Lo Zork Users Group
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Bentrovati amici dell'Avventura! Dopo una lunga attesa, torniamo nei meandri cavernosi di Infocom e di Zork per leggere la storia della nascita dei leggendari InvisiClues, ad opera di quell'irriducibile manipolo di nerd dello Zorks Users Group, guidati dal solito Mike Dornbrook. 
In un'epoca in cui le avventure testuali erano crudelmente sleali, al limite della violazione dei diritti umani (e i primi due Zork non rappresentavano certo un'eccezione), gli avventurieri avrebbero pagato montagne di zorkmid sonanti per poter sbirciare in rete le soluzioni agli enigmi più ostici, e sfuggire così all'insonnia. Peccato che il World Wide Web non esistesse ancora nel 1982! Fu così che i geniali (e costosi) InvisiClues divennero l'ultima speranza per gli insonni giocatori di Zork... e un affare notevole per lo Zork Users Group e la rampante Infocom.
 
 Non vi servirà alcun evidenziatore speciale per godere della lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura e ... occhio agli indizi invisibili!
 
Festuceto
 

 
In un post precedente ho scritto di come lo Zork Users Group fosse stato fondato dopo che Mike Dornbrook aveva lasciato Boston (la patria della Infocom) per seguire un master in “businnes administration” alla University of Chicago, portando con sé quello che in buona sostanza era il reparto di public relation della società. Lo Zork Users Group non era un caso isolato: più o meno in quel periodo stava sbocciando un intero mercato secondario, dedito a prestare aiuto e assistenza ai giocatori dei giochi delle altre società, autentico segno di salute del crescente mercato del software di intrattenimento, pur nel mezzo di una brutta recessione. Lo Zork Users Group era però unico, in virtù della relazione così profonda che aveva con la Infocom. Molti altri publisher vedevano gli attori di questo nascente mercato secondario come poco più che dei parassiti, probabilmente per semplici considerazioni economiche: chi mai vorrebbe vedere altri vendere degli indizi che potrebbe vendere da solo? Altri publisher sembravano invece più inclini a controllare e/o arginare il fenomeno. Per fortuna lo Zork Users Group non doveva avere a che fare con questi publisher.
 
A dire il vero, però, affermare che lo Zork Users Group avesse una relazione privilegiata con la Infocom è poco. Ogni gioco della Infocom usciva con una cartolina che l’acquirente poteva spedire per unirsi allo Zork Users Group. E poi lo Zork Users Group non solo vendeva il proprio  merchandising, ma divenne anche un rivenditore ufficiale degli stessi giochi della Infocom, che commercializzava attraverso i propri cataloghi, insieme a tutta l’altra merce. Ma, per essere sicuri di non tralasciare niente, affrontiamo la storia dello Zork Users Group dagli inizi.
 
Il progetto iniziale di Dornbrook per lo Zork Users Group era di continuare come aveva sempre fatto: spedendo mappe e suggerimenti dal suo nuovo appartamento di Chicago. Tuttavia, senza il suo compagno della prima ora Steve Meretzky e con tutta la pressione del master che stava affrontando, questa si prospettava un’impresa ardua. Però, a cavallo fra il suo trasloco da Boston e l’inizio degli studi a Chicago, Dornbrook trascorse una settimana con la sua famiglia a Milwaukee. Suo padre era appena andato in pensione e, capendo il problema del figlio, gli fece una proposta: si sarebbe occupato lui della gestione degli ordini dallo scantinato della casa di famiglia, lasciando a Mike da Chicago il compito di rispondere alle richieste di aiuti e di concentrarsi su nuovi prodotti. Mike accettò di buon grado e così lo Zork Users Group divenne ufficialmente un’attività con sede a Milwaukee. Anche la mamma di Mike venne coinvolta, in qualità di curatrice della mailing list, che all’epoca consisteva in circa 1.000 nominativi e altrettanti indirizzi cartacei; come era del resto tipico di quei tempi, niente dello Zork Users Group passava per un computer.
 
Una volta stabilitosi a Chicago, Dornbrook incaricò Meretzky di disegnare una mappa di Zork II per venderla accanto a quella di Zork I, e ancora una volta commissionò le illustrazioni al suo amico Dave Ardito. All’inizio del 1982, Meretzky aveva accettato un lavoro ufficiale alla Infocom, in qualità di primo beta tester a tempo pieno. Era perfetto per portare avanti anche l’altro suo lavoretto di cartografo ufficiale dello Zork Users Group: avrebbe saputo tutto della geografia dei giochi prima ancora che venissero pubblicati. Per la mappa di Deadline [di cui, a questo punto del blog, il The Digital Antiquarian ha già trattato in dettaglio, ma che nella nostra traduzione italiana abbiamo momentaneamente saltato, per dare spazio a questo speciale dedicato alla saga di Zork; ndAncient], Meretzky fece ricorso ai suoi studi di edilizia, abbandonando la classica matrice di linee e rettangoli, per mostrare la magione dei Robner attraverso delle planimetrie di stampo architettonico.
 
 
Con la base clienti della Infocom in espansione, affamata, e fedele, lo Zork Users Group iniziò a produrre anche oggettistica di basso livello. Alla fine del 1982, vendevano non solo giochi, mappe e indizi, ma anche poster, T-shirt, adesivi da paraurti, e bottoni. Oltre a spedire i moduli d’acquisto per il proprio merchandising, avviarono una newsletter grossomodo semestrale per aggiornare i fan sugli ultimi avvenimenti del mondo dello Zork Users Group e della Infocom: The New Zork Times. In un post precedente osservavo che gran parte di quello che la gente si ricorda della Infocom era in realtà il frutto del lavoro della sua agenzia pubblicitaria (la G/R Copy). In modo del tutto simile, un’altra gran parte della loro immagine pubblica era stata forgiata non da loro stessi, ma da Dornbrook e dai suoi amici, attraverso l’egida dello Zork Users Group
 
E se lo Zork Users Group stava ampliando i propri orizzonti, gli indizi restavano una spina nel fianco di Dornbrook. E così, mentre gli iscritti allo Zork Users Group aumentavano vistosamente, lui aveva sempre più difficoltà a creare risposte personalizzate nel tempo rimanente dai suoi studi e dalle sue altre attività legate allo Zork Users Group. In più, il compito gli sembrava sempre più monotono, visto che la maggior parte delle domande erano sempre incentrate intorno alla solita manciata di passaggi più ostici. La soluzione più ovvia era quella di preparare un libretto degli indizi standard da vendere, ma l’idea non gli andava a genio, perché temeva che i giocatori si sarebbero, con ogni probabilità, rovinati ampi segmenti del gioco sbirciando la soluzione di appena uno o due enigmi. Un’altra sua preoccupazione, meno idealistica, era che qualcuno si sarebbe sicuramente fotocopiato i libretti degli indizi (o li avrebbe addirittura trascritti in formato digitale), facendoli circolare gratuitamente non appena avesse iniziato a venderli. Ma ormai era anche chiaro che occuparsi manualmente di tutte le richieste di aiuto ben presto sarebbe risultato non solo poco pratico, ma perfino impossibile. Infatti, di tutte, una cosa sola era certa: la Infocom e lo Zork Users Group stavano decollando! E così Dornbrook si mise alla ricerca di alternative a una semplice lista stampata di soluzioni.
 
Valutò di usare dei fogli da grattare come nei biglietti della lotteria [un po’ come i nostri “gratta e vinci”; ndAncient], delle pagine stampate in offset che si sarebbero potute leggere solo con degli occhiali 3D, una piccola finestra scorrevole lungo la pagina, che permetteva di vedere solo una riga o due alla volta. Ma niente di tutto questo si rivelava abbastanza pratico da usare. E così (tratto dagli extra del DVD di Get Lamp):
 
Ero a una festa nella mia città natale con alcuni amici del liceo. Uno di loro aveva frequentato farmacia alla University of Wisconsin. Gli stavo descrivendo i miei tentativi di creare questi libretti, nel tentativo di trovare una soluzione al problema, quando lui mi disse: “perché non usi l’inchiostro simpatico?”
 
Uno dei docenti dell’amico aveva usato l’inchiostro simpatico per delle prove: gli studenti che non conoscevano una risposta, potevano sviluppare l’indizio “invisibile” passando uno speciale evidenziatore sopra la parte appropriata del testo, al costo di una riduzione del voto finale. Dornbrook, che nel corso degli anni aveva lavorato sporadicamente in copisteria, non ne aveva mai sentito parlare. Dopo aver chiamato in tutti i posti che gli venivano in mente per chiedere di quella tecnologia (il tutto solo per farsi considerare un “pazzo” dai suoi interlocutori), alla fine chiamò direttamente l’ufficio del professore. Un assistente recuperò il nome della società da cui si era rifornito il professore: A.B. Dick. Questi, a loro volta, lo misero in contatto con una copisteria che possedeva la tecnologia per realizzare il progetto e così nacquero le InvisiClues. Le prime, scritte da Dornbrook per Zork I e illustrate dal solito Ardito, arrivarono nella primavera del 1982.
 
 
Ogni librettino di InvisiClues conteneva molte domande sul gioco di cui si occupava. L’utente trovava quella che gli interessava e sviluppava la soluzione passando lo speciale evidenziatore sopra la risposta “invisibile”. Ogni risposta veniva presentata come una serie di passaggi graduali, da sviluppare uno alla volta, da un piccolo indizio iniziale fino alla soluzione completa dell’enigma. Ogni librettino includeva un buon numero di domande farlocche per scoraggiare ulteriormente i lettori dallo sviluppare e divorare troppe risposte a caso, oltre che per occultare quello che davvero c’era o non c’era nel gioco (impedendo così al giocatore di rovinarsi il gioco anche solo leggendo le domande). Se sviluppate, le risposte alle domande farlocche rimproveravano adeguatamente (e sarcasticamente) il giocatore.
 
Le InvisiClues erano un’idea oltremodo geniale, seppur con un paio di svantaggi. Erano costose da realizzare e quindi costose da acquistare; se la Adventure International vendeva un “Book of Hints” per tutte e dodici le avventure di Scott Adams al prezzo di 8 dollari, un librettino di InvisiClues per un singolo gioco della Infocom poteva costare molto di più. E poi gli indizi sviluppati iniziavano a sbiadire dopo sei mesi. Eppure, al di là di questi svantaggi, le InvisiClues ebbero un grande successo. Del resto erano molto più divertenti dei messaggi cifrati e delle tabelle incrociate che le altre società utilizzavano per mascherare i propri indizi.
 
Le fortune della Infocom e dello Zork Users Group si impennavano mano nella mano. La Infocom vendette 100.000 giochi nel 1982, partendo dai 12.000 dell’anno precedente. Gli iscritti allo Zork Users Group passarono da 1.000 di inizio anno, fino a 4.000 a metà dello stesso, per superare i 10.000 alla fine. A metà dell’anno successivo furono toccati i 20.000 membri. A quel punto le operazioni della società erano già state informatizzate (tramite un IBM PC con un esotico -per il tempo- hard disk da 10 MB) ed erano stati assunti tre dipendenti part-time al fianco di Mike e dei suoi genitori. La cosa buffa è che, a parte Mike, nessuno di loro aveva mai giocato a un gioco della Infocom, né avevano il benché minimo interesse a farlo.
 
Ci sarebbe molto altro da dire sul 1982 della Infocom, ma nel prossimo post ci sposteremo all’altro capo del mondo, per studiare una cultura informatica completamente diversa [noi della versione italiana del The Digital Antiquarian ci occuperemo invece del "playthrough" di Zork III; ndAncient].

