyce, Anthony Burgess divide gli autori in due categorie (qui inserite liberamente la vostra barzelletta preferita che inizi con “C'erano due...”; fate con calma. Fatto? Bene...). Gli autori di Classe Uno si preoccupano esclusivamente dello storyworld (la realtà virtuale, se preferite) che vive “dietro” le loro parole. “Il contenuto diventa più importante dello stile, i referenti bramano di essere liberi dalle loro parole e di venir presentati direttamente come dati percepiti”. La “buona” scrittura, da questo punto di vista, è la scrittura che esiste esclusivamente per servire l’ambientazione e la storia che essa rivela, una scrittura che sa evocarle entrambe il più vividamente possibile, ma che al tempo stesso nasconde sé stessa dinanzi al lettore che con la sua immaginazione ricostruisce la sottostante realtà virtuale, rifiutandosi diligentemente di richiamare l’attenzione su di sé. Gli autori di Classe Due, all’opposto, sono preoccupati del loro linguaggio di per sé. I loro libri “sono fatti di parole, non meno che di personaggi”. A volte, come nel caso di Finnegans Wake o del capitolo “Sirene” dell’Ulysses, il linguaggio sembra essere l’unica cosa presente; la scrittura è tutta “superficie”. Alcuni potrebbero rimarcare che avere successo (o, almeno, provarci) su questo secondo piano è ciò che divide la “letteratura” dalla “fiction”. Ma noi ci terremo lontani da questo vaso di Pandora. Anzi, nel cercare di applicare questi concetti all’interactive fiction, mi asterrò dall’esprimere giudizi di valore.
 
Non voglio per ora applicare queste idee al testo che un’opera di IF mostra al giocatore, quanto piuttosto al testo che il giocatore vi immette (il parser, in altre parole). Non a caso, un modo per avvicinarsi alla narrativa interattiva è quella di considerarla una ricca realtà virtuale da abitare. Da questo punto di vista (quello di un giocatore di Classe Uno) il parser per lui esisterà solo come mezzo per iniettare le proprie scelte nel mondo, esattamente come un lettore di Classe Uno considera il testo come una finestra (idealmente il più trasparente possibile) attraverso cui osservare l’azione che si svolge nello storyworld. Questo è sempre stato il mio approccio di base all’interactive fiction, sia come giocatore che come scrittore. Visto che ormai in questo post mi sono concesso un sacco di citazioni dirette, lasciate che pecchi di modestia citando un mio precedente intervento sull’argomento. Nel 2008 ho scritto quanto segue, come commento al blog di Mike Rubin:
 
Credo che molte persone, incluso me stesso, abbiano effettivamente giocato a Facade come fosse una commedia, provando azioni sempre più oltraggiose per vedere cosa sarebbe successo, cercando cioè di arrivare a “rompere” il sistema. Mi permetto di osservare, però, che quando il giocatore inizia a fare ciò, è segno che il game designer ha, in una qualche misura, fallito. Ho infatti iniziato ad adottare un approccio ironico con Facade dopo aver provato numerose condotte ragionevoli a cui il gioco o non ha risposto affatto, o ha risposto in un modo che era palesemente inappropriato alle mie azioni. A quel punto per me la mimesi è crollata e ho iniziato a trattare il sistema come fosse un giocattolo ingegnoso, anziché come una narrativa interattiva immersiva. Ovviamente non c’è niente di male nel fallimento di Facade: è un concept rivoluzionario e dovrà necessariamente passare per molte altre iterazioni prima che possa sperare anche solo di avvicinarsi a un realismo completo.
 
Questo però solleva un punto: non credo che i giochi possano mantenere la propria mimesi rimproverando il giocatore, dicendogli in termini espliciti “di NO”, quando tenta di mangiarsi la spada o di colpire un amico. Dovremmo piuttosto impegnarci per rendere la nostra scrittura così buona, le nostre ambientazioni così credibili, e le nostre interazioni così lisce, che il giocatore sia assolutamente catturato dalla nostra storia, in modo che non gli venga mai in mente di mangiarsi la spada o di colpire gli amici, esattamente come non verrebbe mai in mente al suo avatar. Detto in altre parole, dobbiamo fare in modo che il giocatore DIVENTI davvero il suo avatar per tutto il poco tempo che giocherà.
 
Appena il gioco inizia ad andare in frantumi (per usare questa metafora)… è allora che il giocatore si ricorderà solo una stupida avventura testuale, ed è allora che inizierà a giocare per ridere, cercando di rompere più che mai il sistema. Io lo faccio ogni anno con almeno una dozzina di giochi dell’IFComp, cercando di RUBARE porte ed edifici, e più in generale di creare scompiglio nello storyworld. Del resto il divertimento sta dove lo si trova.
 
Ovviamente ci sono giocatori che affrontano ogni gioco con l’intenzione di romperlo. E alcuni potrebbero certamente considerare l’interactive fiction più interessante come un sistema con cui giocare che come storia, anche se penso che altri generi sarebbero più adatti per soddisfare questo loro bisogno. A questi giocatori dico: bene, divertitevi come più vi piace. Tuttavia credo che la maggior parte delle persone che giocano all’interactive fiction vi arrivino desiderando di essere immersi, per un po', in uno storyworld (e, sì, magari anche in una storia coerente) e di sperimentarlo attraverso gli occhi di qualcun altro. E le ricompense di un tale approccio devono essere infinitamente più grandi del provare azioni a caso per vedere dove sono collocati i confini della simulazione (per quanto anche questo possa risultare divertente).  
 
(Ma non avevamo detto qualcosa sul non esprimere giudizi di valore? Mi è passato di mente...)
 
Premesso questo, la gente che si meravigliava dinanzi a Zork nei negozi di computer non reagiva considerandolo una narrazione profonda e immersiva, né tantomeno un gioco d’avventura estremamente sofisticato. Lo stupore era tutto riservato al parser, inteso come oggetto (giocattolo) di per sé. Perché, nonostante le limitazioni di spazio entro cui dovevano lavorare, alla Infocom si ritagliarono dello spazio per le risposte ironiche proprio a quel genere di input, fuori di testa e privo di senso, che la gente di passaggio in un negozio di computer poteva inserire.
 
WEST OF HOUSE
YOU ARE STANDING IN AN OPEN FIELD WEST
OF A WHITE HOUSE, WITH A BOARDED FRONT
DOOR.
THERE IS A SMALL MAILBOX HERE.
>FUCK
SUCH LANGUAGE IN A HIGH-CLASS
ESTABLISHMENT LIKE THIS!
>SHIT
YOU OUGHT TO BE ASHAMED OF YOURSELF.
>TAKE ME
HOW ROMANTIC!
>ZORK
AT YOUR SERVICE!
>XYZZY
A HOLLOW VOICE SAYS 'CRETIN'.
>FIND HOUSE
IT'S RIGHT IN FRONT OF YOU. ARE YOU
BLIND OR SOMETHING?
>FIND HANDS
WITHIN SIX FEET OF YOUR HEAD, ASSUMING
YOU HAVEN'T LEFT THAT SOMEWHERE.
>FIND ME
YOU'RE AROUND HERE SOMEWHERE...
>CHOMP
I DON'T KNOW HOW TO DO THAT. I WIN IN
ALL CASES!
>WIN
NATURALLY!
>SIGH
YOU'LL HAVE TO SPEAK UP IF YOU EXPECT ME
TO HEAR YOU!
>REPENT
IT COULD VERY WELL BE TOO LATE!
>WHAT IS A GRUE?
THE GRUE IS A SINISTER, LURKING PRESENCE
IN THE DARK PLACES OF THE EARTH. ITS
FAVORITE DIET IS ADVENTURERS, BUT ITS
INSATIABLE APPETITE IS TEMPERED BY ITS
FEAR OF LIGHT. NO GRUE HAS EVER BEEN
SEEN BY THE LIGHT OF DAY, AND FEW HAVE
SURVIVED ITS FEARSOME JAWS TO TELL THE
TALE.
>WHAT IS A ZORKMID?
THE ZORKMID IS THE UNIT OF CURRENCY OF
THE GREAT UNDERGROUND EMPIRE.
>YELL
AAAARRRRGGGGHHHH!
 
Questo significa giocare a Zork come fosse Eliza: scoprire che risposte sono prodotte da questo o quell’input, in cerca dei limiti. Come dimostrato da alcuni recenti esperimenti, questa modalità di interazione è ancora oggi sostanzialmente la norma per i principianti che affrontano un’opera di narrativa interattiva per la prima volta. Nel 1981, quando i computer non erano ancora stati compresi così bene e per la maggior parte delle persone erano ancora qualcosa di vagamente magico (se non persino qualcosa di inquietante), l’idea di digitare qualcosa (specialmente qualcosa di poco pertinente al contesto o addirittura completamente inappropriato) ed essere ugualmente "compresi", era davvero molto potente e richiamava alla mente HAL e il computer parlante dell’Enterprise.
 
Ma perché vi dico tutto questo? Non sono così sicuro che ci sia qualcosa da imparare in tutto ciò. Dopo un po’ di tempo, giocare col parser e cercare di rompere le cose perde di fascino, e il giocatore o inizia ad appassionarsi allo storyworld e alla narrazione, oppure semplicemente passa ad altro. Da qui l’irrequietezza che esprimo sopra per i giocatori che non sembrano in grado di andare oltre il trionfo che scaturisce dal constatare che sì, senza troppi sforzi è possibile rompere il parser e con ogni probabilità anche la simulazione del mondo. Oltre dieci anni dopo Zork, un’avventura grafica chiamata Myst divenne per alcuni anni il gioco per computer più venduto di sempre. Spesso veniva definito il bestseller meno giocato di sempre. La gente lo comprava per ostentare le proprie nuove schede grafiche, le schede sonore, e i lettori CD-ROM, nel bel mezzo del boom dei “PC Multimediali” degli anni ‘90, ma resterei sorpreso se anche solo un dieci percento di loro si fosse seriamente appassionato ai suoi intricati enigmi intellettuali o avesse compiuto un vero sforzo per finirlo. In modo del tutto analogo, sospetto che molte delle copie di Zork esistevano più come qualcosa da tirar fuori alle feste, piuttosto che come genuina passione di coloro che le possedevano.
 
Ora però non iniziate a stampare le vostre t-shirt con la scritta “Io apprezzo Zork ad un livello molto più profondo di voi”, perché è pur vero che nessuno di noi è mai diventato fino in fondo un giocatore di Classe Uno. Ecco un’altra citazione ancora da Get Lamp, stavolta di Bob Bates, che cattura bene “gli avanti e indietro” che compongono gran parte dei piaceri delle avventure testuali:
 
“Molti giochi prevedano solo la parte del ‘se’, che poi sarebbe il percorso principale attraverso il gioco, di cui parlavo prima. Se il giocatore fa esattamente questo e tutto va bene, allora il gioco risponde così e tutto va avanti. Ma c’è sempre anche ‘altro’. E se il giocatore non facesse ciò che dovrebbe? Che succede se gli viene questa strana idea, o se digita quella o quell’altra cosa stramba che vuole provare semplicemente per vedere se il gioco si rompe? Così, tanto per vedere dove sono i confini. Ecco, questo fa parte del divertimento di giocare a un’avventura testuale, nonché parte del divertimento (una GRANDE parte del divertimento) del crearle; io infatti mi immagino un dialogo con il giocatore, così che alla fine quando il giocatore fa questa cosa estremamente strana e nel farla esclama ‘ah, nessuno può aver pensato di fare questo!’ e poi ‘Oh, cielo! Quella non è una risposta standard! Anche l’autore ci aveva pensato!’. Questo aiuta a forgiare un legame fra te e l’autore. ‘Quel tizio è strambo quanto me. Io e lui pensiamo nello stesso modo.’”
 