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
Se anche voi apprezzerete questo interessantissimo blog, non mancate di visitare la pagina ufficiale (in lingua inglese) e di sostenerlo tramite Patreon.
Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Zork II, Parte 1
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

 
Bentornati cari esploratori tra le pagine più avventurose (e polverose) dai tempi di U.S. News and Dungeon Report. Siete bramosi di nuove avventure e non riuscite più a dormire alla pallida luce delle stelle e della luna? Ebbene, non temete, perché stiamo per tornare nel mondo sotterraneo, il dominio dell'incredibile Mago di Frobozz! Dunque è finalmente giunto il momento di esplorare Zork II: The Wizard of Frobozz! Pregustate allora il secondo capolavoro di Infocom attraverso le dotte parole dell'Antiquario Digitale, mentre la nostra attesissima traduzione è ormai prossima alla pubblicazione...
(qualcuno ha detto beta testing?)
 
 L'invidiabile lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Riprendete la vecchia lanterna, si torna nel regno sotterraneo di Zork!
 
Festuceto

C’è un fenomeno, di cui noi appassionati di musica parliamo spesso, chiamato “sophomore slump” [“Il secondo album è sempre il più difficile” (Caparezza); ndAncient]. Prima di firmare con una casa discografica e di registrare il proprio primo album, le band in genere passano anni a perfezionare la propria arte e a forgiare la propria identità musicale. E, quando alla fine entrano in studio per la prima volta, sanno esattamente chi sono e che cosa li ha portati fin lì, e hanno anche a disposizione la crema di tutti quegli anni di scrittura di canzoni: rifinite, suonate e risuonate, e testate davanti al pubblico. Però, quando arriva il momento del secondo album (e che arrivi non è una cosa scontata!), le cose di colpo si fanno molto più incerte. Tutte quelle grandi canzoni che li definivano sono già state usate nell’album precedente e ora non resta che frugare nel materiale che era stato scartato dal primo album e/o creare del materiale nuovo (ma stavolta con dei limiti di tempo che fino ad allora non avevano mai avuto). A questo si aggiunge che, solitamente, in quella circostanza insorge anche una specie di crisi esistenziale. Che tipo di band vogliono essere? Intendono continuare con il sound che hanno avuto fin qui, oppure vogliono spingersi oltre e diventare più sperimentali? In molti scelgono di percorrere entrambe le strade, producendo album altalenanti, che non riescono a fare fino in fondo nessuna delle due cose, e pieni di canzoni e di esecuzioni che (seppur spesso realizzate con perizia) mancano di quella scintilla di originalità che li aveva contraddistinti in precedenza.
 
Vedo un po’ di questo in Zork II: The Wizard of Frobozz. Lebling e la Infocom con questo gioco hanno fatto altri significativi passi in avanti, iniziando ad andare oltre la struttura “raccogli i tesori per fare punti” del primo gioco, ma nel complesso il tutto risulta un po’ indefinito. Il parser e il world-modeling della Infocom restano distanti anni luce da tutto quello che gli altri stavano producendo, ma non hanno più lo stesso “effetto shock” di quando li si osservava per la prima volta. La scrittura diviene più pungente, più divertente, e più uniforme nel tono, ma (almeno nella prima release che esamineremo noi) il gioco soffre un po’ della necessità di uscire prima di Natale, con un insolito (almeno per la Infocom) numero di bug, di glitch, e di frustrazioni varie legate al parser. Ci sono degli enigmi meravigliosi, accanto ad altri enigmi (molti più che in Zork I, in effetti) che avrebbero bisogno di una messa a punto per diventarlo a loro volta; ma ci sono anche delle castronerie assurde, incluse due tra le più universalmente detestate dell'intero canone Infocom. Sono la prova che, anche se Lebling sentiva di dover rendere Zork II più difficile del suo predecessore, non era ancora certo di quale fosse il modo migliore per farlo. E così, come accade a molti secondi album, Zork II è un miscuglio di cose diverse. Può essere visto in molti modi diversi, a seconda di cosa si intende enfatizzare, e (in conseguenza di ciò) troverete molti giudizi contrastanti sul suo valore complessivo.

 
Come ho fatto con Zork I, vi condurrò in un piccolo tour di Zork II. La mappa qui sopra potrebbe aiutarvi a seguirmi. Anche stavolta rendo disponibile lo "story file" originale (piuttosto raro) per coloro che vogliono sperimentare il gioco nella forma storicamente più autentica. Potete anche giocarlo direttamente sul vostro browser, grazie ai bravi ragazzi di Parchment, oppure potete scaricarlo e giocarlo con un interprete che supporta la Versione 2 della Z-Machine. Oppure potete scegliere l’immagine del disco per Apple II.
 
Iniziamo Zork II dove lo avevamo (presumibilmente) lasciato: all’interno del tumulo che si era aperto dopo aver raccolto l’ultimo dei tesori di Zork I. A differenza dello Zork per PDP-10, il tumulo si richiude alle nostre spalle dopo essere entrati. Manteniamo però i nostri due fedeli compagni di Zork I: la nostra lanterna e la nostra spada (e, per fortuna, la lanterna è di nuovo completamente carica, per qualche misteriosa ragione).
 
Appena iniziamo ad allontanarci più in profondità dalla location iniziale, collocata all’estremo nord della mappa, notiamo subito il segno più ovvio e gradito di un netto progresso rispetto al predecessore: Lebling non sembra più interessato a fare della geografia un enigma. Ogni stanza è collegata alle altre in modo lineare e consistente, tutt’altra cosa rispetto all’inizio di Zork I, dove venivamo subito sfidati a trascorrere un’ora o due nel mappare laboriosamente tutti le contorte interconnessioni della foresta. In Zork II non c’è neppure il labirinto (fino ad allora un elemento obbligatorio di ogni avventura testuale), almeno non nel senso tradizionale del termine (ciò che lo rimpiazza, infatti, è così fastidioso che a tratti si vorrebbe poter affrontare al suo posto un buon vecchio labirinto classico; ma di questo parlerò meglio in seguito…)
 
In breve tempo faremo il nostro primo incontro con colui che sarà la nostra nemesi per tutto il gioco: il Mago di Frobozz.
 
A STRANGE LITTLE MAN IN A LONG CLOAK
APPEARS SUDDENLY IN THE ROOM. HE IS
WEARING A HIGH POINTED HAT EMBROIDERED
WITH ASTROLOGICAL SIGNS. HE HAS A LONG,
STRINGY, AND UNKEMPT BEARD.
THE WIZARD DRAWS FORTH HIS WAND AND
WAVES IT IN YOUR DIRECTION. IT BEGINS TO
GLOW WITH A FAINT BLUE GLOW.
THE WIZARD, IN A DEEP AND RESONANT
VOICE, SPEAKS THE WORD "FERMENT!" HE
CACKLES GLEEFULLY.
 
YOU BEGIN TO FEEL LIGHTHEADED.
 
Il Mago è una delle innovazioni introdotte da Lebling per la versione PC di Zork II e ha vari punti di interesse. Appare molto più frequentemente ed è molto meglio caratterizzato del ladro di Zork I. Mentre il ladro era solo un ostacolo e un fastidio, il nostro scopo principale in Zork II sarà quello di sconfiggere il Mago, da qui il posto d’onore nel sottotitolo del gioco. Ma non temete: il Mago non è certo meno fastidioso di quanto non fosse il ladro! Appare di quando in quando per lanciare contro di noi uno dei suoi incantesimi, scelti a caso; ognuno di essi inizia con la lettera “F”: Filch, Freeze, Float, Fall, Fence, Fantasize, etc. Alcuni di questi, come Ferment (che ci impedisce di camminare dritti per un numero casuale di turni), sono solo dei fastidi. Altri, come Filch (che fa sparire dal nostro inventario un determinato oggetto scelto a caso) o come Fall (che può ucciderci all’istante, se ci viene lanciato contro quando siamo -ad esempio- su un precipizio) non ci lasciano altra scelta che ricaricare l’ultimo salvataggio. E, a causa della nostra fonte di luce che si esaurisce inesorabilmente e non può essere ricaricata, anche il meno potente di questi incantesimi può crearci dei problemi, costringendoci a sprecare dei turni preziosi attendendo che i suoi effetti si esauriscano. Per questo non ci metteremo molto a prendere l’abitudine di ricaricare ogni volta che saremo vittima di un incantesimo.
 
Sta ad ogni giocatore chiedersi se il Mago è abbastanza divertente da controbilanciare quanto è fastidioso. Ma il vecchio Mago pasticcione, i cui incantesimi talvolta fanno cilecca nei modi più divertenti, è autenticamente buffo.
 
THE WIZARD DRAWS FORTH HIS WAND AND
WAVES IT IN YOUR DIRECTION. IT BEGINS TO
GLOW WITH A FAINT BLUE GLOW.
THERE IS A LOUD CRACKLING NOISE. BLUE
SMOKE RISES FROM OUT OF THE WIZARD'S
SLEEVE. HE SIGHS AND DISAPPEARS.
 
Zork ha sempre avuto una doppia personalità. Gli autori o ci restituivano una commedia sfacciatamente sciocca e leggermente satirica, oppure ci restituivano un mondo invecchiato e ormai desertico, in possesso di un’antica grandezza solitaria e ormai offuscata. Essendo il prodotto di più autori, che sostanzialmente scrivevano assecondando i propri capricci del momento, entrambi questi approcci sono già visibili nello stesso Zork I, che oscilla fra i due senza particolari remore. Per ogni maestosa vista sulle cascate Aragain, c’era un ciclope da sfamare con dei peperoncini piccanti. Tuttavia, con Zork II, Lebling ha chiaramente deciso di costruire esplicitamente uno “Zork buffo”. E così ci ritroviamo con numerosi macchinari di pessima qualità etichettati come prodotti della “The Frobozz Magic <insert item here> Company”, una specie di equivalente del nostro Mago della Acme Corporation di Willy il Coyote. E ci ritroviamo anche con un mucchio di sciocchi aneddoti sugli eccessi della famiglia reale dei Testapiatta e del suo patriarca, Lord Dimwit in persona. Per tutto il gioco, Lebling mostra un vero talento per la commedia leggera, capace di creare dei momenti ironici senza forzare la mano e senza farci sbattere la testa(piatta) contro.
 
In un gazebo nel giardino, una delle nuove aree aggiunte di Lebling, troviamo un omaggio allo Zork originale, una copia dell’U.S. News and Dungeon Report.
 
** U.S. NEWS AND DUNGEON REPORT **
 
FAMED ADVENTURER TO EXPLORE GREAT
UNDERGROUND EMPIRE
 
OUR CORRESPONDENTS REPORT THAT A
WORLD-FAMOUS AND BATTLE-HARDENED
ADVENTURER HAS BEEN SEEN IN THE VICINITY
OF THE GREAT UNDERGROUND EMPIRE. LOCAL
GRUES HAVE BEEN REPORTED SHARPENING
THEIR (SLAVERING) FANGS....
 
"ZORK: THE WIZARD OF FROBOZZ" WAS
WRITTEN BY DAVE LEBLING AND MARC BLANK,
AND IS (C) COPYRIGHT 1981 BY INFOCOM,
INC.
 
Vi ricorderete infatti che una rivista con lo stesso nome era sempre collocata all’interno della casa bianca della versione per PDP-10 di Zork e serviva per annunciare, alla community online che si era creata intorno al gioco, le ultime novità e le ultime aggiunte.
 
Come i suoi predecessori, anche Zork II impone uno stringente limite all’inventario, costringendoci a scegliere una base per le nostre operazioni, dove tenere tutte le cose che raccogliamo. Una buona scelta è la Stanza del Carosello, uno snodo centrale intorno al quale si sviluppa –letteralmente– la geografia del gioco (il gioco sceglie casualmente una direzione ogni volta che usciamo dalla Stanza del Carosello; è possibile risolvere un enigma per fermarne la rotazione). Questo genera una vera esplosione combinatoria  che aggiunge moltissimo alla difficoltà del gioco. La mappa è piuttosto grande, e in gran parte aperta fin dall’inizio, lasciandoci liberi di scegliere fra montagne di enigmi irrisolti, in cerca di quelli che possiamo effettivamente risolvere in ciascun momento. Anche solo capire ciò su cui dovremmo concentrarci è di per sé buona parte della sfida.
 
A sudest della Stanza del Carosello, c’è la Stanza dell’Indovinello (mai nome fu più adatto). Dinanzi a una porta sigillata leggiamo quanto segue:
 
WHAT IS TALL AS A HOUSE,
ROUND AS A CUP,
AND ALL THE KING'S HORSES
CAN'T DRAW IT UP?
 
La risposta è un pozzo.
 
Oggigiorno gli indovinelli non sono ben visti nella creazione di interactive fiction, prevalentemente perché dipendono molto dall’intuizione del giocatore e spesso anche dal bagaglio culturale di chi li ha creati, e quindi presentano una difficoltà molto variabile da giocatore a giocatore. E poi gli indovinelli sanno un po’ di “brodo allungato”, una qualità che hanno in comune con i labirinti. Un designer in cerca di un enigma, può inserire un indovinello in pochi minuti, per poi guardare soddisfatto una fetta dei propri giocatori agonizzarci per ore. Nonostante questo, rispetto agli standard dei giochi d’avventura, questo indovinello non è dei peggiori, ed è anche innegabile che risolvere un indovinello con un lampo di genio dia un certo brivido (quasi come quando si risolvono enigmi di tipo più stimato dalla comunità). In Twisty Little Passages, Nick Montfort cita gli indovinelli come l’antecedente letterario più importante delle avventure testuali. Personalmente non ne sono pienamente convinto, ma se ciò fosse vero, questo ci offre l’opportunità di considerare l’indovinello di Zork II come uno dei primi sguardi gettati da questa nuova forma espressiva sulle proprie radici. Non che creda che i designer avessero niente del genere in mente, ovviamente.
 
Oltre la Stanza dell’Indovinello c’è la Stanza Circolare:
 
CIRCULAR ROOM
 
THIS IS A DAMP CIRCULAR ROOM, WHOSE
WALLS ARE MADE OF BRICK AND MORTAR. THE
ROOF OF THIS ROOM IS NOT VISIBLE, BUT
THERE APPEAR TO BE SOME ETCHINGS ON THE
WALLS. THERE IS A PASSAGEWAY TO THE
WEST.
 
THERE IS A WOODEN BUCKET HERE, 3 FEET IN
DIAMETER AND 3 FEET HIGH.
 
Aiutati da un po’ d’intuizione, oltre che dall’indovinello appena risolto, possiamo dedurre che siamo in fondo a un pozzo. Scopriremo però che non è un semplice pozzo, bensì un pozzo magico; se versiamo dell’acqua nel secchio, esso ci isserà su in una nuova area. Prima ho accennato al fatto che alcuni enigmi di Zork II erano a un solo passo dall’eccellenza. Questo ne è un buon esempio. E se dietro vi è certamente una sua elegante logica, è pur vero che non ci viene detto che siamo di fronte a un pozzo magico finché non siamo arrivati in cima e non vediamo il logo della “Frobozz Magic Well Company”. Nella sua forma attuale è un po’ troppo come balzo intuitivo da compiere. O forse il gioco si aspetta che si sia in grado di trarre un qualche indizio dalle incisioni che troviamo sul fondo del pozzo?
 
       O  B  O
 
       A  G  I
         E L
 
       M  P  A
 
Se qualcuno riesce a capire di cosa parlino, fatemelo sapere.
[In realtà è piuttosto facile:
 
        FrO B Ozz 
         MA G Ic
          WE Ll

       CoM P Any
 
  come spiegato qui; ndAncient]
 
In cima al pozzo c’è la così detta area “di Alice”. Lewis Carroll è sempre stato uno dei grandi favoriti degli scrittori di avventure testuali, perché il suo miscuglio di surrealismo, illogicità logica, e amore per gli enigmi si addice così bene al genere, rendendo le sue opere perfette più di ogni altra per essere adattate in forma di interactive fiction. Però, prima ancora di qualunque adattamento ufficiale, la Infocom gli ha reso omaggio qui. Come l’area del pozzo, anche l’area di Alice era presente già nella versione per PDP-10, e risale quindi all’incirca al 1978. Troviamo dei dolcetti con gli effetti attesi sulle nostre dimensioni e, dopo esserci rimpiccioliti adeguatamente, visitiamo una pozza di lacrime presa direttamente dalle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Il tutto tradotto in una serie di ottimi enigmi. In un certo senso è simpatico che in Zork II per visitare l’area di Alice sia necessario risalire un pozzo, mentre nel libro Alice inizia le proprie avventure cadendoci dentro. Del resto c’è anche una certa similitudine fra le premesse della serie di Zork e i libri di Alice: entrambi includono degli sconfinati paesaggi magici a cui si accede tramite portali costituiti da oggetti comuni, ed entrambi si occupano di enigmi e di gioco piuttosto che di trama.
 
Come già dimostrato attraverso il Mago, Zork II ha effettivamente un briciolo di interazione interpersonale in più rispetto al suo predecessore, il che rende le avventure nei suoi dungeon un po’ meno solitarie. Per la prima volta (se non contiamo la versione PDP-10) ci permette di parlare con altri personaggi, avventurandosi in un terreno insidioso che ancora oggi tormenta gli autori di IF. Il sistema di dialogo di Zork II è ancora piuttosto sgraziato: possiamo solo “TELL <someone> ‘<something>’”, con la necessità di inserire gli apostrofi. Tuttavia ciò non gli impedisce di dare una dimostrazione piuttosto impressionante della tecnologia della Infocom, sotto forma di un piccolo robot che troviamo sempre in cima al pozzo, a cui possiamo dare ordini proprio come si trattasse di noi stessi (come Zork I, anche Zork II passa allegramente dai robot della fantascienza ai mostri fantasy a elementi moderni senza esitazione alcuna). Il robot è la chiave per un altro di quegli enigmi a cui sarebbe bastato giusto un po’ più di lavoro per diventare fantastico.
 
C’è una sfera magica che vogliamo rubare a ogni costo, ma che è protetta da “Frobozz Magic Alarm Company”. Quando proviamo a prenderla, una gabbia ci casca addosso, la stanza si riempie di gas tossico, e moriamo in un paio di turni. Provare a far prendere al robot la sfera al posto nostro non funziona; per qualche motivo la gabbia schiaccia il povero cristo anziché intrappolarlo, in una scena stranamente reminiscente del celebre incidente del successivo Planetfall della Infocom. Nel frattempo la sfera svanisce (ci immaginiamo che sia rimasta dentro la gabbia). La soluzione è avere il robot con noi nella stanza quando facciamo scattare la trappola, per poi ordinargli di “GET CAGE” per liberarci prima che il gas ci asfissi. In astratto come enigma non è male. Nella pratica però è afflitto da problemi di implementazione, al punto che è quasi impossibile dedurre cosa stia accadendo intorno a noi. Il gioco non ci dà nessun indizio sul fatto che sia possibile continuare a interagire con il robot anche dall'interno della gabbia. E, se anche riusciamo a compiere questo balzo intuitivo da soli, il gioco si rifiuta comunque di renderci la vita facile.
 
>GET SPHERE
AS YOU REACH FOR THE SPHERE, A STEEL
CAGE FALLS FROM THE CEILING TO ENTRAP
YOU. TO MAKE MATTERS WORSE, POISONOUS
GAS STARTS COMING INTO THE ROOM.
CAGE
YOU ARE TRAPPED INSIDE A STEEL CAGE.
>TELL ROBOT "GET GAS"
I DON'T KNOW THE WORD 'GAS'.
>TELL ROBOT "HELP"
I DON'T KNOW THE WORD 'HELP'.
>TELL ROBOT "N"
"WHIRR, BUZZ, CLICK!"
YOU CAN'T GO THAT WAY.
>L
CAGE
YOU ARE TRAPPED INSIDE A STEEL CAGE.
>EXAMINE CAGE
I SEE NOTHING SPECIAL ABOUT THE STEEL
CAGE.
>TELL ROBOT "BREAK CAGE"
WHAT DO YOU WANT TO BREAK THE CAGE WITH?
>ROBOT
TRYING TO DESTROY THE STEEL CAGE HAS NO
EFFECT.
>TELL ROBOT "GET CAGE"
THE CAGE SHAKES AND IS HURLED ACROSS THE
ROOM. IT'S HARD TO SAY, BUT THE ROBOT
APPEARS TO BE SMILING.
DINGY CLOSET
THERE IS A BEAUTIFUL RED CRYSTAL SPHERE
HERE.
>GET SPHERE
TAKEN.
 
E dal pezzo qui sopra ho omesso le morti ogni paio di turni.
 
Le domande abbondano. Dov’era la sfera quando eravamo dentro la gabbia, visto e considerato che apparentemente non era né dentro, né fuori? Perché PRENDERE la gabbia fa sì che il robot la spacchi, mentre SPACCARE la gabbia non dà alcun risultato? Sono problemi come questi che a volte fanno sembrare Zork II (almeno in questa prima versione pubblica) un po’ affrettato.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Zork: Come Cavarsela Da Soli
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Prodi Avventurieri, vi siete infine ripresi dai bagordi delle festività natalizie? Io no! Ho ancora l'olezzo appiccicoso e penetrante di Grue e capitone nei peli della barba... 
Ma non importa, perché l'Avventura chiama! E noi, rispondiamo... Sempre! Riemersi dalle profondità del Regno Sotterraneo di
Zork è già il momento di scoprire le origini dell'ineluttabile seguito del capolavoro di Infocom, ma, attenzione, solo per questa volta, ci concederemo la libertà di compiere un balzo nella cronologia del Blog del "The Digital Antiquarian", proprio per seguire il percorso che abbiamo tracciato e che porterà a Zork II e persino a ... Zork III (come già rivelato nella nostra lista degli articoli).
Ma non temete, una volta concluso il ciclo degli articoli Infocom, riprenderemo la normale cronologia, recuperando tutti gli articoli "saltati" (il nostro traduttore, The Ancient One, rinchiuso in una stamberga da mesi, ne ha già tradotti a migliaia, perdendo così moglie e lavoro... ma è il giusto prezzo della gloria eterna!).
Ora vi lascio alla vostra meritata lettura, la prima di un anno speciale per noi avventurieri!
 
 L'ineffabile lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Stringete la cinghia e prendete la lanterna...si riparte per un lungo viaggio!
 
Festuceto
 
Con Zork ormai sugli scaffali e pronto a diventare un grande successo commerciale, per la Infocom era giunto il momento di pensare all’inevitabile seguito. Il compito di prepararlo ricadde su Dave Lebling. A prima vista poteva apparire un compito abbastanza lineare: doveva solo prendere la metà dell’originale Zork per PDP-10 (la metà che non era finita nella versione PC), etichettarla come Zork II, e avrebbe finito. In realtà però le cose erano un po’ più complicate di così. Come minimo, il nuovo gioco aveva bisogno di una ristrutturazione. Per esempio, lo scopo della versione per PDP-10 di Zork (così come della successiva versione PC del primo capitolo) era quello di raccogliere un insieme di tesori all’interno di quella casa bianca dinanzi alla quale il giocatore aveva iniziato la propria partita. Tuttavia tale casa bianca non poteva esistere in Zork II. Forse spinto inizialmente dalla necessità, Lebling iniziò a mettere mano al design originale. E ben presto, ispirato dalla nuova tecnologia ZIL (che la Infocom aveva sviluppato per portare Zork su PC, e che era una tecnologia molto più flessibile, molto più potente, e più semplice con cui lavorare rispetto all’MDL che invece stava dietro all’originale Zork), Lebling iniziò a dargli una forma drasticamente nuova, mischiando elementi presi dall’originale con nuove aree, nuovi enigmi, e nuovi personaggi. Finì con l’usare solo una metà del materiale rimasto dalla versione PDP-10, e tale materiale a sua volta componeva circa una metà di Zork II; l’altra metà sarebbe stata nuova. Questo fa di Lebling il primo “implementatore” a creare consapevolmente un gioco della Infocom destinato alla vendita come prodotto commerciale sul mercato PC.
 