Quindi un motto per il successo di una buona avventura testuale potrebbe essere: attraili e affascinali con il parser, ma trattienili con il tuo storyworld. Con lo spirito di essere trattenuti con lo storyworld, la prossima volta indosseremo le nostre divise da giocatori di Classe Uno e ci avventureremo nel Grande Impero Sotterraneo. Stavolta davvero, promesso. 

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
Se anche voi apprezzerete questo interessantissimo blog, non mancate di visitare la pagina ufficiale (in lingua inglese) e di sostenerlo tramite Patreon.
Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


Consulta l'indice per leggere gli articoli precedenti

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Discutiamone insieme sul forum di OldGamesItalia!

 

Zork sul PDP-10
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Continua il ciclo di articoli dedicato alla nascita di Infocom e ai primi tre capitoli della celebre serie di Zork. Sì avete letto bene: nel corso del nostro viaggio analizzeremo i primi tre capitoli di Zork. Contrariamente a quanto annunciato nell'ultimo editoriale, non ci limiteremo ai primi due titoli della leggendaria serie Infocom, ma chiuderemo la trilogia originale, com'è giusto che sia. 
Pertanto considerate l'indice riportato di seguito, soltanto parziale. Sarà nostra premura completarlo non appena sarà possibile, e se proprio non potete resistere, cliccate in fondo all'articolo per fiondarvi nel blog originale del "The Digital Antiquarian" ... ma non vorrete rovinarvi la sorpresa, vero?
 
A proposito, nel caso vi steste ancora chiedendo perché Zork sia così attuale qui su OldGamesItalia, vi consiglio di visitare attentamente la sezione "traduzioni" del nostro forum... 
Ecco il solito indice degli articoli:
 
Zork sul PDP-10
La Nascita della Infocom
ZIL e la Z-Machine
Come Vendemmo Zork
Giochi a Parser
Esplorando Zork, Parte 1
Esplorando Zork, Parte 2
Esplorando Zork, Parte 3
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
 
Buona lettura esploratori e ... attenti ai grue!
 
Festuceto
 
Uno dei tratti distintivi degli hacker è il non considerare mai un programma davvero completamente e definitivamente finito; ci sono sempre aggiunte da fare, angoli da smussare. E di certo Adventure, per quanto impressionante, lasciava ampio spazio ai miglioramenti. Dobbiamo poi aggiungere che Adventure arrivò al MIT attraverso Don Woods dell'AI Lab della Stanford, forse l'unico corso di informatica della nazione che aveva la statura per potersi confrontare alla lontana con quello del MIT. Gli studenti del MIT erano fieramente orgogliosi della propria Università. Anche se la Stanford aveva prodotto per prima un gioco d'avventura, il Dynamic Modeling Group del MIT avrebbe potuto quantomeno farlo meglio. E certo non nuoceva alla causa il fatto che il Project MAC e il Laboratory for Computer Science (per non parlare dello stesso Dynamic Modeling Group) avessero donato loro degli ottimi strumenti con cui affrontare il problema.
 
Adventure era stata implementato in FORTRAN, un linguaggio non particolarmente adatto alla creazione di un'avventura testuale. E infatti il FORTRAN non poteva nemmeno gestire nativamente le stringhe di lunghezza variabile, lasciando a Crowther e Woods il compito di arrangiare qualche soluzione, come del resto dovettero fare anche con molti altri problemi. Come sappiamo, entrambi erano programmatori molto talentuosi e ci riuscirono al meglio. E così gli hacker del Dynamic Modeling Group (la cui opinione del FORTRAN era solo un gradino superiore a quella che avevano del BASIC) non vedevano l'ora di progettare il proprio gioco d'avventura con il proprio linguaggio, l'MDL. Non solo l'MDL (essendo un linguaggio progettato, almeno in parte, per la ricerca nel campo dell'Intelligenza Artificiale) poteva vantare capacità di gestione di stringhe relativamente robuste, ma offriva anche la possibilità di definire dei nuovi “data type” complessi, adatti per compiti specifici, e la possibilità di inserire direttamente in tali strutture dei pezzi di codice. Lasciatemi provare a spiegarvi perché tutto questo era così importante.
 
Inizieremo con la stanza di apertura di Zork, il gioco che alla fine fu prodotto dal Dynamic Modeling Group in risposta ad Adventure. La descrizione di tale stanza al giocatore [nella nostra traduzione italiana di Zork I; ndAncient] appare così:
 
 
West of House
This is an open field west of a white house, with a boarded front door.
There is a small mailbox here.
A rubber mat saying 'Welcome to Zork!' lies by the door.
 
Questo è il codice sorgente originale in MDL che descrive la stanza:
 
<ROOM "WHOUS"
"This is an open field west of a white house, with a boarded front door."
"West of House"
<EXIT "NORTH" "NHOUS" "SOUTH" "SHOUS" "WEST" "FORE1"
"EAST" #NEXIT "The door is locked, and there is evidently no key.">
(<GET-OBJ "FDOOR"> <GET-OBJ "MAILB"> <GET-OBJ "MAT">)
<>
<+ ,RLANDBIT ,RLIGHTBIT ,RNWALLBIT ,RSACREDBIT>
(RGLOBAL ,HOUSEBIT)><
 
Praticamente tutto ciò che il programma deve sapere di questa stanza è incapsulato qui dentro in modo ordinato. Analizziamolo, linea per linea. Il tag “ROOM” [stanza] all'inizio definisce questa struttura come una stanza, chiamata brevemente “WHOUS” [abbreviazione di "West of House", cioè "A Ovest della Casa", ndAncient]. La linea di testo seguente è la descrizione della stanza che il giocatore vede quando vi entra la prima volta o quando digita “GUARDA”. “West of House” è invece il nome completo della stanza, quello che appare come titolo della descrizione della stanza e nella linea di stato in cima allo schermo, ogni volta che il giocatore si trova in questa stanza. Poi abbiamo un elenco di uscite dalla stanza, andare a nord porta il giocatore a “North of House,” a sud lo porta a “South of House”, a ovest in una di diverse stanze che compongono la “Foresta”. Cercare di andare a est produrrà invece uno speciale messaggio di fallimento, che riferirà al giocatore di non essere in possesso di una chiave per aprire la porta, anziché il generico: “Non puoi andare in quella direzione”. Subito dopo abbiamo gli oggetti che si trovano nella stanza all'inizio del gioco: la porta frontale, la cassetta delle lettere, e il tappetino di benvenuto. Quindi una serie di "flag" definisce altre proprietà della stanza: che è asciutta anziché invasa dall'acqua, che è illuminata anche se il giocatore non ha con sé una lanterna accesa; che (essendo all'aperto) non ha pareti; che è “sacred” [“sacra”] (il che significa che il ladro -un personaggio che vaga in giro, infastidendo il giocatore in modo non dissimile dai nani e dal pirata di Adventure- non può venire qui). E, alla fine, l'ultima linea associa questa stanza alla "white house" o, per essere più precisi, la associa a una parte della “regione casa” della geografia del gioco.
 
Ogni oggetto e ogni personaggio del gioco è definito da un simile blocco, che spiega quasi tutto ciò che il gioco deve sapere al riguardo. Va aggiunto anche che le abilità e le capacità speciali di oggetti e personaggi sono descritti come parti di essi, utilizzando dei collegamenti a delle sezioni speciali del codice, create appositamente. Per questo una volta che l'impalcatura del codice alla base di tutto questo fu creata (cosa che, ovviamente, non era affatto banale), aggiungere nuovo contenuto a Zork era prevalentemente una questione di aggiungere più stanze, più oggetti, e più personaggi, senza bisogno ogni volta di rituffarsi nell'"engine" che muoveva il tutto; solo le capacità speciali degli oggetti e dei personaggi dovevano essere programmate da zero e collegate nei punti giusti. Componendo il mondo da una raccolta di “oggetti” integrati, gli hacker del Dynamic Modeling Group stavano inconsapevolmente dirigendosi verso un nuovo paradigma nella programmazione, che sarebbe giunto alla ribalta dell'informatica solo alcuni anni dopo: la programmazione orientata agli oggetti, in cui i programmi non sono rigorosamente divisi nel codice che li esegue e nei dati che esso manipola, ma sono piuttosto costruiti dall'interazione di oggetti semi-autonomi che contengono il proprio codice e i propri dati. Un tempo considerata praticamente la soluzione a ogni problema (forse persino alla fame nel mondo), oggigiorno in certe aree, ci sono delle resistenze (probabilmente giustificate) alla imposizione, applicata a prescindere, della teoria della programmazione orientata agli oggetti operata da certi linguaggi, come il Java. Sia come sia, la programmazione orientata agli oggetti resta praticamente la soluzione ideale nella creazione delle avventure testuali. Per mostrarvi cosa intendo, guardiamo all'alternativa, illustrata da Adventure (scritto in FORTRAN, un linguaggio altamente NON orientato agli oggetti).
 
Ad ogni stanza di Adventure è assegnato un numero da 1 (la location iniziale, naturalmente all'esterno di un piccolo edificio di mattoni) fino a 140 (stavolta, meno naturalmente, un vicolo cieco in un labirinto). Per trovare la descrizione completa della stanza (quella che viene mostrata al giocatore quanto vi entra per la prima volta o quando la GUARDA) il programma scava nella prima tabella di un file esterno di dati, confrontando il numero della stanza alle rispettive voci.
 
1
1 YOU ARE STANDING AT THE END OF A ROAD BEFORE A SMALL BRICK BUILDING.
1 AROUND YOU IS A FOREST.  A SMALL STREAM FLOWS OUT OF THE BUILDING AND
1 DOWN A GULLY.
 
Un'altra tabella mostra invece la descrizione breve che viene visualizzata quando si entra in una stanza già visitata:
 
1 YOU'RE AT END OF ROAD AGAIN.
 
E ora viene il bello. Un'altra tabella ancora ci dice cosa ci aspetta in ogni direzione cardinale.
 
1 2 2 44 29
1 3 3 12 19 43
1 4 5 13 14 46 30
1 5 6 45 43
1 8 63
 
La prima linea di cui sopra ci dice che quando siamo in stanza 1, possiamo andare in stanza 2 digitando una delle tre voci di un'altra tabella ancora; in questo caso: “ROAD o HILL” (voce 2); “WEST” or “W” (voce 44); or “UPWAR” (infatti le parole vengono confrontate sulla base dei primi 5 caratteri soltanto [in questo caso la parola completa sarebbe UPWARD, formata da 6 caratteri, che significa SU; ndAncient], “UP,” “ABOVE,” or “ASCEN” (voce 29). In modo del tutto analogo, le definizioni degli oggetti sono sparpagliate su più tabelle all'interno del data file. Quindi, anche se Adventure tenta almeno in parte di astrarre il suo "engine" dai dati che compongono il suo mondo (collocando questi ultimi in un "data file" esterno), modificare il mondo stesso è un procedimento rognoso e foriero di errori, che consiste nell'editare più tabelle criptiche. I primi "engine" per avventure testuali sui microcomputer, come quelle di Scott Adams, funzionano tutti in questo modo. E anche se era comunque possibile sviluppare dei tool che alleviassero il fardello di modificare a mano i "data file", il sistema di Zork basato sull'MDL è flessibile e programmabile in un modo ben superiore a quello di questi sistemi: non essendo possibile inserire del codice all'interno degli oggetti del mondo di gioco, creare oggetti non standard in Adventure o in un gioco di Scott Adams richiedeva generalmente di andare a modificare il codice dell'"engine"; non proprio il massimo.
 