Vista dal mondo esterno, la Infocom stava iniziando a mettere le basi di quei tratti distintivi che la gente ben presto avrebbe imparato ad amare non meno dei loro giochi, basata su un’inclusività amichevole e spensierata, che faceva sì che chi comprava i loro giochi si sentisse un po’ membro di un “club di persone intelligenti”. E l’organizzatore e guida di tale club, anziché essere uno dei creatori di Zork o uno dei soci della Infocom, era Mike Dornbrook, appena laureato in biologia al MIT, che aveva conosciuto Zork solo nel 1980, e che era stato il primo e più importante beta tester della versione PC.
 
Più di chiunque altro alla Infocom, Dornbrook credeva in Zork, convinto che fosse molto di più di un interessante esercizio di hacking, o di un modo per raggranellare un po’ di soldi facili in vista di prodotti più seri, o anche di più di un “semplice” gioco divertente. Considerava Zork come qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che nel suo piccolo poteva cambiare il mondo. E così incoraggiò vivamente la Infocom a costruire una community intorno a questa nascente forma d’arte. Su sua richiesta, la primissima versione di Zork includeva il seguente messaggio, scritto su un appunto all’interno dello studio dell’artista:
 
Congratulations!
You are the privileged owner of a genuine ZORK Great Underground Empire (Part I), a self contained and self maintaining universe. As a legitimate owner, you have available to you both the Movement Assistance Planner (MAP) and Hierarchical Information for Novice Treasure Seekers (HINTS). For information about these and other services, send a stamped, self-addressed, business-size envelope to:
 
Infocom, Inc.
GUE I Maintenance Division
PO Box 120, Kendall Station
Cambridge, Mass. 02142
 
A quei tempi, unirsi al club delle persone intelligenti era ancora piuttosto complicato. La lettera con l’indirizzo già scritto di cui sopra sarebbe stata ritirata da Stu Galley, che ogni giorno si recava diligentemente alle poste. A quel punto, egli spediva un foglio in cui si proponeva l’acquisto di una mappa, oltre che il definitivo servizio di indizi su misura: per un paio di dollari l’uno, la Infocom avrebbe risposto personalmente a tutte le domande!
 
La mappa era un adattamento dell’originale di Lebling, creato da Dave Ardito, un artista amico di Galley, che abbellì le linee e i rettangoli con degli orpelli di natura opportunamente avventurosa. Dornbrook, che aveva già esperienza di stampa, usò i suoi privilegi di ex alunno del MIT per stampare le mappe, nel cuore della notte, su una grande stampante normalmente destinata alla produzione di manifesti e di volantini per gli eventi del campus. In cerca d’aiuto, arruolò il suo compagno di stanza, Steve Meretzky.
 
Anche Meretzky era un ex studente del MIT, laureato nel 1979 in gestione delle costruzioni. Pur avendo frequentato la più importante università informatica del mondo, Meretzky non aveva alcuna intenzione di entrare a far parte di quel mondo. “Detestava” i computer e gli hacker. Nella sua intervista in Get Lamp, Dornbrook parla del primo approccio di Steve Meretzky con Zork. Dornbrook stava testando il gioco e si era fatto prestare un TRS-80, portandolo nel loro appartamento, dove lo aveva collocato sul tavolo della cucina.
 
Lui [Meretzky], rientrando a casa, vide il computer e disse: “Lungi da me!”, con quel tono che solo Steve sapeva usare. Cercai di dirgli: “Steve, questo ti piacerà!”. Cercavo di spiegargli come iniziare a giocarci e lui si mise le mani sulle orecchie e iniziò a urlare per non sentirmi.  
 
Ma evidentemente sentì quanto bastava. Nel corso delle successive settimane, quando tornavo a casa e mi accingevo a rimettermi a fare il beta testing, mi accorgevo che la tastiera era stata spostata di qualche centimetro o che i miei appunti erano stati leggermente mossi. Compresi che Steve ci stava giocando, ma non voleva ammetterlo. Una notte alla fine scoppiò e mi disse: “Va bene! Va bene! Mi serve un indizio!”. Lì iniziò il tracollo di Steve.
 
Di lì a poco Meretzky si candidò come beta tester e si unì a Dornbrook noi suoi progetti legati alla Infocom.
 
Fra gli extra di Get Lamp c’è un’ottima intervista a David Shaw, uno studente del MIT che scriveva sul giornale del campus, i cui uffici si trovavano proprio sopra la stampante che Dornbrook e Meretzky usavano di nascosto. Shaw era sorpreso dal fatto che la stampante “sembrava fosse sempre in funzione”, anche quando non c’erano nuovi eventi da promuovere: “Là sotto c’erano sempre i soliti due o tre tizi. Stampavano qualcosa che chiaramente non era il manifesto di un film, ed erano estremamente vaghi sull’oggetto del loro continuo stampare.” Un giorno Shaw trovò una “pila di scarti” delle mappe di Zork stampate da Dornbrook e Meretzky e comprese finalmente quel che stava accadendo.
 
Se le mappe erano uno sforzo di squadra, gli indizi ricadevano interamente su Dornbrook. Rispondeva a mano, su carta comune. Dopo un po’ si rese conto che si trattava di un impegno alquanto profittevole, seppure a volte noioso: molte delle richieste che riceveva erano solo variazioni di una manciata di identiche domande, e quindi predisporre delle risposte personalizzate non richiedeva poi tutto quel tempo che ci si sarebbe potuti aspettare (visitate la sezione della Infocom della Gallery of Undiscovered Entities per vedere delle scansioni della mappe originali e, meglio ancora, un paio di risposte scritte a mano da Dornbrook).
 
Poi Dornbrook fu accettato a un Master in “business administration” presso l’Università di Chicago, che sarebbe iniziato nell’ultimo semestre dell’anno; questo significava, ovviamente, che avrebbe dovuto lasciare Boston, rinunciando ai suoi contatti quotidiani con il gruppo della Infocom. Nessuno si sentiva in grado di rimpiazzare Dornbrook, che a questo punto era diventato (se non formalmente, di certo nei fatti) il capo delle pubbliche relazioni della Infocom. Dornbrook, preoccupato di ciò che sarebbe potuto accadere ai “suoi” fedeli clienti, cercò di convincere il Presidente Joel Berez ad assumere un dipendente che lo sostituisse. Impossibile, rispose Berez; semplicemente, l’azienda non aveva abbastanza risorse per poter impiegare una persona che si dedicasse esclusivamente ai rapporti con i clienti. Fu così che Dornbrook avanzò un’altra idea: avrebbe creato lui una nuova società, lo Zork Users Group, per vendere hint, mappe, memorabilia, e perfino i giochi della Infocom a un prezzo leggermente scontato per attirare nuovi membri del suo club, che lui avrebbe gestito da Chicago fra una lezione e l’altra. In cambio la Infocom si sarebbe liberata di questo complicato fardello. Avrebbero potuto semplicemente girare le richieste di aiuto a Dornbrook, preoccupandosi solo di fare più giochi, e migliori. Berez si disse d’accordo e lo Zork Users Group nacque ufficialmente nell’Ottobre del 1981. Avrebbe raggiunto i 20.000 membri, ma di questo parlerò meglio in futuro.
 
Per gran parte del 1981, la Infocom aveva dato per scontato che la Personal Software (il publisher del primo Zork) avrebbe pubblicato anche Zork II. Dopotutto Zork era stato un vero successo. Ed effettivamente la Personal Software rispose positivamente quando la Infocom gli parlò per la prima volta di Zork II nell’Aprile di quell’anno. Le due società dovevano addirittura firmare un contratto in Giugno. Ma un paio di mesi dopo, improvvisamente, la Personal Software si ritirò dall’accordo. E in più annunciò anche che avrebbe ritirato il primo Zork. "Cosa era accaduto?" si chiesero alla Infocom.
 
Quel che era accaduto, ovviamente, non poteva che essere VisiCalc. Dan Fylstra, fondatore della Personal Software, aveva fatto crescere la creazione di Dan Bricklin e Bob Frankston, donando loro un Apple II su cui sviluppare la loro idea. Pubblicato nell’Ottobre del 1979, VisiCalc trasformò l’industria dei microcomputer. E trasformò anche il suo publisher. La Personal Software, che fino ad allora era nota come publisher di giochi e di programmi per hobbisti, divenne di colpo “il publisher di VisiCalc”, una delle compagnie emergenti più promettenti della nazione. Per quanto fosse stato grande il successo di Zork, non era niente in confronto a VisiCalc. Già nel 1981 i giochi e il software per hobbisti costituivano meno del 10% del fatturato della Personal Software. C’è poco da meravigliarsi se spesso la Infocom avvertiva che la Personal Software avesse cambiato idea sul proprio gioco. In più, ora che l’IBM PC era all’orizzonte, la Personal Software si ritrovò corteggiata da giganti come la stessa “Big Blue”, che avevano bisogno che VisiCalc fosse disponibile anche sul loro nuovo computer. Quando anche la Microsoft iniziò a fare lo stesso, la Personal Software cominciò a trasformarsi, lasciandosi alle spalle le sue radici hacker e hobbistiche, per focalizzarsi sul mercato di VisiCalc e del software professionale, che in quel periodo stava letteralmente esplodendo. Per la prima volta iniziarono a sviluppare software internamente, sfornando tutta una linea di programmi pensati per capitalizzare il massimo profitto possibile dal nome di VisiCalc: VisiDex, VisiPlot, VisiTrend, VisiTerm, VisiFile. L’anno successivo, la Personal Software completò la propria “Visificazione”, cambiando nome in VisiCorp, ormai incamminati verso l’annichilimento in una gigantesca “VisiBotta”, che avrebbe prodotto uno dei più grandi fallimenti nella storia del software.
 
Secondo il nuovo paradigma aziendale, Zork non solo non era necessario, ma era addirittura potenzialmente pericoloso. I giochi erano l’anatema del nuovo esercito di clienti dai colletti bianchi, che di colpo avevano iniziato a comprare i PC. Le società come la Personal Software, che volevano rifornirli ed essere prese seriamente, nonostante le loro ambigue origini di hacker, iniziarono a tenersi alla larga da ogni cosa che fosse anche solo lontanamente legata all’entertainment. Tutta la linea di videogiochi sarebbe stata soppressa, vittima di quella stessa paranoia che teneva sveglio la notte Al Vezza.
 
 
Questa reazione mise la Infocom dinanzi a un bivio. Non che la cosa fosse particolarmente tragica: non mancavano di certo publisher più che lieti di metterli sotto contratto, adesso che avevano un gioco di grande successo all’attivo. Il problema era che non erano più sicuri che fosse quella la direzione in cui volevano andare. Anche se c’era certamente un certo prestigio nell’essere pubblicati dal più grande publisher del mondo, alla Infocom non sono mai stati davvero soddisfatti della Personal Software. Si sono sempre sentiti una bassa priorità. Il terribile packaging del “barbaro” di Zork portava a chiedersi se qualcuno alla Personal Software si fosse mai preso la briga di giocarci, e tutti gli sforzi pubblicitari erano apparsi sbrigativi e superficiali. Di certo la Personal Software non si era mai mostrata interessata ad aiutare la Infocom e Dornbrook a costruire una base fedele di clientela. Se davvero intendeva fare di Infocom il brand delle migliori avventure testuali del mercato, perché mai avrebbe dovuto tenere il logo di un’altra società sugli scatolati dei suoi giochi?
 
Ma, ovviamente, diventare un publisher significava per la Infocom diventare una “vera” società, anziché restare una società che faceva affari tramite una casella postale, con più personale dipendente e molti più soldi investiti. Dinanzi alla scelta fra mantenere la Infocom come una profittevole e piccola attività secondaria, o “provarci”, beh, i fondatori della Infocom scelsero questa seconda possibilità.
 