Per questo l'MDL era semplicemente migliore per scrivere un'avventura testuale che fosse capace di rappresentare limpidamente un mondo vasto, in un modo che fosse anche leggibile e facilmente mantenibile. Era quasi come se l'MDL fosse stato progettato a questo scopo. Ed effettivamente, se avete usato un linguaggio di programmazione di IF più moderno (come Inform 6), sareste rimasti sorpresi da quanto poco sia cambiato l'approccio nella definizione del mondo rispetto ai giorni dell'MDL di Zork. (Inform 7, uno degli ultimi, e migliori, tool per lo sviluppo di IF si è allontanato dal modello della programmazione orientata agli oggetti in favore di un approccio basato su regole più leggibili -se non addirittura più “letterarie”-. Basti dire che i meriti e gli svantaggi dell'approccio di Inform 7 sono un argomento troppo complesso per essere affrontato in questa sede. Forse ne riparleremo fra 20 anni, quando finalmente il Digital Antiquarian si occuperà dell'anno 2006...)
 
E gli hacker del Dynamic Modeling Group avevano ancora un altro asso nella loro manica.
 
Il MIT aveva all'attivo importanti ricerche sulla comprensione del linguaggio naturale nel computer, che risalivano almeno fino a Joseph Weizenbaum e al suo sistema ELIZA del 1966. E se quel programma alla fin fine era poco più di un elaborato trucco da salotto, esso però ispirò altri e più rigorosi tentativi di far parlare a un programma un buon inglese. È estremamente noto quello che fra il 1968 e il 1970 fu sviluppato da Terry Winograd sotto il nome di SHRDLU, che simulava un modello di mondo composto di blocchi. L'utente poteva chiedere al programma di manipolare questo mondo, spostando i blocchi di posto in posto, impilandoli, e così via, il tutto limitandosi a digitare le sue richieste con delle semplici frasi imperative in lingua inglese. Era perfino possibile porre delle semplici domande al computer, per sapere ad esempio quale blocco fosse collocato in una determinata posizione. Piuttosto sopravvalutato all'epoca (come gran parte della ricerca sull'intelligenza artificiale), quasi fosse un passo decisivo verso HAL, SHRDLU riuscì comunque a dimostrare che, almeno all'interno di un dominio molto ristretto, è possibile per un programma parlare e “comprendere” realmente un significativo sottoinsieme della lingua inglese. Partendo dalla tradizione di SHRDLU, gli hacker del Dynamic Modeling Group crearono un parser per avventure testuali che era oggettivamente il primo mai creato a essere degno del termine. E se Adventure se la cavava con un semplice riconoscimento delle parole (stratagemma reso palese dal fatto che “LAMPADA PRENDI” funziona esattamente come “PRENDI LAMPADA”), Zork comprendeva davvero non solo il verbo e il complemento oggetto, ma anche le preposizioni, il complemento di termine, le congiunzioni, la punteggiatura, e perfino gli articoli. A dare un contributo essenziale al raggiungimento di tale obbiettivo fu nuovamente l'MDL che (essendo un linguaggio ideato pensando alla ricerca sull'IA) aveva delle straordinarie capacità di manipolazione delle stringhe. Il parser che riuscirono a ideare si rivelò una creazione mirabile, che si sarebbe contraddistinta per molti anni a venire (un'eternità, allora come ora, nel mondo dell'informatica). Ma ora sto andando troppo avanti.
 
La strada che condurrà a Zork iniziò nel Maggio del 1977, quando Dave Lebling creò un semplicissimo parser e un semplicissimo "engine" piuttosto simile a quello di Adventure, dal quale Marc Blank e Tim Anderson crearono il loro primo gioco di quattro stanze, come prototipo. A quel punto Lebling si prese una vacanza di due settimane, mentre Blank, Anderson, e Bruce Daniels "hackeravano" come pazzi, creando la struttura base di Zork così come la conosciamo ancora oggi. Il nome stesso era una parola priva di senso presa dal gergo parlato al MIT; una parola che si usava nelle situazioni di tensione al posto di un altra più scurrile: “Zorka quel maledetto codice!”, quando una linea di codice non ne voleva sapere di funzionare, e cose del genere. Ogni programmatore ha qualche parola tipo questa che usa per programmi, variabili, funzioni, e così via, quando sta semplicemente facendo esperimenti e non ha tempo di inventarsi un nome migliore (negli ultimi 25 anni il mio personale “go-to placeholder” è stata la parola “fuzzy”, per ragioni troppo imbarazzanti e stravaganti per spiegarle qui). Nel caso di Zork, però, un nome vero e proprio tardava a venir fuori. E così il gioco restò Zork per i primi sei mesi della sua esistenza.
 
Quando Lebling tornò dalla vacanza per riprendere a lavorare al gioco, c'erano già delle solide basi. Tutto il design era modulare; questo significava (come dimostrato sopra) che era facile aggiungere altre stanze, altri oggetti, altri enigmi, ma anche che ogni parte della sottostante tecnologia poteva essere facilmente rimossa, migliorata, e inserita di nuovo. Il parser in particolare migliorò gradualmente da uno a due parole (“intelligente quasi quanto quello di Adventure”), fino a diventare la creazione allo stato dell'arte che era alla fine; il tutto prevalentemente grazie all'impegno di Blank, che ne divenne ossessionato fino a produrne “40 o 50” iterazioni.
 
Negli anni successivi la Infocom avrebbe sviluppato una storia e una mitologia, complesse ma anche comiche, intorno a Zork e al suo “Grande Impero Sotterraneo”, ma in questi primissimi giorni di sviluppo gli autori erano interessati al mondo di gioco solo come luogo in cui ambientare delle scene accattivanti ma anche ridicolmente eterogenee, e -ovviamente- degli enigmi da risolvere, nel solco della tradizione inaugurata da Don Woods con Adventure. E infatti il mondo di Zork rende omaggio ad Adventure quasi al punto da sembrare inizialmente un suo remake. Come Adventure, si inizia all'aria aperta, accanto ad una piccola casa; come in Adventure c'è una piccola area esterna da esplorare, ma il succo del gioco si svolge sottoterra; come Adventure lo scopo è raccogliere tesori e riportarli dentro la casa, che serve quindi da base delle nostre operazioni; ecc. ecc. Solo andando molto avanti nel gioco, Zork diverge davvero da questo schema e assume una sua distinta personalità, con location fantasiose ed enigmi molto più intricati, resi possibili dallo stupefacente parser. Ovviamente tutte queste parti furono ideate in seguito, quando il team di sviluppo aveva più esperienza e quando il parser era ormai molto migliore di quello iniziale. Personalmente darò uno sguardo approfondito a Zork nella sua versione per microcomputer, piuttosto che nella sua incarnazione per PDP-10, ma se siete interessati a saperne di più sull'implementazione originale senza capo né coda, vi invito a dare un'occhiata all'approfondito play-through di Jason Dyer.
 
Come Adventure, anche Zork girava su un DEC PDP-10. A differenza di Adventure però, girava sotto il sistema operativo che ospitava anche l’ambiente MDL, l’Incompatible Timesharing System (così chiamato, con un po’ di sano humour da hacker, in sarcastica risposta ad un precedente Compatible Timesharing System; anche qui però -scusate se insisto- vi rimando a Hackers di Levy per un eccezionale racconto delle sue origini). L’Incompatible Timesharing System era sostanzialmente unico del MIT, l’istituzione che lo aveva sviluppato. E aveva un elemento di estrema originalità: in uno stravagante (ma qualcuno lo chiamerebbe folle) tributo alla tradizione degli hacker di totale apertura e trasparenza, non aveva password; anzi, non aveva nessun tipo di sicurezza. Proprio chiunque poteva loggarsi e fare ciò che voleva. Questo creò una specie di community di coloro che gli hacker del MIT chiamavano “gente a caso dalla rete”: persone che non avevano niente a che fare con il MIT, ma che godevano, da qualche parte, di un accesso a un computer connesso ad ARPANET e che si fermavano per rovistare nel sistema, solo per vedere cosa stessero facendo quei folli hacker del MIT. La macchina del Dynamic Modeling Group aveva raccolto intorno a sé una community considerevole di gente a caso, grazie a un precedente gioco di quiz. Non ci volle molto prima che scoprissero Zork (anche se non era mai stato annunciato ufficialmente) e che si imbarcassero nell’avventura. Ben presto questo gioco in sviluppo si guadagnò una certa reputazione su ARPANET. Proprio a vantaggio di questa community di giocatori, gli sviluppatori iniziarono a collocare una copia dell’U.S. News and Dungeon Report in una delle prime stanze, che elencava tutti gli ultimi cambiamenti e le ultime aggiunte a questo mondo virtuale che la gente stava esplorando. La gente a caso dalla rete, insieme ad altri utenti più “legittimati” di base al MIT (fra cui anche John McCarthy, il padre dell’intelligenza artificiale), servirono da team allargato di beta-test; gli implementatori potevano vedere quello che queste persone provavano a fare, per non dire ciò di cui si lamentavano, e modificavano il gioco di conseguenza. In particolare, molti dei miglioramenti al parser furono senza dubbio incentivati da questo processo; chiunque abbia mai sottoposto una propria avventura testuale a un beta-test, sa bene che non si può semplicemente prevedere a priori gli infiniti modi in cui le persone proveranno a esprimere certe cose.  
 
La crescente popolarità di Zork sollevò delle inevitabili preoccupazioni sull’eccessivo carico generato da questi giocatori sul sistema PDP-10 del Dynamic Modeling Group, che a conti fatti era finanziato dal Dipartimento della Difesa e che quindi -teoricamente- sarebbe dovuto servire per vincere la Guerra Fredda. Al tempo stesso c’erano altri che chiedevano una copia del gioco, per poterla installare sulle proprie macchine. Anche se sviluppato e utilizzato principalmente sotto l’Incompatible Timesharing System, esisteva però una versione dell’ambiente MDL che girava su un altro sistema operativo per PDP-10, il TOPS-20, pubblicato dalla DEC per la prima volta nel 1976 e pubblicizzato come una versione più avanzata e user-friendly del TOPS-10. A differenza dell’Incompatible Timesharing System, il TOPS-20 era assai diffuso al di fuori del MIT. Gli hacker del Dynamic Modeling Group modificarono quindi Zork quanto bastava per farlo girare sul TOPS-20 e iniziarono a distribuirlo a tutti gli amministratori che gliene chiedevano una copia. Alla fine dell’anno tutte le macchine della nazione ospitavano Zork ed era stata perfino predisposta una "mailing list" per informare i vari amministratori delle espansioni e dei miglioramenti che venivano apportati.
 
Gli hacker del Dynamic Modeling Group erano generosi, ma non quanto lo era stato Don Woods con Adventure. Distribuirono Zork solo come file criptati, che erano eseguibili in un ambiente MDL ma che non erano leggibili (né modificabili) a livello di codice sorgente. Arrivarono perfino a modificare il proprio sistema di sviluppo Incompatible Timesharing System, celebre per la sua mancanza di sicurezza, aggiungendo una protezione esclusivamente alla cartella che conteneva il codice sorgente di Zork. Tuttavia gli hacker non si smentiscono mai e ben presto uno della DEC aveva già penetrato il velo. Dalla “History of Zork” della Infocom:
 
[La sicurezza] fu infine battuta da un hacker del sistema della Digital: usando un’arcaica (non che ne sia mai esistita una diversa) documentazione dell’Incompatible Timesharing System, riuscì a capire come modificare il sistema operativo. Sapendo il fatto suo, riuscì anche a capire come funzionava la nostra modifica per proteggere la cartella del codice sorgente. A quel punto era solo questione di decriptare i sorgenti, il che ben presto si ridusse a intuire la chiave che avevamo usato. Ted non ebbe difficoltà a procurarsi il tempo che gli serviva sulla macchina: aveva appena trovato una macchina TOPS-20 che era sottoposta agli ultimi test e vi avviò un programma che tentava ogni chiave finché una non gli restituì qualcosa che aveva le sembianze di un testo. Dopo meno di un giorno di lavoro, aveva una copia leggibile del sorgente. Dovemmo ammettere che, chiunque si fosse preso la briga di fare tutto ciò, di certo se lo meritava... Tutto questo produsse altre conseguenze in seguito.
 