Diversi di loro contrassero un mutuo di rilevante entità per finanziare questo cambiamento. E assunsero anche un tizio chiamato Mort Rosenthal come direttore del marketing. Durò meno di un anno alla Infocom, facendosi licenziare per aver oltrepassato le proprie mansioni quando offrì i giochi della Infocom a Radio Shack con un ingente sconto pur di portarli in tutti i negozi della catena. Prima di allora però aveva fatto faville, e non solo nel marketing. Affarista di natura, secondo quanto racconta Stu Galley, egli riuscì ad assicurarsi: “un impianto di produzione in condivisione di tempo a Randolph, un’agenzia pubblicitaria a Watertown, un servizio di raccolta ordini in New Jersey, un fornitore di dischetti in California, e così via”, tutto nel giro di qualche settimana. Trovò anche il loro primo minuscolo ufficio sopra la storica Faneuil Hall Marketplace di Boston [“La Culla della Libertà”, in onore dei numerosi discorsi che vi sono stati tenuti da celebri indipendentisti americani; ndAncient]. I primi due dipendenti stipendiati che vi andarono a lavorare furono Berez, la principale mente affarista della società, e Marc Blanc, l’architetto della Z-Machine, che ormai da più di un anno aveva già lasciato il suo internato medico trasferendosi a Boston per far parte della rischiosa partita.
 
Mostrando un istinto del tutto sorprendente in un manipolo di hacker, la Infocom strinse un ultimo accordo con la Personal Software: avrebbe ricomprato le restanti copie di Zork, per impedire che esse inondassero il mercato a prezzi scontanti, svalutando così il marchio di Zork. Dovevano far uscire Zork II in tempo per Natale, e quindi lavorarono freneticamente al fianco della compagnia pubblicitaria, che Rosenthal aveva trovato, per dare un nuovo look alla serie. Lo stile che idearono era certamente molto più appropriato ed elegante del vecchio barbaro della Personal Software. E infatti ancora oggi è il “volto” ufficiale di Zork.
 
 
Ironicamente, per una società che produceva giochi testuali, il livello di raffinatezza visiva dei prodotti Infocom li contraddistingueva, già a partire dal logo classico dell’azienda, che debuttò già in questa occasione e che resterà un punto fermo per il resto della vita della società. Ma, parlando di testo, nelle pubblicità e nel packaging di Zork II troviamo già quel tono che i fan della Infocom impareranno a conoscere: un’atmosfera apparentemente casual e spiritosa, che però rifletteva un’immensa cura per i dettagli; il tutto in un’epoca dove la maggior parte dei publisher sembra non preoccuparsi nemmeno dell’ortografia dei suoi prodotti. Rispetto a tutti gli altri, la Infocom è sempre apparsa un po’ più di classe, un po’ più brillante, e un po’ più adulta. Ed è un'immagine che sicuramente gli ha giovato.
 
La prossima volta accetteremo l’invito qui sopra e ci tufferemo in Zork II, che riuscì per davvero a uscire in tempo per Natale.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Esplorando Zork, Parte 3
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Salutiamo l'anno vecchio e accogliamo il nuovo decennio, intrepidi avventurieri, dalle profondità del Regno Sotterraneo di Zork! E quale luogo migliore per celebrare le nostre avventurose festività? (qualcuno ha detto Marmellata d'Avventura 2019?) 
Brindiamo allora con gli gnomi e con i troll nelle viscere della terra, con le tasche ricolme di gioielli ... sempre che si riesca a sbucare dal diabolico labirinto! Ma, niente paura, a guidarci verso la salvezza vi sarà l'onnisciente Antiquario Digitale.
 
Ed ecco la stupefacente lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
Esplorando Zork, Parte 3
– Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Conservate le briciole del panettone per segnare la via ... si torna in superficie!
 
Festuceto
Oggi finiremo Zork. Il che significa immergerci nell’unico, grande labirinto tradizionale del canone della Infocom. Ed è anche particolarmente crudele: evidentemente pensavano che, se ne dovevano fare uno solo, tanto valeva farlo al meglio.
 
 
Nel rispettare il ruolo del ladro come corrispettivo del pirata di Adventure, egli ha il proprio covo esattamente nel labirinto. Questo fatto, ancor più delle grandi dimensioni del labirinto, è alla base della sua difficoltà: mentre vi avventurate al suo interno, lasciando oggetti in giro al fine di poterlo mappare, è probabile che compaia il ladro e che sparpagli i vostri oggetti che con tanta cura avevate depositato stanza per stanza, nella speranza di confondervi definitivamente. Proprio come nelle sequenze di combattimento, il buon esito di questa parte, più che abilità, richiede fortuna e un attento uso dei salvataggi. In nessun altro punto Zork sembra dar maggiormente ragione all’affermazione di Robb Sherwin secondo cui “Zork odia il suo giocatore”.
 
All’interno del labirinto c’è la “CYCLOPS ROOM”.
 
>SE
CYCLOPS ROOM
THIS ROOM HAS AN EXIT ON THE NORTHWEST,
AND A STAIRCASE LEADING UP.
A CYCLOPS, WHO LOOKS PREPARED TO EAT
HORSES (MUCH LESS MERE ADVENTURERS),
BLOCKS THE STAIRCASE. FROM HIS STATE OF
HEALTH, AND THE BLOODSTAINS ON THE
WALLS, YOU GATHER THAT HE IS NOT VERY
FRIENDLY, THOUGH HE LIKES PEOPLE.
 
Ci sono due possibili soluzioni al problema del ciclope: una sostanzialmente accettabile e l’altra probabilmente la peggiore di tutto il gioco. La prima consiste nel dargli il pranzo che abbiamo trovato nella casa all’inizio del gioco, seguito dalla bottiglia d’acqua. Per la seconda invece è nuovamente una questione di azzeccare la parola giusta, al punto da far sembrare la "loud room" un colpo di genio di game design: “ODYSSEUS”.
 
>ODYSSEUS
THE CYCLOPS, HEARING THE NAME OF HIS
FATHER'S DEADLY NEMESIS, FLEES THE ROOM
BY KNOCKING DOWN THE WALL ON THE EAST OF
THE ROOM.
 
Ma non temete, c’è comunque un “indizio” che può portare a questa soluzione. Leggendo il libro delle preghiere trovato nel tempio, il gioco ci restituisce questo:
 
>EXAMINE BOOK
COMMANDMENT #12592
 
OH YE WHO GO ABOUT SAYING UNTO EACH:
"HELLO SAILOR":
DOST THOU KNOW THE MAGNITUDE OF THY SIN
BEFORE THE GODS?
YEA, VERILY, THOU SHALT BE GROUND
BETWEEN TWO STONES.
SHALL THE ANGRY GODS CAST THY BODY INTO
THE WHIRLPOOL?
SURELY, THY EYE SHALL BE PUT OUT WITH A
SHARP STICK!
EVEN UNTO THE ENDS OF THE EARTH SHALT
THOU WANDER AND
UNTO THE LAND OF THE DEAD SHALT THOU BE
SENT AT LAST.
SURELY THOU SHALT REPENT OF THY CUNNING.
 
Nell’implementazione originale per PDP-10, la prima lettera di ogni linea ci dava proprio “ODYSSEUS” [cioè “Odisseo” nella traduzione italiana; ndAncient]. Tuttavia sullo schermo a 40 colonne dell’Apple II la cosa non sta più in piedi, come potete vedere qui sopra. È un “enigma” tremendo, ma il fatto che la Infocom abbia dato al giocatore un’alternativa più ragionevole li identifica (al di là dei continui scivoloni di game design) come degli sviluppatori di avventure testuali anomali rispetto alla loro era. Scott Adams o Roberta Williams si sarebbero certamente accontentati di “ODYSSEUS” (ben più facile da implementare), fantasticando nel frattempo su tutti gli "hint book" che avrebbero venduto.
 
Oltre il ciclope, c’è il covo del ladro. Dargli quel che si merita ci è particolarmente dolce dopo tutto quello che ci ha fatto penare, senza considerare che in questo modo rientriamo in possesso di tutti i tesori che ci ha sottratto.
 
>U
YOU HEAR A SCREAM OF ANGUISH AS YOU
VIOLATE THE ROBBER'S HIDEAWAY. USING
PASSAGES UNKNOWN TO YOU, HE RUSHES TO
ITS DEFENSE.
THE THIEF GESTURES MYSTERIOUSLY, AND THE
TREASURES IN THE ROOM SUDDENLY VANISH.
TREASURE ROOM
THIS IS A LARGE ROOM, WHOSE EAST WALL IS
SOLID GRANITE. A NUMBER OF DISCARDED
BAGS, WHICH CRUMBLE AT YOUR TOUCH, ARE
SCATTERED ABOUT ON THE FLOOR. THERE IS
AN EXIT DOWN A STAIRCASE.
THERE IS A SUSPICIOUS-LOOKING
INDIVIDUAL, HOLDING A BAG, LEANING
AGAINST ONE WALL. HE IS ARMED WITH A
VICIOUS-LOOKING STILETTO.
THERE IS A SILVER CHALICE, INTRICATELY
ENGRAVED, HERE.
THE THIEF RAMS THE HAFT OF HIS BLADE
INTO YOUR STOMACH, LEAVING YOU OUT OF
BREATH.
>KILL THIEF WITH AXE
YOU ARE STILL RECOVERING FROM THAT LAST
BLOW, SO YOUR ATTACK IS INEFFECTIVE.
YOU PARRY A LIGHTNING THRUST, AND THE
THIEF SALUTES YOU WITH A GRIM NOD.
>KILL THIEF WITH AXE
THE THIEF IS STRUCK ON THE ARM, BLOOD
BEGINS TO TRICKLE DOWN.
THE THIEF STABS NONCHALANTLY WITH HIS
STILETTO AND MISSES.
>AGAIN
THE BLOW LANDS, MAKING A SHALLOW GASH IN
THE THIEF'S ARM!
THE THIEF TRIES TO SNEAK PAST YOUR
GUARD, BUT YOU TWIST AWAY.
>AGAIN
THE BLOW LANDS, MAKING A SHALLOW GASH IN
THE THIEF'S ARM!
THE THIEF SLOWLY APPROACHES, STRIKES
LIKE A SNAKE, AND LEAVES YOU WOUNDED.
>AGAIN
THE THIEF IS STRUCK ON THE ARM, BLOOD
BEGINS TO TRICKLE DOWN.
THE THIEF STABS NONCHALANTLY WITH HIS
STILETTO AND MISSES.
>AGAIN
YOU CHARGE, BUT THE THIEF JUMPS NIMBLY
ASIDE.
THE THIEF STABS NONCHALANTLY WITH HIS
STILETTO AND MISSES.
>AGAIN
THE FATAL BLOW STRIKES THE THIEF SQUARE
IN THE HEART: HE DIES.
 
Ma, aspettate… vi ricordate quando all’inizio di questa avventura ho accennato al fatto che l’uovo ingioiellato trovato nella foresta era il cuore dell’enigma più crudele del gioco? Mi duole dirvi che, prima di ucciderlo, c’è una cosa che dobbiamo far fare al ladro. Dobbiamo fargli aprire l’uovo per noi, come subdolamente suggerito se ci proviamo senza di lui: “HAVEN’T THE TOOLS OR EXPERTISE”.
 
Con il labirinto esplorato e il ladro sfruttato e quindi messo fuori dai giochi, ci rimane un unico, ultimo enigma, ma anche questo è crudele; un’aggiunta dell’ultimo minuto di cui avremmo volentieri fatto a meno. Di quando in quando, vagando per la foresta, sentiamo “HEAR IN THE DISTANCE THE CHIRPING OF A SONG BIRD”, un messaggio che originariamente era presente solo come testo di colore. Tim Anderson:
 
"Molte persone in rete avevano finito ormai da tempo il gioco, ma vi tornavano regolarmente per risolvere eventuali nuovi enigmi che fossero stati introdotti; uno di loro aveva  giocato a D&D con Dave e lo chiamò il giorno dopo che era stata annunciata l’introduzione dell’uovo: ‘Mi sono fatto aprire l’uovo, ma scommetto che voi loser avete inserito qualcosa senza senso da fare con il canarino e con l’uccello canterino!’ Dave, che sapeva il fatto suo, rispose: ‘Coff, coff... ehm... ovviamente!" e corse ad aggiungere il gingillo d’ottone."
 
Nello specifico, dobbiamo caricare il canarino meccanico, che abbiamo trovato dentro l’uovo, per attirare l’uccello canterino, che in cambio farà cadere ai nostri piedi il gingillo d’ottone: il 19esimo e ultimo tesoro! Mettiamo il tutto nella vetrinetta dei trofei, che magicamente apre una nuova via all’esterno.
 
>SW
STONE BARROW
YOU ARE STANDING IN FRONT OF A MASSIVE
BARROW OF STONE. IN THE EAST FACE IS A
HUGE STONE DOOR WHICH IS OPEN. YOU
CANNOT SEE INTO THE DARK OF THE TOMB.
>W
AS YOU ENTER THE BARROW, THE DOOR CLOSES
INEXORABLY BEHIND YOU. AROUND YOU IT IS
DARK, BUT AHEAD IS AN ENORMOUS CAVERN,
BRIGHTLY LIT. THROUGH ITS CENTER RUNS A
WIDE STREAM. SPANNING THE STREAM IS A
SMALL WOODEN FOOTBRIDGE, AND BEYOND A
PATH LEADS INTO A DARK TUNNEL. ABOVE THE
BRIDGE, FLOATING IN THE AIR, IS A LARGE
SIGN. IT READS: ALL YE WHO STAND BEFORE
THIS BRIDGE HAVE COMPLETED A GREAT AND
PERILOUS ADVENTURE WHICH HAS TESTED YOUR
WIT AND COURAGE. YOU HAVE GAINED THE
MASTERY OF THE FIRST PART OF THE GREAT
UNDERGROUND EMPIRE. THOSE WHO PASS OVER
THIS BRIDGE MUST BE PREPARED TO
UNDERTAKE AN EVEN GREATER ADVENTURE THAT
WILL SEVERELY TEST YOUR SKILL AND
BRAVERY!
PLAY "ZORK: THE GREAT UNDERGROUND
EMPIRE, PART II".
YOUR SCORE WOULD BE 350 (TOTAL OF 350
POINTS), IN 1313 MOVES.
THIS SCORE GIVES YOU THE RANK OF MASTER
ADVENTURER.
 
E questo, miei cari amici, è Zork, una creazione con alcuni difetti ma anche un enorme passo avanti rispetto a tutto quello che c’era stato prima. E la Infocom era solo agli inizi.
 
Avrò molto, molto altro da dire sulla Infocom in futuro. Ma, la prossima volta, parleremo di qualcosa di completamente diverso. [ma non noi di OldGamesItalia, che con la nostra traduzione italiana faremo un salto avanti nel tempo, passando eccezionalmente agli articoli del Digital Antiquarian dedicati a Zork II, per festeggiare l’imminente pubblicazione della nostra traduzione del secondo capitolo della saga; ndAncient].

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Esplorando Zork, Parte 2
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)



Bentrovati prodi avventurieri! Lo so, siete già tutti in trincea pronti per il tragico cenone della Vigilia, ma non è il momento di gozzovigliare... scintillanti tesori vi attendono nei perigliosi labirinti del magico Regno Sotterraneo di Zork. E a guidarci sarà, come sempre, il sapiente Antiquario Digitale. 
Armatevi di coraggio compagni, entriamo finalmente nel vivo dell'esplorazione di Zork!
 
Ma prima la lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
Esplorando Zork, Parte 2
– Esplorando Zork, Parte 3
– Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Posate la forchetta e afferrate la lanterna... inizia la discesa!
 
Festuceto
Oggi andremo al sodo del Grande Impero Sotterraneo di Zork, mostrato nella mappa qui sotto.
 
 
Esplorare a sud della cantina, dove eravamo rimasti, ci permette di trovare il secondo tesoro e la prima uscita dal sottosuolo; attraverso il camino del soggiorno della casa bianca possiamo trasportare esattamente due oggetti (ma non possiamo usarlo per tornare indietro: "SOLO BABBO NATALE SCENDE DAI CAMINI", ci dice il gioco, nella tipica logica dei giochi d’avventura). Nelle nostre esplorazioni troveremo altre vie d’uscita e d’ingresso, sempre più comode. E alla fine perfino l’ignoto antipatico, che continua a chiuderci la botola alle spalle, la smetterà.
 
A sud della cantina troviamo anche una seconda nota (o, meglio, un MANUALE DELL’UTENTE), che ci informa delle meraviglie di questo piccolo mondo costruito dalla Infocom.
 
>EXAMINE PAPER
 
CONGRATULATIONS!
YOU ARE THE PRIVILEGED OWNER OF A
GENUINE ZORK GREAT UNDERGROUND EMPIRE
(PART I), A SELF CONTAINED AND SELF
MAINTAINING UNIVERSE. IF USED AND
MAINTAINED IN ACCORDANCE WITH NORMAL
OPERATING PRACTICES FOR SMALL UNIVERSES,
ZORK WILL PROVIDE MANY MONTHS OF
TROUBLE-FREE OPERATION. PLEASE CHECK
WITH YOUR DEALER FOR PART II AND OTHER
ALTERNATE UNIVERSES.
 
Come la schermata del titolo che vi ho mostrato nel mio post precedente, anche questa nota ci dimostra che la Infocom a questo punto stava già progettando quantomeno uno Zork 2, anche se probabilmente doveva ancora perfezionarne il titolo. Ma, cosa ancora più interessante, ci dimostra che avevano già in mente di mettere a frutto lo ZIL e la Z-Machine su tutta una nuova linea di giochi originali. Inserendo una pubblicità di altri giochi all’interno di Zork, la Infocom ha seguito l’esempio di Scott Adams, che trovava sempre lo spazio (perfino nelle sue minuscole creazioni da 16 K) per infilare uno o due riferimenti ai suoi giochi attuali o in uscita.
 
Procedendo a nord della cantina, ci imbattiamo in una specie di tempesta perfetta.
 
>N
THE TROLL ROOM
THIS IS A SMALL ROOM WITH PASSAGES TO
THE EAST AND SOUTH AND A FORBIDDING HOLE
LEADING WEST. BLOODSTAINS AND DEEP
SCRATCHES (PERHAPS MADE BY AN AXE) MAR
THE WALLS.
A NASTY-LOOKING TROLL, BRANDISHING A
BLOODY AXE, BLOCKS ALL PASSAGES OUT OF
THE ROOM.
A SEEDY-LOOKING INDIVIDUAL WITH A LARGE
BAG JUST WANDERED THROUGH THE ROOM. ON
THE WAY THROUGH, HE QUIETLY ABSTRACTED
ALL VALUABLES FROM THE ROOM AND FROM
YOUR POSSESSION, MUMBLING SOMETHING
ABOUT "DOING UNTO OTHERS BEFORE.."
THE TROLL'S MIGHTY BLOW DROPS YOU TO
YOUR KNEES.
THE THIEF SLOWLY APPROACHES, STRIKES
LIKE A SNAKE, AND LEAVES YOU WOUNDED.
>KILL TROLL WITH SWORD
I CAN'T SEE ANY SWORD HERE.
>KILL TROLL WITH KNIFE
A GOOD STROKE, BUT IT'S TOO SLOW, THE
TROLL DODGES.
THE TROLL'S AXE REMOVES YOUR HEAD.
IT APPEARS THAT THAT LAST BLOW WAS TOO
MUCH FOR YOU. I'M AFRAID YOU ARE DEAD.
 
**** YOU HAVE DIED ****
 
Qui è accaduto che abbiamo incontrato contemporaneamente due degli abitanti del sottosuolo: il troll e il ladro. Il primo staziona sempre in questa stanza, mentre il secondo è la risposta di Zork al pirata e ai nani di Adventure; è insomma un "mostro errante" in pieno stile Dungeons and Dragons. Vaga per il sottosuolo e non solo a volte ci punzecchia con il suo stiletto, ma (peggio) si impossessa di oggetti che potremmo aver lasciato in giro pensando di metterli al sicuro, per poi disseminarli a caso. Peggio ancora, si prende i tesori per sé, nascondendoli (ma su questo ritornerà più avanti). E, peggio di ogni altra cosa, è anche ben lieto di rubarvi le cose che state trasportando. Sciagura per quell’avventuriero che egli lascerà al buio senza la sua fedele lampada! Nel caso qui sopra, il ladro ci ha rubato la nostra spada proprio quando ci serviva per combattere contro di lui e contro il troll, lasciandoci con il ben meno efficace coltello. Potete immaginare come sia finita.
 
Il merito (o il demerito) per il sistema di combattimento va a Lebling:
 
Dave, giocatore di Dungeons and Dragons di lunga data, non apprezzava il modo completamente prevedibile con cui si uccidevano le creature. Nel gioco originale, per esempio, si poteva uccidere il troll semplicemente lanciandogli il coltello: lui lo raccoglieva e lo mangiava di gusto (come qualunque altra cosa che gli viene tirata), ma in conseguenza di ciò moriva di emorragia. In sostanza, Dave aggiunse tutta la complessità di un combattimento in stile D&D, con efficacie diverse per le armi, con le ferite, con gli stati di incoscienza e la morte. Ogni creatura ha i suoi messaggi e quindi un combattimento con il ladro (che usa uno stiletto) risulta molto diverso da un combattimento contro il troll e la sua ascia.
 
Il pericolo di tutto questo dinamismo e di questi comportamenti emergenti, è che possono condurre a situazioni simili a quella che ci è accaduta qui, dove il giocatore viene ucciso in modo capriccioso, senza aver mai avuto una vera possibilità di farcela. I giocatori di Eamon non sembrano aver mai avuto problemi con questa impostazione, ma è una cosa che poco si addice alla Infocom. E infatti nei giochi successivi si terranno ben alla larga dal combattimento casuale, una tendenza che sarà poi presa a cuore anche dalla moderna community dell’interactive fiction. Il simbolo principale di questa strada, poi abbandonata dal canone della Infocom, è il verbo "DIAGNOSE", introdotto in Zork per dare al giocatore un veloce resoconto delle sue attuali ferite e che è rimasto anche nei giochi successivi come una stranezza inutile, che solitamente restituiva risposte generiche. Vale la pena aggiungere infatti che "DIAGNOSE" è anche l’unico verbo standard del sistema della Infocom che non è stato adottato nei moderni linguaggi di interactive fiction, come Inform e TADS.
 
In ogni caso, ricarichiamo un paio di volte, facciamo girare la fortuna con i nostri tiri di dado, uccidiamo il troll, ed evitiamo il ladro, e ci spostiamo nell’area del bacino idrico e, da lì, alla Flood Control Dam #3, uno dei luoghi storici più memorabili di Zork. Le descrizioni piuttosto sobrie del maestoso edificio abbandonato sono in netto contrasto con la stupidità del manuale di istruzioni che troviamo all’interno.
 
>EXAMINE GUIDEBOOK
"FLOOD CONTROL DAM #3
FCD#3 WAS CONSTRUCTED IN YEAR 783 OF
THE GREAT UNDERGROUND EMPIRE TO HARNESS
THE MIGHTY FRIGID RIVER. THIS WORK WAS
SUPPORTED BY A GRANT OF 37 MILLION
ZORKMIDS FROM YOUR OMNIPOTENT LOCAL
TYRANT LORD DIMWIT FLATHEAD THE
EXCESSIVE. THIS IMPRESSIVE STRUCTURE IS
COMPOSED OF 370,000 CUBIC FEET OF
CONCRETE, IS 256 FEET TALL AT THE
CENTER, AND 193 FEET WIDE AT THE TOP.
THE LAKE CREATED BEHIND THE DAM HAS A
VOLUME OF 1.7 BILLION CUBIC FEET, AN
AREA OF 12 MILLION SQUARE FEET, AND A
SHORE LINE OF 36 THOUSAND FEET.
WE WILL NOW POINT OUT SOME OF THE MORE
INTERESTING FEATURES OF FCD#3 AS WE
CONDUCT YOU ON A GUIDED TOUR OF THE
FACILITIES:
1) YOU START YOUR TOUR HERE IN
THE DAM LOBBY. YOU WILL NOTICE ON
YOUR RIGHT THAT .........
 