Riguardo a queste “altre conseguenze”:
 
Ad un certo punto, alla fine del 1977, gli hacker del Dynamic Modeling Group decisero che la loro creazione aveva davvero, davvero bisogno di un nome vero e proprio.  Lebling suggerì Dungeon, che non emozionò nessuno (Lebling incluso), ma a nessuno veniva in mente un’alternativa migliore. E così si optò per Dungeon. Ciò avvenne poco prima della breccia nella sicurezza appena descritta; per questo il gioco recuperato da quell’hacker della DEC non si chiamava Zork, bensì Dungeon. Poco dopo, al MIT giunsero voci di possibili azioni legali da parte (provate a indovinare) della TSR, il publisher di Dungeons and Dragons e di un gioco da tavolo di esplorazione di dungeon chiamato semplicemente Dungeon! La TSR era sempre particolarmente zelante nel querelare e gli avvocati del MIT, consultati dagli hacker del Dynamic Modeling Group, erano unanimemente concordi nel ritenere che la TSR non avesse nessun appiglio legale a cui aggrapparsi. Tuttavia, piuttosto che venir risucchiati in una controversia su un nome che oltretutto non piaceva a nessuno, decisero di ritornare al ben più memorabile Zork. E così, all’inizio del 1978, Dungeon tornò di nuovo a essere Zork, per poi mantenere quel nome per sempre.
 
Quasi per sempre. Vi ricordate quel codice sorgente che “Ted” aveva sottratto al MIT? Ebbene, arrivò nelle mani di un altro hacker del DEC, un certo Robert Supnik, che convertì il tutto per FORTRAN, più diffuso e portabile (seppur intrinsecamente e infinitamente meno adatto alle avventure testuali); fu uno sforzo erculeo che stupì perfino gli hacker del Dynamic Modeling Group. Poiché il gioco contenuto nel codice sorgente in MDL a cui aveva accesso si chiamava Dungeon, questa nuova versione rimase Dungeon. Inizialmente Supnik eseguì il porting con l'intenzione di portare Dungeon a girare su un DEC PDP-11 (che, a discapito di quanto sembra indicare il nome, non era un successore del PDP-10, ma piuttosto una macchina fisicamente più piccola, meno potente, e meno costosa). Con il codice sorgente in FORTRAN di Supnik libero di essere distribuito, tuttavia, il salto dal PDP-11 ad altre architetture fu assai breve. Perciò, in questi primi anni, il Dungeon di Supnik con ogni probabilità era più ampiamente distribuito, e quindi era anche più giocato, dello Zork del Dynamic Modeling Group. E quando arrivarono dei PC in grado di supportarlo, Dungeon sbarcò inevitabilmente anche su questi. E così alla fine degli anni ‘80 la situazione era incomprensibile per chi non conosceva tutta questa storia: c’era questo gioco gratuito, chiamato Dungeon, che era stranamente simile ai giochi commerciali ufficiali di Zork, che a loro volta erano molto simili a quest’altro gioco, Adventure, che all’epoca era disponibile in dozzine di versioni gratuite e commerciali. Ad oggi il Dungeon di Supnik è disponibile insieme al codice sorgente (finalmente libero) della versione per PDP-10 di Zork.
 
Tornando al MIT, lo sviluppo dello Zork vero e proprio continuò per tutto il 1978, seppur a un ritmo decrescente. Se si escludono delle correzioni minori di bug, che sarebbero proseguite per un paio di anni ancora, gli ultimi pezzi di Zork furono aggiunti nel Febbraio del 1979. A quel punto il gioco aveva assunto proporzioni davvero enormi: 191 stanze, 211 oggetti, un vocabolario di 908 parole con 71 verbi diversi (senza considerare i loro sinonimi). Gli implementatori avevano praticamente finito le idee per nuovi enigmi ed erano comprensibilmente esausti per il grande sforzo, e (qualora queste giustificazioni non fossero sufficienti) avevano completamente riempito l'unico MB circa di memoria che un programma MDL poteva utilizzare. E così accantonarono Zork e si spostarono su altri progetti.
 
La storia sarebbe potuta tranquillamente finire lì, con Zork che passa alla storia come un altro esempio, eccezionalmente significativo, di avventura testuale fiorita sulle macchine istituzionali negli anni successivi alla pubblicazione di Adventure; insomma, Zork come fosse un altro Mystery Mansion, Stuga (AGGIORNAMENTO: non proprio; leggete il commento di Jason Dyer [“Se vogliamo essere precisi, Stuga non può essere annoverato nel gruppo degli altri due titoli; fu distribuito commercialmente, e vendette piuttosto bene, e può essere definito lo Zork della Svezia”; ndAncient]), o HAUNT. Però non andò così, grazie ad Al Vezza, il direttore (dall’anima tutt’altro che hacker) del Dynamic Modeling Group, che qualche mese più tardi decise che il momento era giusto per entrare coi suoi collaboratori nella nuova, promettente frontiera dei microcomputer, avviando una software house. Non poteva però certo immaginare dove avrebbe portato questa sua decisione.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Eliza

Forse è superfluo spiegare cos'è Eliza, il programma del 1964, ma andiamo sul sicuro: Eliza fu un simulatore di conversazione sviluppato appunto nel 1964 al MIT da Joseph Weizenbaum. Era un programma molto rozzo, che simulava molto alla buona l'approccio di un terapeuta: faceva domande all'interlocutore usando le parole chiave che venivano fuori durante la conversazione.

Nonostante la sua scarsa intelligenza, Eliza fu ben ricevuto quando venne realizzato: all'epoca molti ebbero la sensazione di parlare con una persona “vera” ed erano convinti che il programma fosse davvero intelligente.

Ebbene, l'Eliza di cui parliamo oggi prende spunto dall'Eliza del 1964 e costruisce una storia sulla salute mentale e sull'uso della tecnologia per risolvere i problemi di oggi. Si tratta di una visual novel, realizzata da Zachtronics, in cui noi interpretiamo Evelyn, nuova assunta alla Skandha.

La Skandha offre il servizio di consulenza psicologica Eliza, così chiamato in nome dell'Eliza originale: è un'IA che ascolta le persone, diagnostica un problema e offre delle soluzioni, fra cui esercizi di meditazione e consigli su quali medicine richiedere al proprio medico.

Evelyn è un Proxy: a differenza di altri programmi di consulenza psicologica, Eliza offre un'interfaccia umana. Il Proxy legge le risposte che il programma consiglia in modo che il servizio possa godere sia della precisione del programma, che del “tocco umano” dato dalla “persona vera” che sta dall'altro lato del tavolo. Può un programma sostituire effettivamente una vera seduta psicologica? È possibile, grazie alla tecnologia, ridurre le sofferenza dell'umanità? Quali sono i rischi in cui è possibile incorrere durante il percorso? Queste sono le principali, ma non le uniche, domande che si pone Eliza.

Partiamo dunque dall'analisi della storia. Attraverso la storia di Evelyn, che deve fare i conti con il suo passato e con i tre anni in cui si è allontanata dal mondo, andremo a esplorare le possibilità di Eliza, il suo futuro, e a conoscere le persone che ci hanno lavorato in passato e quelle che ci lavorano adesso.

La narrazione è molto coinvolgente e i personaggi sono veramente ben resi, tutti quanti: da Evelyn, sulla quale ho un paio di riserve che esprimerò più sotto, ai clienti con cui avrà a che fare, ai colleghi e ai pochi amici che ha. Quello che mi ha colpito di più è forse Soren, personaggio molto fastidioso, ubriacone e totale "creep", che però suscita lo stesso la compassione del giocatore, quando il gioco ci mostra le sue motivazioni.

Le tematiche affrontate sono terribilmente attuali e tutte, ma proprio tutte, sono drammatizzate attraverso i vari personaggi. Eliza mostra la nostra società, nel futuro, sì, ma fondamentalmente è la nostra, ossia una società che tende non solo e non tanto a sostituire l'essere umano con la macchina, quanto a usare la macchina per “pensare” e dedurre al posto dell'essere umano.

Perché la cosa più inquietante dello scenario proposto dal gioco non è tanto la mancanza di contatto umano, quanto la presunta capacità di Eliza di diagnosticare correttamente il problema del “paziente” (fra virgolette perché Eliza, nel gioco, non è ancora riconosciuto come strumento medico e non può prescrivere medicinali, ma, come dice un personaggio, la cosa è destinata a cambiare “se l'FDA continua a stare dalla nostra parte”). E, soprattutto, di saper applicare il rimedio necessario. Tutto questo, senza che ci sia alcun medico nel team che ha creato Eliza e che lo aggiorna costantemente.

Pochi personaggi si pongono quest'ultimo problema e le domande sull'efficacia del programma, che sono in effetti parecchie nel corso del gioco, non vengono quasi mai affrontate in maniera seria e professionale, ossia chiedendo il parere di medici. Si ricorre quasi sempre all'esperienza personale, che come è ben risaputo, non è mai prova sufficiente di alcunché, e alle “idee” che i diversi personaggi hanno della situazione.

L'unico personaggio nel gioco che è effettivamente uno psicologo nutre dubbi sull'efficacia del programma, ma propone lui stesso una soluzione che non è veramente tale, che ricorre anch'essa alla tecnologia come panacea di tutti i mali e che di fatto “sposta” il problema sotto il tappeto invece che risolverlo. Non risulta un personaggio particolarmente autorevole.

Non critico questa scelta dal punto di vista narrativo... ma è curioso come sia involontariamente specchio di una bruttissima abitudine della nostra società, quella appunto di non appoggiare il nostro parere su quello degli esperti del settore, ma di costruire le nostre idee sulle fragilissime basi del sentimento personale. Peccato che anche questo non sia stato tenuto in conto dal gioco.

La cosa furba di Eliza, se non un po' irrealistica, è stata quella di creare dei personaggi, la gran parte se non tutti, dalle buone intenzioni. Quasi nessuno, nel gioco, parte con l'idea “maligna” di sfruttare il malessere e i dati dei “pazienti”, tutti vogliono aiutare i propri simili, o se stessi, o vogliono cavalcare un'onda che, comunque, qualcuno cavalcherà. La dipendenza dalla tecnologia, l'assimilazione dei dati personali da parte delle multinazionali, lo sviluppo di intelligenze artificiali che un giorno ci sostituiranno o ci affiancheranno anche nelle mansioni che ora consideriamo nostro appannaggio, appaiono inevitabili in ogni caso.

Eliza dipinge quindi lo scenario migliore possibile, ossia quello in cui il nostro benessere psicologico è affidato a gente che è seriamente benintenzionata e che adotta tutte le misure necessarie per tenere al sicuro i nostri dati sensibili – e mostra che, nonostante questo, le complicazioni ci sono, sono gravi, e il problema originario è tutto fuorché risolto.

Questo si vede prima di tutto nei pazienti, persone con problemi spesso gravi che, nonostante il disclaimer all'avvio di Eliza che raccomanda di rivolgersi a una vera figura medica in questa situazione, non possono, per soldi, per vergogna, perché non sanno di stare davvero male, andare da un vero medico. Ed è ambigua la posizione degli impiegati della Skandha: quanto vogliono davvero aiutare queste persone? Perché non c'è una feature in Eliza che avvisi della gravità del problema e suggerisca, invece del programma di meditazione incorporato nell'app, di rivolgersi a uno specialista?

Viene quindi mostrata anche la questione etica: cosa fare quando quello che stai programmando può, sì, avere utilizzi positivi, ma può anche essere usato per fare danni, ma grossi danni? È lecito per un programmatore considerarsi solo “l'esecutore” dei comandi dall'alto e non assumersi alcuna responsabilità di quello che sta andando a creare e di come sarà usato? Anche il Proxy, d'altronde, è mero “strumento” del programma, recita le battute che deve recitare, e quanta responsabilità ha quando interagisce con persone che dovrebbero essere in cura?

Come dicevo, la scelta furba è stata quella di creare personaggi ben intenzionati e non macchiette malvagie disposte a tutto pur di fare quel milioncino in più: è stato furbo perché indubbiamente molti di coloro che lavorano dietro programmi controversi sono effettivamente ben intenzionati. Il gioco lascia aperto il giudizio finale, ossia quanto questa gente abbia ragione e quanto invece sia avulsa dalla realtà e dalle logiche normali. Eliza è pieno di piccoli dettagli che, anche se non commentati apertamente, mostrano diverse sfaccettature della problematica scelta come tema, e non posso dire di essere rimasta delusa, anzi.

Veniamo al gameplay. Qui, si poteva fare di meglio. Apparentemente, il sistema è più complesso del solito, per una visual novel. Abbiamo numerose scelte durante i dialoghi e nessuna, invece, nelle sedute con i pazienti: qui possiamo solo dire quello che ci suggerisce Eliza.

Per il primo capitolo (Eliza ne ha 7 in tutto) va anche bene, ma presto ci si accorge che le scelte che facciamo durante i dialoghi sono poco significative. Possiamo decidere di dirci pro o contro certe idee, ma questo non ci preclude la possibilità di scegliere un finale diverso nel capitolo 7; possiamo anche decidere se passare alcuni pomeriggi con questo o quel personaggio o da soli, ma anche questo non porta a nessuna conseguenza specifica. Alla fine del capitolo 7 potremo decidere cosa fare e raggiungeremo uno di 5 finali. Non c'è un finale migliore dell'altro (se non dal punto di vista soggettivo).

Anche per quanto riguarda le sedute come Proxy, avremo la possibilità di andare "off script" solo nell'ultimo capitolo. Fa strano che Evelyn non possa/voglia provare ad andare "off script" prima, specialmente quando si trova davanti a persone che chiaramente hanno bisogno di aiuto e non di sentirsi raccomandare l'app meditativa “Delfini Golosi”. E per giunta sembra anche una stronza, quando dice di farlo “per ricerca”. Quando infine possiamo andare "off script", i rischi per noi sono minimi, e il momento è spogliato dell'impatto che poteva avere.

Capisco anche che l'idea era quella di farci esplorare Eliza e le possibilità offerte ad Evelyn nella loro interezza prima di farci scegliere. Ma ci sarebbero stati modi di ottenere lo stesso risultato con delle scelte che facessero la differenza. Al momento, mi è parso quasi di avere davanti una kinetic novel in alcuni momenti, specialmente nelle sedute con i pazienti, e fa strano che nonostante i comportamenti diversi che possiamo avere, alla fine il mondo aspetti la nostra scelta come se fossimo la principessa sul pisello. Un gameplay più significativo avrebbe reso anche la storia più profonda e avrebbe accentuato l'importanza della scelta presa dalla protagonista.

Chiudiamo, come sempre, con il punto di vista tecnico. Dal lato grafico, Eliza non delude: i disegni sono bellissimi, sia quelli degli sfondi che gli sprite dei personaggi. La colonna sonora non sarà indimenticabile ma ha bei pezzi, adatti alle varie scene e poco intrusivi.

Lamento invece la mancanza di un tasto “passa veloce oltre il testo già letto”. Quando si vuole fare una visual novel che non usi Ren'Py, si dovrebbero quanto meno inserire le opzioni a cui Ren'Py ci ha abituati. È vero che qui possiamo saltellare da un capitolo all'altro e che è possibile skippare intere scene già lette, ma non è la stessa cosa: se io voglio ricominciare il gioco per vedere se facendo determinate scelte dall'inizio cambia qualcosa alla fine, sono comunque costretta a fare una marea di click!

È invece presente un tasto “history” che ci mostra quel che abbiamo letto fino a quel momento, e c'è la funziona "Auto", anche se ha solo due velocità (quindi non è possibile settarla alla velocità super-folle per ovviare alla mancanza del tasto Skip ^^').

Eliza è una buona visual novel, con un comparto narrativo di ottimo livello. Si sarebbero potute migliorare diverse cosucce, ma nel complesso sono soddisfatta di come mostra uno spaccato della nostra società e dell'industria tecnologica attraverso le vicende di un cast di personaggi realistico e abbastanza sfaccettato. Il gameplay invece poteva essere curato di più, o forse meglio: peccato, perché se così fosse stato avrebbe fatto un bel salto di qualità. Nonostante questo, la consiglio a tutti quelli che non odiano le visual novel e sono interessati all'argomento.

Eliza - Parte 3
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

L'eredità più evidente di Eliza sono le schiere di chatterbot analoghi che le hanno fatto seguito e che continuano ad apparire ancora oggi. Ma cosa ha significato Eliza nella storia dell'interactive fiction? O, per dirla diversamente, perché ho sentito il bisogno di andare a ripescarla?

Una prima risposta è totalmente evidente. Quando si gioca a Eliza si entra in un dialogo testuale con un programma. Vi ricorda qualcosa? Confrontando superficialmente una sessione a Eliza con una sessione ad Adventure, si potrebbe quasi dire che entrambi i programmi sono variazioni di un'identica premessa.
Non è proprio così, però: mentre Eliza è "solo" un engine di generazione di testi (senza nessuna comprensione vera della lingua inglese), Adventure e i suoi antecedenti consentono al giocatore di manipolare un mondo virtuale attraverso comandi testuali e quindi non possono cavarsela semplicemente fingendo di comprendere gli input del giocatore (come invece fa Eliza). Tuttavia è quasi certo che Will Crowther conoscesse Eliza quando ha iniziato a lavorare ad Adventure e quindi non è escluso che sia stato influenzato dal modo con cui si interagisce con Eliza. Prima però che mi si accusi di spingere troppo in là l'influenza di Eliza, è bene precisare che è altresì vero che quasi tutte le interazioni uomo/computer dell'epoca avvenivano sotto forma di dialogo testuale; del resto le interfacce a linea di comando erano la regola in quei giorni. A ben guardare, quindi, l'unico vero elemento in comune fra Eliza e Adventure è il linguaggio pseudo-naturale di questa interazione. Da questo punto di vista Eliza rappresenta un importante precursore della vera e propria interactive fiction.

Ma fermarsi qui (come temo di aver fatto io stesso, alcuni anni fa, quando ho scritto la mia piccola storia dell'IF) significherebbe non vedere ciò che rende Eliza un oggetto di analisi così affascinante. Il gran numero di studiosi che sono stati attratti da Eliza, nonostante avessero scarsa consapevolezza (o scarso interesse) del ruolo che essa ricopre nella storia dell'IF, ci indica che deve esserci altro. Possiamo forse intuire cosa sia, se osserviamo come è stata accolta inizialmente Eliza dal pubblico e come l'ha accolta lo stesso Joseph Weizenbaum.

Probabilmente la prima persona a interagire a fondo con Eliza è stata la segretaria di Weizenbaum: "La mia segretaria, che mi aveva osservato lavorare per molti mesi al programma e che quindi sicuramente sapeva che era solo un programma per il computer, iniziò a conversare con Eliza. Dopo solo pochi scambi di battute, mi chiese di uscire dalla stanza."
La sua reazione non era inusuale; Eliza fece grande scalpore al MIT e nelle altre università in cui si diffuse, facendo di Weizenbaum un'inattesa celebrità. La maggior parte delle persone volevano semplicemente parlare con Eliza, per sperimentare personalmente quello che all'epoca era un raro esempio di divertimento alla portata di tutti, in quel mondo dell'informatica della metà degli anni '60 che tendenzialmente era tutto "Affari" (IBM) o "Bizzarro Esoterismo" (gli hacker della DEC).
Ci fu chi invece trattò il programma con una serietà che oggi appare incomprensibile. Si arrivò perfino a suggerire che sarebbe potuto essere utilizzato nella psicoterapia vera e propria. Carl Sagan, che successivamente diverrà famoso per il programma televisivo Cosmo, era un grande sostenitore di questa raggelante idea, che un gruppo di psicologi riuscì perfino a far pubblicare in un vero e proprio articolo scientifico sul The Journal of Nervous and Mental Diseases:

"È necessario altro lavoro ancora, prima che il programma sia pronto per l'uso clinico. Tuttavia se questo metodo si rivelasse efficacie, diventerebbe uno strumento terapeutico che potrebbe essere diffuso in tutti quegli ospedali psichiatrici che soffrono di una carenza di terapisti. Grazie alle capacità di time-sharing dei computer attuali, e di quelli futuri, numerose centinaia di pazienti all'ora potrebbero essere gestiti da un singolo computer progettato per questo scopo. Il terapista umano -coinvolto nella progettazione e nella gestione del sistema- non verrebbe rimpiazzato, ma anzi acquisterebbe moltissima efficienza, perché i suoi sforzi non dovrebbero più essere limitati alla terapia diretta paziente-terapeuta, come è adesso."

La reazione di Weizenbaum a tutto questo è diventata celebre quasi quanto Eliza.
Quando vide le persone impegnarsi in lunghe conversazioni a cuore aperto con Eliza, lui... si spaventò terribilmente! Il fenomeno che Weizenbaum stava osservando fu successivamente ribattezzato da Sherry Turkle come "effetto Eliza", che fu definito come la tendenza a "proiettare i nostri sentimenti su oggetti fisici e a trattare le cose come se fossero persone." Nella scienza informatica e negli ambienti dei nuovi media, l'effetto Eliza è diventato sinonimo della tendenza di un utente a presumere (basandosi sulle sue caratteristiche apparenti) che un programma sia molto più sofisticato e intelligente di quanto non sia in realtà. Weizenbaum giunse alla conclusione che questo fenomeno non solo era inquietante, ma anche pericoloso per il nostro tessuto sociale; si trattava di un fenomeno che minaccia i legami che ci tengono insieme e, potenzialmente, l'intera umanità. Il punto di vista di Weizenbaum, in netto contrasto con quello di persone come Marvin Minsky e John McCarthy dell'Artificial Intelligence Laboratory del MIT, era che l'intelligenza umana (con le sue qualità affettive e intuitive) non sarebbe mai potuta essere duplicata da una macchina - e che quindi chi ci avesse provato l'avrebbe fatto a suo rischio e pericolo.
A distanza di dieci anni dalla creazione di Eliza, Weizenbaum espresse queste idee nella sua opera magna, Computer Power and Human Reason, un'aspra critica contro l'utopismo digitale che in quegli anni dominava gli ambienti dell'informatica. 

In quel testo Weizenbaum ha descritto i suoi studenti al MIT, che ovviamente era un'istituzione incentrata sulla scienza e la tecnologia, affermando che essi "hanno ormai rifiutato ogni modo di interpretare il mondo che non sia quello scientifico, e sono alla ricerca esclusivamente di un indottrinamento sempre più profondo e più dogmatico in tale fede (anche se questa parola non fa più parte dei loro vocabolari)."