Gran parte del valore letterario di Zork, che emerge piuttosto distintamente nonostante il numero relativamente limitato di parole (quelle che ho citato qui sono in sostanza le descrizioni più lunghe del gioco), deriva proprio dalla contrapposizione fra una melanconica gloria sbiadita e una certa impudente stupidità. Lascio a voi stabilire se si tratta di una precisa scelta estetica o del risultato accidentale dell’avere troppi cuochi (scrittori) in cucina. In ogni caso, troviamo un altro esempio lampante di questa stupidità già nella stanza di manutenzione della diga.
 
>N
MAINTENANCE ROOM
THIS IS WHAT APPEARS TO HAVE BEEN THE
MAINTENANCE ROOM FOR FLOOD CONTROL DAM
#3. APPARENTLY, THIS ROOM HAS BEEN
RANSACKED RECENTLY, FOR MOST OF THE
VALUABLE EQUIPMENT IS GONE. ON THE WALL
IN FRONT OF YOU IS A GROUP OF BUTTONS,
WHICH ARE LABELLED IN EBCDIC. HOWEVER,
THEY ARE OF DIFFERENT COLORS: BLUE,
YELLOW, BROWN, AND RED. THE DOORS TO
THIS ROOM ARE IN THE WEST AND SOUTH
ENDS.
THERE IS A GROUP OF TOOL CHESTS HERE.
THERE IS A WRENCH HERE.
THERE IS AN OBJECT WHICH LOOKS LIKE A
TUBE OF TOOTHPASTE HERE.
THERE IS A SCREWDRIVER HERE.
 
Il riferimento "all'EBCDIC" è umorismo da hacker che, a seconda del vostro background, potrebbe richiedere una spiegazione. All’inizio degli anni ‘60 la maggior parte dei costruttori di computer trovò un accordo su una cosa chiamata ASCII ("American Standard Code for Information Interchange"), da utilizzare come sistema per codificare i caratteri testuali su computer. Poiché, stringi stringi, i computer comprendono solo numeri, l’ASCII è essenzialmente una tabella che il computer usa per sapere che, quando incontra ad esempio il numero 65 in un file testuale, al suo posto, deve visualizzare il carattere "A". Uno standard era necessario per far sì che i computer di marche e modelli diversi potessero scambiarsi fra di loro con facilità delle informazioni testuali. Proprio quando tutti si erano accordati sull’ASCII, risolvendo così una questione piuttosto annosa, la IBM decise di colpo di abbandonare tale standard sui propri mainframe in favore di una cosa chiamata EBCDIC ("Extended Binary-Coded Decimal Interchange Code"). La ragione per cui lo fecero (almeno secondo gli hacker della DEC), fu un tentativo deliberato di rendere le proprie macchine incapaci di scambiare dati con le macchine di altri produttori, credendo così di inchiodare i consumatori ai prodotti IBM per qualunque loro necessità. A peggiorare ancora le cose c’era il fatto che l’EBCDIC era semplicemente peggiore dell’ASCII. In ASCII la "A" precede numericamente la "B", la quale precede la "C", e così via; nell’EBCDIC ad ogni lettera è assegnato un numero a casaccio, senza nessuna apparente ragione logica. Questo fa sì che fare un looping dell’alfabeto (uno scenario che capita abbastanza spesso in programmazione) sia molto più difficile di quanto non dovrebbe. E poi c’era l’abitudine della IBM di ritoccare costantemente l’EBCDIC, rendendolo perfino incompatibile con sé stesso nelle varie versioni. Nonostante questo, sopravvive ancora oggi sui grandi mainframe. Fra gli hacker, l’EBCDIC è diventato il simbolo di un linguaggio incomprensibile o privo di senso, l’equivalente per gli hacker di dire (con le mie scuse per chi parla cinese): "Per me è cinese!". Quindi, per far breve una spiegazione già abbastanza lunga, è questa la ragione per cui i bottoni della diga sono in EBCDIC.
 
Alla diga risolviamo un enigma piuttosto arguto per regolare il livello dell’acqua sui due lati, aprendo così all’esplorazione il fiume e la parte settentrionale del sottosuolo. Prima di farlo, però, daremo un’occhiata al tempio a sudest. Rinveniamo una torcia d’avorio che, oltre ad essere uno dei tesori, funge anche da fonte di luce inesauribile. Questo gesto di clemenza è persino più apprezzato delle batterie extra che troviamo in Adventure, tanto più che usarla non ci costa dei punti. Dobbiamo solo assicurarci di conservare la lanterna quanto basta per attraversare la miniera di carbone, di cui parlerò meglio tra poco.  
 
Lo scettro, un tesoro che troviamo sotto il tempio, nella "STANZA EGIZIANA", è il cuore del primo enigma davvero cattivo del gioco. Il gioco si aspetta che lo portiamo all’arcobaleno all’esterno e lo agitiamo per rivelare il classico calderone d’oro.
 
>WAVE SCEPTRE
SUDDENLY, THE RAINBOW APPEARS TO BECOME
SOLID AND, I VENTURE, WALKABLE (I THINK
THE GIVEAWAY WAS THE STAIRS AND
BANNISTER).
>E
ON THE RAINBOW
YOU ARE ON TOP OF A RAINBOW (I BET YOU
NEVER THOUGHT YOU WOULD WALK ON A
RAINBOW), WITH A MAGNIFICENT VIEW OF THE
FALLS. THE RAINBOW TRAVELS EAST-WEST
HERE.
 
Se avete giocato qualche avventura testuale, già vi aspettavate di poter camminare su quell’arcobaleno. La vera domanda è come avreste potuto fare a intuire che il modo giusto per farlo era proprio quello. L’unico vero indizio è esterno al gioco: in Adventure c’era una verga che si poteva agitare per attraversare un simile precipizio (seppur senza arcobaleno). Ecco che abbiamo un altro punto in cui Zork sembra semplicemente presupporre una precedente conoscenza di Adventure, per quanto (pur avendo una tale conoscenza) risolvere questo enigma richiedeva comunque una bella intuizione.  
 
Dopo aver esplorato la zona al di là dell’arcobaleno, torniamo sottoterra e dopo un po’ ci ritroviamo… nell’Ade.
 
>D
ENTRANCE TO HADES
YOU ARE OUTSIDE A LARGE GATEWAY, ON
WHICH IS INSCRIBED
"ABANDON EVERY HOPE, ALL YE WHO
ENTER HERE."
THE GATE IS OPEN; THROUGH IT YOU CAN SEE
A DESOLATION, WITH A PILE OF MANGLED
BODIES IN ONE CORNER. THOUSANDS OF
VOICES, LAMENTING SOME HIDEOUS FATE, CAN
BE HEARD.
THE WAY THROUGH THE GATE IS BARRED BY
EVIL SPIRITS, WHO JEER AT YOUR ATTEMPTS
TO PASS.
 
Quella sensazione "di tutto un po'" che caratterizzava l’originale Zork per PDP-10 appare anche qui. Accanto alla mitologia originale che ritroviamo in Lord Dimwit Flathead, negli zorkmid, e nella Flood Control Dam #3, abbiamo l’Ade della Mitologia Greca, con tanto di parafrasi dantesca (ma a dire il vero nel complesso sembra più l’inferno cristiano che l’Ade della mitologia; e il suo tono cupo è l’ennesimo contrasto con altre sezioni più scherzose). Presto incontreremo anche una miniera di carbone americana del diciannovesimo secolo e dei ciclopi terrorizzati da Ulisse. E abbiamo già visitato (e saccheggiato) la tomba di Ramses II! Ovviamente nell’Ade c’è anche un enigma da risolvere, ma quello lo lascio a voi. Dopodiché torneremo nei pressi della diga, per un’escursione lungo il fiume.
 
Tutta la sezione del Fiume Frigido è opera di  Marc Blank, che l’aggiunse all’inizio dello sviluppo di Zork. Al centro di questa sezione del gioco c’è l’imbarcazione gonfiabile che usiamo per navigarlo. Questa implementazione di un veicolo è indiscutibilmente il primo punto dove i creatori di Zork hanno davvero mostrato la volontà di andare oltre l’ispirazione di Adventure, creando uno "storyworld" molto più complesso e credibile. Ed è stata anche l’occasione per apprendere alcune dure lezioni di game designing. Tim Anderson:
 
Nel gioco originale c’erano delle stanze, degli oggetti, e un giocatore; il giocatore esisteva sempre all’interno di una stanza. I veicoli erano degli oggetti che, a tutti gli effetti, erano delle stanze mobili. Questo richiese dei cambiamenti nelle interazioni (sempre delicatissime) fra i verbi, gli oggetti, e le stanze (dovevamo infatti trovare un modo per far fare a "cammina" qualcosa di accettabile mentre il giocatore era nella barca). In più, gli intraprendenti giocatori di Zork provarono a usare la barca in tutti i posti dove credevano di poterlo fare. Il codice della barca non era però pensato per funzionare al di fuori della sezione del fiume, ma non c’era niente che impediva al giocatore di trasportare l’imbarcazione gonfiabile fino alla riserva idrica per tentare di attraversarla. Alla fine si consentì di usare la barca nella riserva idrica, ma restava il problema generale: tutto quel che cambia il mondo che si sta modellando, in pratica, cambia anche tutto ciò che si trova all’interno del mondo che si sta modellando.
 
Anche se Zork allora aveva solo un mese di vita, riusciva già a sorprendere i suoi autori. L’imbarcazione, per come era stata implementata, si trasformò in una sorta di "borsa conservante": in pratica i giocatori potevano metterci dentro di tutto e portarselo in giro, anche se il peso degli oggetti ivi contenuti eccedeva di molto la capacità del giocatore di trasportarli. La barca era due oggetti distinti: l’oggetto "barca gonfia" conteneva gli oggetti, ma il giocatore trasportava con sé l’oggetto “barca sgonfia”. Noi eravamo all’oscuro di questo aspetto, finché qualcuno alla fine non lo segnalò come bug. Per quanto ne so, il bug c’è ancora.
 
Personalmente non sono riuscito a riprodurre questo bug nella prima implementazione per Apple II.  Ma quello che mi dispiace ancora di più è che una borsa conservante mi sarebbe stata davvero utile in questo gioco.
(Aggiornamento: Sembrerebbe che il bug ci sia ancora. Sono io a non essere stato abbastanza scaltro da saperlo sfruttare. Leggete il commento di Nathan per i dettagli.)
 
[riportiamo di seguito la traduzione del commento dell'utente Nathan sul bug della barca; ndFestuceto]
 
Sono riuscito a riprodurre senza problemi il bug della "borsa conservante" nella release 15. Si deve raggruppare una serie di cose tutte insieme in un unico posto, più di quelle che si possono trasportare contemporaneamente. Poi se ne mette un po’ nella zattera, si sgonfia, quindi si raccoglie l’ammasso di plastica e il resto della propria roba. Ricordatevi però di non mettere per sbaglio la pompa nella zattera; a me è successo la prima volta! Se ricordo bene, si deve anche evitare di metterci dentro qualcosa che possa forare la zattera, come la spada o la torcia.
 
Dopo il Fiume Frigido, che scopriamo essere connesso con le location antistanti le Cascate Aragain, esploriamo la zona a nord della riserva. La miniera di carbone nasce come conseguenza della richiesta degli altri membri del team di Zork che avevano chiesto a Bruce Daniels una "sezione particolarmente cattiva”. La sua risposta inizialmente prevedeva un gigantesco labirinto simile all’altro gigantesco labirinto di Zork (di cui vi parlerò nel prossimo post). Il team però decise che, quando è troppo è troppo, e lo ridusse al numero ben più gestibile di sole quattro stanze. Nonostante questo, Tim Anderson lo citerà in seguito ugualmente come un "esempio di come si possono rendere le cose difficili, rendendole noiose". Nonostante questo, la miniera di carbone nella sua conformazione definitiva non è poi così "cattiva". Ha degli enigmi un po’ subdoli ma risolvibili, purché non si sia così stupidi da portare al suo interno una fiamma viva (es. la torcia). Una delle cose che si ottengono alla fine è un diamante (in un’altra delle interviste selezionate per Get LampDavid Welbourn osserva che in tutte le miniere di carbone dei giochi d’avventura sembra esserci un diamante. Se solo fosse così anche nella vita reale...)
 