Di certo non si deve essere fatto tanti amici fra gli hacker quando li ha descritti con queste parole:

"Vedo dei giovani brillanti dall'aspetto trasandato, spesso con luminosi occhi incavati, seduti ai computer con le braccia tese in attesa di far fuoco con le loro dita, già pronte a colpire quei tasti su cui la loro attenzione è fissa, in modo non dissimile da quella dello scommettitore al tavolo dei dadi. Quando non sono paralizzati in questa posa, siedono spesso intorno a tavoli coperti di stampati, che leggono con somma attenzione, come fossero studenti indemoniati di un qualche testo cabalistico. Lavorano fino allo svenimento: venti, trenta ore consecutive. Il loro cibo, quando si curano di mangiare, gli viene portato: caffè, cola, sandwich. Se possibile dormono su delle brandine accanto agli stampati. I loro abiti sgualciti, i loro volti non lavati e non rasati, e i loro capelli arruffati sono lì a testimoniare che hanno perso il senso del loro corpo e del mondo in cui si muovono."

Anche se Weizenbaum ha affermato di aver basato almeno in parte questa descrizione sulla sua personale esperienza di persona troppo ossessionata dal lavoro, possiamo dedurre che la sua antipatia per gli hackers "hardcore" del MIT esisteva già prima che scrivesse Eliza. Vale poi la pena di notare che Weizenbaum scelse di scrivere Eliza non sull'amato DEC degli hacker, ma piuttosto sul grande mainframe IBM 7094, collocato in un'altra parte del campus del MIT; secondo Steven Levy, Weizenbaum aveva "interagito solo sporadicamente" con il contingente dei hacker "hardcore" del MIT.

Tuttavia, per quanto mi riguarda, condivido in buona parte il punto di vista di Weizenbaum. Avendo osservato con i suoi occhi la sfilata di giovani studenti alle sue lezioni, studenti che potevano recitare a memoria ogni "assembler opcode" del PDP, ma che non avevano alcun rispetto o comprensione per l'estetica, la storia, o la semplice sincera fratellanza di due buoni amici davanti a una bottiglia di vino, Weizenbaum non fa altro che chiedere a gran voce un maggior equilibrio, a favore di un mondo dove coloro che hanno la conoscenza per creare e adoperare la tecnologia, ne abbiano anche l'umanità e la saggezza. È un qualcosa che ci farebbe molto comodo anche oggi, in questo mondo di "amici" su Facebook e di "conversazioni" su Twitter. Mi sento come Weizenbaum ogni volta che capito su Slashdot e incontro le sue migliaia di SLN ("Soulless Little Nerds" - Piccoli Nerd Senza Anima), i cui interessi culturali al di fuori dei videogiochi non vanno oltre Tolkien e i supereroi, e che pensano che la persecuzione da parte di Sony di un hacker della Playstation sia la violazione dei diritti umani del secolo. Probabilmente è proprio per questo che all'università ho scelto di studiare scienze umanistiche invece che informatica: gli studenti di quella facoltà erano semplicemente... molto più simpatici. Il che mi ricorda la descrizione iniziale che Watson fa di Sherlock Holmes, il suo nuovo compagno di stanza, in Uno Studio In Rosso:


Conoscenza della letteratura - Zero.
Conoscenza della filosofia - Zero.
Conoscenza dell'astronomia - Zero.
Conoscenza della politica - Scarsa.
Conoscenza della botanica - Variabile. Sa molte cose sulla belladonna, l'oppio, e i veleni in genere. Non sa niente di giardinaggio.
Conoscenza della geologia - Pratica, ma limitata. Distingue a colpo d'occhio un tipo di terreno da un altro. Rientrando da qualche passeggiata mi ha mostrato delle macchie di fango sui pantaloni e, in base al colore e alla consistenza, mi ha detto in quale parte di Londra se l'era fatte.
Conoscenza della chimica - Profonda.
Conoscenza dell'anatomia - Accurata, ma non sistematica.
Conoscenza della letteratura scandalistica - Immensa. Sembra conoscere ogni particolare di tutti i misfatti più orrendi perpetrati in questo secolo.
Buon violinista.
Esperto schermidore col bastone, pugile, spadaccino.
Ha una buona conoscenza pratica del Diritto britannico.

Non c'è da meravigliarsi che Watson se ne sia andato e che Arthur Conan Doyle abbia iniziato a ritoccare quasi subito la personalità del suo eroe. Chi mai vorrebbe vivere con un tipo così?



A parte questo, io tuttavia credo anche che Weizenbaum (almeno per quel che riguarda la sua forte reazione dinanzi all'effetto Eliza)  stesse trascurando un aspetto assai rilevante. Egli era convinto che il suo programma, pur basato su un "gioco di prestigio", avesse indotto un "potente pensiero allucinatorio ["delusional thinking"] in persone abbastanza normali". Il che è abbastanza assurdo, non vi pare? Davvero la sua segretaria che -come lui stesso aveva osservato- lo "aveva visto lavorare al programma per molti mesi", poteva pensare che Weizenbaum in quei mesi avesse creato tutto da solo una mente pensante? Scommetto che la segretaria fosse perfettamente consapevole che Eliza non fosse altro che una specie di "gioco di prestigio" e che semplicemente fosse disposta ad accettare consapevolmente e di propria volontà la finzione di una sessione di psicoterapia. Non è una scoperta che gli esseri umani sono immanentemente capaci di "credere" contemporaneamente a due cose contraddittorie e che ci sottoponiamo volontariamente a dei mondi immaginari che ben sappiamo essere finti. È esattamente questa la vera natura delle storie, ed è esattamente quello che facciamo ogni volta che leggiamo un racconto, che guardiamo un film, o che giochiamo a un videogame. Non è un caso se le diffusioni dei romanzi e dei film siano state accolte con le medesime preoccupazioni che Weizenbaum ha espresso riguardo a Eliza.

Partendo da qui, ci sono un milione di luoghi filosofici in cui potremmo spingerci con queste premesse, attingendo da McLuhan, da Baudrillard, e da cento altri ancora, ma non è nostra intenzione deviare il corso di questa piccola serie di articoli sulla storia dei videogiochi, dico bene? Concentriamoci quindi su Eliza e andiamo a vedere cosa Sherry Turkle ha scritto in merito alle reazioni degli utenti a questo "racconto" di una seduta di psicoterapia:

Acquisendo esperienza riguardo al funzionamento di Eliza, un utente può dirigere la conversazione in modo da "aiutare" il programma a dare risposte apparentemente pertinenti, oppure in modo da provocare risposte senza senso. Alcuni tentano di tutto per far "impazzire" il programma, per comprenderne la struttura in modo da ingannarla e dimostrare ancora di più che è "solo una macchina". Molti altri fanno l'opposto. Ho parlato con persone che si sono sentite "amareggiate" quando hanno "crackato il codice" perdendo così l'illusione del mistero. Ho visto spesso persone che cercavano di proteggere la propria relazione con Eliza, evitando esplicitamente quelle situazioni che avrebbero fatto generare al programma una risposta prevedibile. Queste persone evitavano di fare domande che sapevano avrebbero "confuso" il programma, che gli avrebbero fatto dire "cose senza senso". E facevano il possibile per porre domande in una forma che, secondo loro, avrebbe generato una risposta realistica. Queste persone volevano mantenere l'illusione che Eliza fosse capace di rispondere loro.

Se quindi diamo per scontato che coloro che interagivano con Eliza lo facevano sospendendo volontariamente la loro incredulità e agendo attivamente per mantenere in piedi la finzione di una sessione di psicoterapia, le implicazioni di ciò sono abbastanza profonde, perché questo significa che a metà degli anni '60 c'erano già delle persone seriamente impegnate in una "narrazione interattiva" digitale. Abbiamo cioè un primo concreto esempio del potenziale e dell'attrattiva del computer come medium di vero e proprio "storytelling", e non solo come strumento per creare storie di pura fantasia. Gli interlocutori di Eliza erano coinvolti in un pezzo di arte narrativa generata da un artista assolutamente umano, Weizenbaum in persona (non che lui si sarebbe mai descritto in questi termini, ovviamente). Cioè proprio ciò che gli scrittori e i lettori di narrativa hanno sempre fatto.
A differenza di ciò che fece Weizenbaum, io però avrei considerato l'accoglienza ricevuta da Eliza non come causa di preoccupazioni, ma come motivo di eccitazione e di grandi aspettative. "Se pensi che Eliza sia emozionante," potremmo dire a quella segretaria, "aspetta solo che arrivi la roba davvero buona e vedrai..."
Cielo, al solo pensarci mi coglie un fremito retroattivo.

Ed è proprio questo fremito che mi ha convinto a parlarvi di Eliza.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Articoli precedenti:
- Sulle tracce di The Oregon Trail
- In difesa del BASIC
- A Caccia del Wumpus
- L'Avventura di Crowther
- TOPS-10 in a Box
- L'Avventura completata
- Tutto il TRaSh del TRS-80
- Eliza

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Eliza - Parte 2
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Per poter comprendere al meglio ciò che Eliza fa e non fa, ho pensato di analizzare nel dettaglio una vera conversazione con il programma.

Quella che segue è una versione solo leggermente modificata della conversazione d'esempio che fu inclusa nel numero di Luglio/Agosto 1977 di Creative Computing, dove fu pubblicata la versione BASIC di Eliza (in particolare ho cambiato il riferimento al IMSAI 8080 con quello al Tandy, per restare fedele al tema attuale di questo blog).
Come potete vedere si tratta di un esempio molto meno riuscito della famosa trascrizione di cui vi ho parlato nel mio precedente post, in parte per la nota inferiorità di questa versione di Eliza e in parte per la scelta fatta da Creative Computing di interagire col software nel modo in cui un utente ci interagirebbe tipicamente: cercando di farsi beffe del programma e giocando con la relazione psicologo/paziente. Da questo punto di vista, questa trascrizione mi sembra una raffigurazione più onesta delle vere capacità e dei veri limiti di Eliza, oltre a rappresentare meglio quella che con ogni probabilità è l'esperienza media di un utente.

Al cuore del programma c'è una routine che cerca delle specifiche sequenze di testo all'interno di ogni input immesso dall'utente.

Queste sequenze di testo sono, in ordine di priorità:

1. "CAN YOU”
2. "CAN I”
3. "YOU ARE”
4. "YOU’RE”
5. "I DON’T”
6. "I FEEL”
7. "WHY DON’T YOU”
8. "WHY CAN’T I”
9. "ARE YOU”
10. "I CAN’T”
11. "I AM”
12. "I’M ”
13. "YOU ”
14. "I WANT”
15. "WHAT”
16. "HOW”
17. "WHO”
18. "WHERE”
19. "WHEN”
20. "WHY”
21. "NAME”
22. "CAUSE”
23. "SORRY”
24. "DREAM”
25. "HELLO”
26. "HI ”
27. "MAYBE”
28. ” NO”
29. "YOUR”
30. "ALWAYS”
31. "THINK”
32. "ALIKE”
33. "YES”
34. "FRIEND”
35. "COMPUTER”

[Ho ritenuto fuorviante tradurre i termini di cui sopra; il senso generale è comunque chiaro e verranno comunque tradotti nel seguito di questo post. NdTraduttore]

Non appena il programma trova una di queste sequenze, essa viene considerata la sequenza chiave di tutto ciò che ha scritto l'utente e il programma non fa ulteriori ricerche.
In altre parole, l'input "COMPUTER" può essere preso come sequenza chiave solo se il testo inserito dall'utente non contiene nessuna delle 34 precedenti sequenze.

RUN
CIAO! SOLO ELIZA. QUALE È IL TUO PROBLMEA?
? SONO UN IBM 370
SEI VENUTO DA ME PERCHE' SEI UN IBM 370

Quando Eliza trova una sequenza chiave, risponde con una sua specifica sequenza.
In questo caso il programma si è agganciato alla sequenza "I AM" presente nel testo inserito dall'utente. In ragione di ciò, il programma ha scartato automaticamente tutto il resto del testo fino a quel punto, prendendo solo "UN IBM 370".
A questo punto cerca uno schema di risposta appropriato, che in questo caso è: "SEI VENUTO DA ME PERCHE' SEI...", a cui fa seguire il resto del testo inserito dall'utente.
(Ah, solo per essere sicuri che tutti capiscano l'ironia di questa trascrizione: un IBM 370 era un mainframe di quell'epoca, estremamente grande e potente; è per questo che si rivolge più volte con aria di superiorità al piccolo microcompuer di Radio Shack)

? SI', VOGLIO UNA NUOVA STAMPANTE PARALLELA
COSA SIGNIFICHEREBBE PER TE AVERE UNA NUOVA STAMPANTE PARALLELA

Stavolta ci sono due possibili riscontri: "YES" e "I WANT".
Tuttavia "I WANT" ha una priorità più alta e quindi Eliza scarta tutto il testo fino a quel punto, che per l'appunto contiene anche "YES".
La risposta standard a "I WANT" è "COSA SIGNIFICHEREBBE PER TE AVERE...", seguito dal resto dell'input.

? CIRCA 1.800 LINEE AL MINUTO
DIMMI, HAI DEI PROBLEMI PSICOLOGICI?

Qui non abbiamo dato a Eliza niente a cui agganciarsi; nessuna sequenza rientra nel suo elenco. Per questo il programma utilizza una risposta generica, pensata proprio per situzioni del genere.

? CHE NE VUOI SAPERE TE, IO SONO UN 370 E TU SEI UN TANDY
COSA TI FA PENSARE CHE IO SIA UN TANDY

Questa volta ci sono più corrispondenze, ma la priorità più alta ce l'ha "TU SEI", e così Eliza scarta tutto fino a quel punto e incolla ciò che resta della frase alla risposta appropriata ("COSA TI FA PENSARE CHE IO SIA...")

? C'È SCRITTO SUL TUO PANNELLO FRONTALE
PERCHE' TI PREOCCUPI DEL MIO PANNELLO FRONTALE

Chiave: "TUO"
Risultato: "PERCHE' TI PREOCCUPI DEL MIO..." + "PANNELLO FRONTALE"

? BEH, SEI TU CHE HAI SOLLEVATO L'ARGOMENTO
STAVAMO PARLANDO DI TE, NON DI ME.

Non tutte le risposte previste contengono una parte del testo inserito dall'utente. In questo caso la parola chiave "TU" produce sempre la risposta "STAVAMO PARLANDO DI TE, NON DI ME."

? COME DICE LA CANZONE: I'M FIXING A HOLE... IO STO RISOLVENDO UN PROBLEMA.
SEI VENUTO QUI PERCHE' STAI RISOLVENDO UN PROBLEMA...

La sequenza chiave stavolta è "IO STO" [indistintamente "I'M" o "I AM" in Inglese ndTraduttore]. 

? MI DISPIACE, È UN BUG VECCHIO DI DIECI ANNI
NON DEVI SCUSARTI

Parola chiave: "MI DISPIACE"
Risultato: "NON DEVI SCUSARTI"
(Oltre che un'ovvia citazione dei Beatles, immagino che questa sia una battuta che abbia a che fare con l'IBM 370. Se qualche lettore sa di cosa si tratta, è pregato di rivelarcelo)

? IO SONO SEMPRE IN DIFETTO
DA QUANTO TEMPO SEI SEMPRE IN DIFETTO

Ancora una volta la seguenza chiave è "IO SONO".
Notate però che la risposta questa volta non è la stessa. Per la maggior parte delle sequenze chiave, Eliza ha a disposizione una gamma di risposte, fra le quale ne seleziona una a rotazione, nella speranza di nascondere almeno in parte la natura automatizzata dell'intero processo. Nel caso di "I AM", ci sono quattro possibili risposte diverse (e, a causa di un'idiosicrasia nel codice, i sinonimi come "I AM" e "I'M" hanno ognuno un proprio ciclo separato di risposte, seppur entrami attingano dalla stessa lista).

? DALLA MIA PRIMA ACCENSIONE A FREDDO
E QUESTO COSA TI FA PENSARE?

Ancora una volta non abbiamo dato a Eliza niente a cui aggrapparsi e quindi il programma ha scelto la seconda delle sette possibili "risposte evasive" a sua disposizione.

? SEI TU LO STRIZZACERVELLI
TI FA PIACERE CREDERE CHE IO SIA UNO STRIZZACERVELLI

Il nostro secondo uso di "YOU'RE" ha prodotto la seconda delle quattro possibili risposte a quella specifica sequenza.

? MA COME, TU NON LO SAI?
OH, NON LO SO?

Qui il nostro secondo uso di "TU" produce la seconda delle tre possibili risposte a quella sequenza.

? INIZIO A FARMI DELLE DOMANDE SU DI TE
CREDI CHE SIA NORMALE INIZIARE A FARSI DELLE DOMANDE SU DI IO

Qui abbiamo il primo vero errore di Eliza, che è anche un errore molto significativo. Eliza trova il nostro terzo uso di "I AM" e quindi ricorre alla sua terza risposta: "CREDI CHE SIA NORMALE..."
Da quello che abbiamo visto fin qui, ci saremmo dovuti aspettare che la risposta fosse stata: "CREDI CHE SIA NORMALE INIZIARE A FARSI DELLE DOMANDE SU DI TE"; che sarebbe evidentemente una risposta completamente sbagliata. Proprio per evitare queste situazioni, Eliza tenta sempre di modificare i frammenti del testo inserito dall'utente prima di riutilizzarli, cambiando la prima persona singolare in seconda persona singolare (e viceversa), e cercando di coniugare di conseguenza i verbi (seppur in modo molto semplicistico).
Per essere più precisi, Eliza esegue sistematicamente le seguenti sostituzioni:
 
" AM " <--> " ARE "
"WAS " <--> "WERE "
" I " <--> " YOU "
" MY " <--> " YOUR "
" I’VE " <--> " YOU’VE "
" I’M " <--> " YOU’RE "

Eliza è dall'inizio della trascrizione che esamina sistematicamente il testo alla ricerca di queste sequenze da modificare, ma fin qui non ne aveva trovate.
Adesso che lo ha fatto, però, ha sbagliato malamente, perché in inglese il pronome della seconda persona singolare è lo stesso sia al nominativo che all'accusativo, mentre il pronome della prima persona singolare è diverso. Poiché Eliza non ha alcuna comprensione di tipo strutturale della lingua inglese, tutto ciò che può fare è sostituire delle sequenze di caratteri con altre sequenze di caratteri, e quindi in questo caso sostituisce erroneamente "YOU" con "I", invece che con "ME".
[la frase inglese originale infatti è:
? I AM BEGINNING TO WONDER ABOUT YOU
DO YOU BELIEVE IT IS NORMAL TO BE BEGINNING TO WONDER ABOUT I

NdTraduttore]

? AH AH AH TU NON SAI NEMMENO PARLARE
NON STARAI PARLANDO DI ME, VERO?

Chiave: "TU"
Risultato: "NON STARAI PARLANDO DI ME, VERO?" (risposta 3 di 3)

? CHI ALTRO C'E' NELLA STANZA
CAPISCO

Chiave: Nessuna
Risultato: Risposta evasiva 3 di 7.

? I COMPUTER NON HANNO OCCHI
SICURO?

Qui abbiamo un altro "fallimento", che però per puro caso stavolta produce un testo coerente con il dialogo. Eliza infatti ha preso come chiave la seguenza "YES" (che accidentalmente è una parte della parola "EYES") e ha utilizzato la prima delle sue tre risposte a disposizione per quella sequenza. Considerando le tante risposte illogiche che avrebbe potuto dare, questa volta a Eliza è andata piuttosto bene suo malgrado.
[La frase inglese originale è:
? COMPUTERS DON'T HAVE EYES
ARE YOU SURE?
ndTraduttore]

? DEI COMPUTER?
I COMPUTER TI PREOCCUPANO?

Chiave: "COMPUTER"
Risultato: "I COMPUTER TI PREOCCUPANO?" (risposta 1 di 7)

? DOVREBBERO? IN FIN DEI CONTI IO SONO UN 370
TI PIACE ESSERE UN 370

Chiave: "I AM"
Risultato: "TI PIACE ESSERE" + "UN 370" (risposta 4 di 4)

... e così via.
Sono certo che ormai avete capito come funziona. Avendo ormai pestato l'acqua nel mortaio più che a sufficienza, la prossima volta tirerò le conclusioni, parlando di ciò che  Eliza significa per me, per Joseph Weizenbaum, e forse anche per voi.

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Eliza - Parte 1
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Nel 1965 un professore del MIT, Joseph Weizenbaum, creò un simulatore computerizzato di conversazione, chiamato ELIZA. La trascrizione più famosa di una conversazione con ELIZA fu pubblicata poco dopo in un articolo che Weizenbaum scrisse per il volume di Gennaio 1966 delle Communications of the ACM [la rivista della Association for Computing Machinery; ndTraduttore]. La trascrizione registra una conversazione avvenuta fra il programma e una giovane donna.

Le riposte date del programma sono in maiuscolo.

    Gli uomini sono tutti uguali.
    IN CHE SENSO
    Rompono sempre le scatole, per un verso o per un altro.
    FAI UN ESEMPIO SPECIFICO
    Beh, è stato il mio ragazzo a farmi venire qui.
    IL TUO FIDANZATO TI HA FATTA VENIRE QUI
    Dice che sono sempre depressa.
    MI DISPIACE SENTIRTI DIRE CHE SEI DEPRESSA
    Ma è così. Sono infelice.
    PENSI CHE ESSERE VENUTA QUI TI AIUTERA' A NON ESSERE INFELICE
    Sicuramente mi serve un aiuto.
    E COSA SIGNIFICA PER TE RICEVERE UN AIUTO
    Forse potrei imparare ad andare d'accordo con mia madre.
    DIMMI DI PIU' DELLA TUA FAMIGLIA
    Mia madre si prende cura di me.
    CHI ALTRO NELLA TUA FAMIGLIA SI PRENDE CURA DI TE
    Mio padre.
    TUO PADRE
    In un certo senso ti rassomiglia.
    CHE SOMIGLIANZE VEDI
    Non sei aggressiva, ma credo anche che tu non voglia che io me ne accorga.
    COSA TI FA PENSARE CHE IO NON SIA MOLTO AGGRESSIVA
    Tu non litighi con me.
    PERCHE' PENSI CHE IO NON LITIGHI CON TE
    Tu hai paura di me.
    TI FA PIACERE CREDERE CHE IO ABBIA PAURA DI TE
    Mio padre ha paura di tutti.
    CHE ALTRO TI VIENE A MENTE QUANDO PENSI A TUO PADRE
    I prepotenti.
    E COSA HA A CHE FARE CON IL FATTO CHE IL TUO RAGAZZO TI HA MANDATA QUI

Di solito si dà per scontato che "Eliza" sia semplicemente il nome di una psicoterapeuta con cui il "paziente" umano conversa, ma non è così. ELIZA in realtà è un sistema di conversazione generalista ideato da Weizenbaum, il cui nome è una citazione di un personaggio della classe operaia tratto dall'opera Pigmalione di George Bernard Shaw. Nell'opera questo personaggio impara a parlare con la dizione tipica delle classi alte, a discapito delle sue umili origini. La metafora consiste nel fatto che -grazie al software ELIZA- il computer è passato dalla dizione inflessibile tipica dei linguaggi di programmazione al linguaggio naturale parlato tutti i giorni.
ELIZA supporta "copioni" diversi, ognuno dei quali rappresenta un diverso personaggio. Il primo "copione" a essere stato sviluppato (nonché quello che ha generato la trascrizione di cui sopra e quello che tutti ci ricordiamo ancora oggi) era chiamato semplicemente "Dottore".

Joseph Weizenbaum

Nel film Rebel at Work, Weizenbaum descrive come arrivò a fare questa brillante scelta:

"E poi, di colpo, mi venne l'idea: lo psichiatra. Lo psichiatra infatti pone domande sulla base di ciò che dice il paziente. Possono anche essere domande parzialmente o totalmente irrilevanti, ma il paziente le interpreterà comunque sulla base della propria cornice mentale. Il paziente presuppone che lo psichiatra sappia qualcosa, che lui lo capisca, che ci sia sempre e comunque un qualche senso recondito nelle sue parole. 'Ancora non so cosa sia, ma di certo non sono parole prive di senso'. Ecco come è iniziato tutto - poi arrivò ELIZA.

'Beh," dice lo psichiatra, 'forse... Questo invece cosa ti ricorda?
'Mhm, molto arguto!' pensa il paziente. 'Questo psichiatra capisce davvero ciò che provo. Continuerò a venire alle sue sedute.'"



Come lo stesso Weizenbaum ha avuto cura di specificare nel suo articolo, ELIZA non comprende un bel niente, da nessun punto di vista, di ciò che dice il suo interlocutore. È semplicemente un elaborato motore di generazione di testo, che va alla ricerca di schemi fra le parole che l'utente ha inserito, per poi utilizzarli come aggangi da manipolare e ricombinare in una risposta sensata. L'idea geniale del "copione del Dottore" è che questo è esattamente ciò che fa uno psicoterapeuta durante una sessione (almeno dal punto di vista dell'uomo comune).
Weizenbaum preparò anche qualche altro copione, ad esempio quello dello schizzofrenico paranoico (tanto per restare in tema di sanità mentale...), ma questi non avevano la stessa magia e oggi sono in buona parte dimenticati.
AGGIORNAMENTO: A dire il vero, come Nick ci ha fatto notare nei commenti sul blog, non abbiamo nessuna prova che Weisenbaum abbia scritto altri copioni oltre a quello del "Dottore".

Anche limitandoci al "Dottore", la famosa trascrizione che ho riportato è in realtà una specie di scenario ottimale. Weizenbaum, che di solito ha un atteggiamento piuttosto misurato quando si tratta di queste cose, ha distorto un po' la verità nel definirla una "conversazione tipica". In ogni sessione di una certa lunghezza  arriva infatti inevitabilmente un momento in cui il programma dice qualcosa che ci rivela con chiarezza che in realtà si tratta solo di un elaborato trucco di prestigio. Questi fallimenti di ELIZA sono frequenti almeno quanto le numerose risposte appropriate che vengono riportate nella trascrizione di cui sopra.  

Weizenbaum ha programmato ELIZA in Lisp, un linguaggio di programmazione sviluppato al MIT per applicazioni di intelligenza artificiale e di elaborazione del linguaggio naturale.
AGGIORNAMENTO: In realtà il linguaggio di programmazione si chiamava MAD-SLIP, ideato in origine all'Università del Michigan. Al riguardo vi invito a leggere i commenti di Nick nel blog.
Tuttavia il suo dettagliato articolo per la Association for Computing Machinery svolse la stessa funzione che dieci anni dopo ebbe il codice sorgente di Adventure meticolosamente commentato da Don Woods, rendendo la conversione di ELIZA per altre piattaforme e altri linguaggi un compito relativamente semplice.
Nel frattempo l'idea originale di Weizenbaum di creare un engine per conversazioni generalistiche fu dimenticata, e "il sistema ELIZA" divenne "Eliza, la psicoteraputa". Creative Computing pubblicò una versione in BASIC convertita da Jeff Shrager e Steve North nel numero di Luglio/agosto 1977. North ci riferisce che: "Anche se il programma è una imitazione di qualità inferiore all'originale, funziona." Le sue limitazioni, rispetto all'originale di Weizenbaum, derivano dal fatto di essere scritto in BASIC e dalla necessità di farlo funzionare con soli 16 K di RAM. Nonostante questo resta comunque un risultato impressionante, che per tutto il decennio successivo si è rivelato un trampolino di lancio per un numero infinito di seguiti e di altri titoli derivativi.
È come se, negli anni '70 e '80, uno non potesse possedere un microcomputer senza avere una qualche variante di Eliza da qualche parte nella sua raccolta di software.

Se volete provare questa versione di Eliza su un TRS-80 virtuale, potete farlo usando l'emulatore SDLTRS e questo file di stato.

1. Assicuratevi che il file della ROM Level 2 e il NewDOS boot disk siano nella root directory dell'emulatore e che il file di stato sia in una cartella a voi nota.
2. Avviate l'emulatore.
3. Mettete il blocco alle maiuscole.
4. Premente ALT-L per caricare il file di stato.
5. Navigate fino alla cartella con il file di stato e caricatelo.

Vi ritroverete al prompt READY del BASIC, da cui potrete fare il LIST del programma, da cui lo potrete editare, oppure lanciare con RUN. (Ebbene sì, è molto, molto lento. Ma del resto così era la vita quando si doveva fare un sacco di "string processing" in BASIC su una macchina a 1,78 MHz...)
Digitate "SHUT" al prompt per chiudere il programma e ricordate: dovete avere il blocco maiuscole perché vi "comprenda".

Per finire, per coloro che sanno di cosa sto parlando, ho preparato anche il file "tokenized" di Eliza per il BASIC del TRS-80.

Quindi, avendovi parlato di ciò che è ELIZA, ora possiamo occuparci delle domande più interessanti: come funziona e cosa ha significato - e perché mi sono sentito in dovere di tornare così indietro nel tempo per parlarvene.

Postscriptum (17 Giugno 2011):
Sono rimasto deluso dall'emulatore SDLTRS e da qui in poi ho deciso di usare quello incluso nel progetto MESS. Questo è un file di stato da usare con quell'emulatore. Leggete il mio recente post su come emulare il TRS-80 per maggiori informazioni su come far funzionare un TRS-80 virtuale sotto il MESS.

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Sulle Tracce di The Oregon Trail - Parte 1
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

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Vi lasciamo quindi alla lettura del primo ciclo di cinque articoli, che pubblicheremo a scadenza settimanale, dedicato alla rivalutazione storica di The Oregon Trail.

Di recente ho preso una copia di 1001 Videogiochi Da Non Perdere. Come libro non è un granché, per una serie di motivi abbastanza interessanti che spero di poter approfondire quanto prima in un post dedicato. Ora però voglio parlarvi di The Oregon Trail, il primo titolo di cui si occupa quel libro, perché il capitolo che gli è dedicato mi ha fatto sprofondare in un mare di pensieri dal quale sono appena riemerso con nuove idee sulla storia della narrativa interattiva.

Se anche voi avete una certa età e una certa nazionalità (come le mie), quasi certamente conoscerete già The Oregon Trail. Dagli inizi degli anni'80 fino ai '90 inoltrati praticamente ogni scuola pubblica d'America aveva in un cantuccio qualche Apple II e sicuramente su quegli Apple II girava questo piccolo titolo didattico, che calava il giocatore nei panni di un aspirante colono in partenza per un lungo viaggio dal Missouri all'Oregon (lungo la cosìdetta Pista dell'Oregon). Quelle prime versioni del gioco erano prevalentemente testuali, seppur vivacizzate da un sacco di grafica colorata che le rendevano sufficientemente attraenti da fargli conquistare il favore degli studenti di allora, tanto da essere ricordate ancora oggi con nostalgia da milioni di persone. Non deve sorprendere, quindi, se ho appena scoperto che esiste perfino una app di Facebook dedicata al gioco (a cui hanno fatto seguito anche le versioni iOS e Android).

Ciò che invece spesso si ignora è che The Oregon Trail, quando arrivò per la prima volta sull'Apple II, era già un gioco molto datato. Non a caso è il primo titolo in ordine cronologico dei 1001 Videogiochi (anche se la sua corretta datazione in quel libro è di per sé abbastanza sorprendente, considerato quante altre date sono sbagliate; ma ho promesso di non lagnarmi, almeno per il momento...). The Oregon Trail infatti è stato scritto per la prima volta nel 1971 da tre insegnanti del Carleton College, un piccolo istituto d'arti liberali del Northfield (Minnesota). Don Rawitsch, Bill Heinemann (che non deve però essere confuso con il “Burger Bill” Heineman che, fra tanti giochi, lavorò anche alla serie di The Bard’s Tale) e Paul Dillenberger lo programmarono in BASIC su un minicomputer della serie HP-2100.

Nella mia storia dell'IF ho citato due titoli come i predecessori più significativi di Adventure (1976-77), vera pietra miliare del genere: Eliza di Joseph Weizenbaum (1966), che per primo ha posto le basi del sistema d'interazione tipico dell'IF (seppur all'interno di un elaborato "gioco di prestigio", invece che di un gioco vero e proprio) e Hunt the Wumpus di Gregory Yob, un gioco semplice in cui il giocatore si sposta di stanza in stanza all'interno di un labirinto, nel tentativo di evitare e infine di uccidere quel Wumpus che dà il titolo al gioco.
The Oregon Trail mi fa pensare che debba esserci un terzo titolo in quella lista.

Consideriamo lo stato in cui versava la narrativa interattiva (in senso lato) nel 1971. Anche se c'erano già stati esperimenti di narrazione interattiva del genere "mystery", ne erano ben pochi gli esempi in circolazione.
Edward Packard aveva già tentato di farsi pubblicare i primi libri di quella che sarebbe poi diventata la collana "Choose Your Own Adventure" (quelli che in Italia saranno conosciuti come "librogame" ndTraduttore), ma era stato rifiutato da tutti gli editori a cui si era rivolto e avrebbe dovuto aspettare ancora molti anni prima di vedere la sua idea stampata su carta.
Un gruppo di trasandati wargamer del Wisconsin stavano già giocando con quel sistema che un giorno sarebbe divenuto Dungeons and Dragons, ma anche in questo caso erano ancora ben lontani dalla sua reale pubblicazione. Indubbiamente i wargame e gli altri giochi simulativi avevano una componente empirica che implicitamente spingeva i giocatori a immaginarsi nella propria testa gli eventi che stavano simulando, ma tali eventi venivano ancora inquadrati dal punto di vista di un dio nel cielo e non da quello di un personaggio immerso nel mondo di gioco.
Nel mondo dei computer i ricercatori nel campo dell'intelligenza artificiale erano al lavoro sulla narrativa generata dal computer, ma non si trattava ancora di vera e propria narrativa interattiva, quanto piuttosto di storie autosufficienti, generate in anticipo dal computer sulla base dei dati immessi dall'utente, per poi essere riprodotte a vantaggio degli spettatori.

The Oregon Trail invece si apre dicendoci che: "La tua famiglia, composta da cinque persone, coprirà le 2.040 miglia del Cammino dell'Oregon in 5-6 mesi - se arriverete vivi. Avete messo da parte 900 dollari per il viaggio e ne avete appena spesi 200 per il carro". Ci immerge immediatamente in un'ambientazione con una propria storia e ci invita ad assumere un ruolo e a decidere cosa accadrà dopo. Era mai esistito prima di allora un programma che volesse così esplicitamente scrivere una storia CON noi (invece che PER noi)?
Se è esistito, io non ne sono a conoscenza.

Mi sono così imbarcato in una missione donchisciottesca, volta a sperimentare in prima persona The Oregon Trail nella forma il più simile possibile a quella originale. Ma di questo vi dirò di più la prossima volta.

Sulle tracce di The Oregon Trail:
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Parte 1
- Parte 2
- Parte 3
- Parte 4
- Parte 5

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