Se escludiamo l’area del labirinto a ovest, adesso abbiamo esplorato tutta la zona sotterranea e ne abbiamo risolto tutti gli enigmi, escluso uno. Dobbiamo ancora occuparci della "LOUD ROOM".
 
>D
LOUD ROOM
THIS IS A LARGE ROOM WITH A CEILING
WHICH CANNOT BE DETECTED FROM THE
GROUND. THERE IS A NARROW PASSAGE FROM
EAST TO WEST AND A STONE STAIRWAY
LEADING UPWARD. THE ROOM IS DEAFENINGLY
LOUD WITH AN UNDETERMINED RUSHING SOUND.
THE SOUND SEEMS TO REVERBERATE FROM ALL
OF THE WALLS, MAKING IT DIFFICULT EVEN
TO THINK.
ON THE GROUND IS A LARGE PLATINUM BAR.
>GET BAR
BAR BAR ...
>BAR BAR
BAR BAR ...
>GET BAR BAR
BAR BAR ...
>L
L L ...
>LOOK
LOOK LOOK ...
 
Questa stanza sembra una sorta di ritorno al passato, a giochi più primitivi che erano costretti, dai parser a due parole e dai modelli limitati di mondo, a rimpiazzare degli enigmi ambientali relativamente sofisticati con un gameplay basato sull’indovinare la parola giusta. Il team di Zork invece voleva esplicitamente fin dall’inizio evitare le trappole dei primi parser, con la loro frustrante non specificità. Blank, parlando di Adventure: "Ci infastidiva davvero che se dicevi ‘prendi uccello’, il gioco metteva l’uccello nella gabbia al posto tuo; era un po’ come se facesse le cose alle nostre spalle." È per questa ragione che questo enigma e la sua soluzione ("ECO") appare un po’ come il tradimento di una specie di ideale.  
 
Ma le frustrazioni generate da questo enigma sono niente rispetto a quelle del labirinto, uno dei più vasti e difficili del suo genere nella storia delle avventure testuali. Nel prossimo post affronteremo questo mostro e andremo a finire il gioco.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
Se anche voi apprezzerete questo interessantissimo blog, non mancate di visitare la pagina ufficiale (in lingua inglese) e di sostenerlo tramite Patreon.

Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Giochi col Parser
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)



Benvenuti lettori temerari al consueto appuntamento con la traduzione ufficiale del The Digital Antiquarian, scritta dalla sapiente penna poliglotta del nostro The Ancient One e con la bislacca supervisione del sottoscritto: uno sforzo editoriale che si perpetua ormai da innumerevoli mesi e che raccoglie sempre più consensi e apprezzamenti.
Un lungo viaggio, dunque, che ci ha portati alla storia di Infocom e del primo grande successo commerciale nella storia delle avventure testuali, Zork. Ma, prima di addentrarci nel magico Regno Sotterraneo, L'Antiquario ci parlerà di un aspetto tecnico di importanza notevole per lo sviluppo delle avventure testuali: il parser. 
E come dimenticare la lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
– Giochi col Parser
– Esplorando Zork, Parte 1
– Esplorando Zork, Parte 2
– Esplorando Zork, Parte 3
– Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura avventurieri... e scegliete bene le parole!
 
Festuceto
 
Mi tufferò in maggior dettaglio dentro Zork nel mio prossimo post, ma prima mi sento in dovere di tornare in modo un po' più rigoroso sull'argomento che ho solo sfiorato nel primo post di questa serie: quanto era impressionante Zork nel mondo dei microcomputer del 1980-1981. Ho una tesi che vorrei illustrarvi, ma richiede un po' di teoria (ahia!). Ma, prima ancora, lasciatemi presentare lo scenario del nostro discorso, con alcune citazioni tratte dal progetto Get Lamp di Jason Scott.
 
“Due sono i prodotti che hanno venduto più computer di tutti gli altri: VisiCalc e Zork.” — Mike Berlyn
 
“Dopo la scuola andavamo in questo negozio e giocavamo a qualunque gioco ci fosse disponibile, oppure inserivamo personalmente il codice dei giochi, e mi ricordo anche di quando uscì Zork e lo giocavamo su Apple II, e ne eravamo semplicemente estasiati.” — Andrew Kaluzniacki
 
“La gente vedeva Zork e diceva: 'Lo voglio anche io, assolutamente sì. A chi intesto l'assegno?'” — Mike Berlyn
 
“Credo che ci sia stato un periodo di tempo, probabilmente fra l'80 e l'84, in cui, per un sacco di macchine, non c'era praticamente niente di lontanamente simile.” — Mike Dornbrook
 
Certo, il fatto che Berlyn metta Zork sullo stesso piano di un programma che ha definito un'intera industria come VisiCalc è forse un po' esagerato, ma dà un’idea di ciò di cui sto parlando. Affermazioni come quest'ultima oggi ci suonano ironiche, se non addirittura un po' tragiche. Nel giro di qualche anno da quel periodo (indicato da Dornbrook) che va dal 1980 al 1984, i publisher e gli appassionati avrebbero iniziato a individuare nella mancanza di un’attrattiva immediata delle IF, la ragione principale del declino delle fortune commerciali di tale genere (oltre ovviamente a lamentarsi dell'analfabetismo adolescenziale all'interno del segmento di popolazione che tipicamente fruiva dei videogiochi, e altri argomenti simili).
 
E, allora, cos'era che questi primissimi giocatori trovavano di così immediatamente attrattivo in Zork? Di certo il suo mondo non era solo più grande, ma anche modellato in un modo più rigoroso e più sofisticato di qualunque altra cosa si fosse mai vista prima. Di certo la scrittura (seppur a volte necessariamente sintetica a causa dei limiti di spazio) mostrava una certa verve e una certa nuance, oltre che -beh!- un'attenzione alla grammatica e all'ortografia che surclassava tutta la concorrenza. E di certo il suo gameplay era (seppur ancora afflitto da irritanti labirinti e da alcuni enigmi tragici) più equo della norma. Ma queste sono tutte cose che possono essere notate solo dagli appassionati di avventure testuali: il genere di cose che si palesa solo dopo aver passato un po' di ore dentro Zork e (almeno) un po' di ore con altri giochi del periodo. Invece, come illustrano bene le citazioni riportate qui sopra, la gente giocava Zork in negozio per qualche minuto e lo comprava in preda allo stupore. E forse, al di là dell'iperbole di Berlyn, a volte insieme comprava anche l'Apple II che serviva per giocarci. Perché? Credo che la risposta risieda nella relazione di amore-odio dei giochi d'avventura con il proprio parser.
 
In Joysprick, un libro su James Joyce, Anthony Burgess divide gli autori in due categorie (qui inserite liberamente la vostra barzelletta preferita che inizi con “C'erano due...”; fate con calma. Fatto? Bene...). Gli autori di Classe Uno si preoccupano esclusivamente dello storyworld (la realtà virtuale, se preferite) che vive “dietro” le loro parole. “Il contenuto diventa più importante dello stile, i referenti bramano di essere liberi dalle loro parole e di venir presentati direttamente come dati percepiti”. La “buona” scrittura, da questo punto di vista, è la scrittura che esiste esclusivamente per servire l’ambientazione e la storia che essa rivela, una scrittura che sa evocarle entrambe il più vividamente possibile, ma che al tempo stesso nasconde sé stessa dinanzi al lettore che con la sua immaginazione ricostruisce la sottostante realtà virtuale, rifiutandosi diligentemente di richiamare l’attenzione su di sé. Gli autori di Classe Due, all’opposto, sono preoccupati del loro linguaggio di per sé. I loro libri “sono fatti di parole, non meno che di personaggi”. A volte, come nel caso di Finnegans Wake o del capitolo “Sirene” dell’Ulysses, il linguaggio sembra essere l’unica cosa presente; la scrittura è tutta “superficie”. Alcuni potrebbero rimarcare che avere successo (o, almeno, provarci) su questo secondo piano è ciò che divide la “letteratura” dalla “fiction”. Ma noi ci terremo lontani da questo vaso di Pandora. Anzi, nel cercare di applicare questi concetti all’interactive fiction, mi asterrò dall’esprimere giudizi di valore.
 
Non voglio per ora applicare queste idee al testo che un’opera di IF mostra al giocatore, quanto piuttosto al testo che il giocatore vi immette (il parser, in altre parole). Non a caso, un modo per avvicinarsi alla narrativa interattiva è quella di considerarla una ricca realtà virtuale da abitare. Da questo punto di vista (quello di un giocatore di Classe Uno) il parser per lui esisterà solo come mezzo per iniettare le proprie scelte nel mondo, esattamente come un lettore di Classe Uno considera il testo come una finestra (idealmente il più trasparente possibile) attraverso cui osservare l’azione che si svolge nello storyworld. Questo è sempre stato il mio approccio di base all’interactive fiction, sia come giocatore che come scrittore. Visto che ormai in questo post mi sono concesso un sacco di citazioni dirette, lasciate che pecchi di modestia citando un mio precedente intervento sull’argomento. Nel 2008 ho scritto quanto segue, come commento al blog di Mike Rubin:
 
Credo che molte persone, incluso me stesso, abbiano effettivamente giocato a Facade come fosse una commedia, provando azioni sempre più oltraggiose per vedere cosa sarebbe successo, cercando cioè di arrivare a “rompere” il sistema. Mi permetto di osservare, però, che quando il giocatore inizia a fare ciò, è segno che il game designer ha, in una qualche misura, fallito. Ho infatti iniziato ad adottare un approccio ironico con Facade dopo aver provato numerose condotte ragionevoli a cui il gioco o non ha risposto affatto, o ha risposto in un modo che era palesemente inappropriato alle mie azioni. A quel punto per me la mimesi è crollata e ho iniziato a trattare il sistema come fosse un giocattolo ingegnoso, anziché come una narrativa interattiva immersiva. Ovviamente non c’è niente di male nel fallimento di Facade: è un concept rivoluzionario e dovrà necessariamente passare per molte altre iterazioni prima che possa sperare anche solo di avvicinarsi a un realismo completo.
 
Questo però solleva un punto: non credo che i giochi possano mantenere la propria mimesi rimproverando il giocatore, dicendogli in termini espliciti “di NO”, quando tenta di mangiarsi la spada o di colpire un amico. Dovremmo piuttosto impegnarci per rendere la nostra scrittura così buona, le nostre ambientazioni così credibili, e le nostre interazioni così lisce, che il giocatore sia assolutamente catturato dalla nostra storia, in modo che non gli venga mai in mente di mangiarsi la spada o di colpire gli amici, esattamente come non verrebbe mai in mente al suo avatar. Detto in altre parole, dobbiamo fare in modo che il giocatore DIVENTI davvero il suo avatar per tutto il poco tempo che giocherà.
 
Appena il gioco inizia ad andare in frantumi (per usare questa metafora)… è allora che il giocatore si ricorderà solo una stupida avventura testuale, ed è allora che inizierà a giocare per ridere, cercando di rompere più che mai il sistema. Io lo faccio ogni anno con almeno una dozzina di giochi dell’IFComp, cercando di RUBARE porte ed edifici, e più in generale di creare scompiglio nello storyworld. Del resto il divertimento sta dove lo si trova.
 
Ovviamente ci sono giocatori che affrontano ogni gioco con l’intenzione di romperlo. E alcuni potrebbero certamente considerare l’interactive fiction più interessante come un sistema con cui giocare che come storia, anche se penso che altri generi sarebbero più adatti per soddisfare questo loro bisogno. A questi giocatori dico: bene, divertitevi come più vi piace. Tuttavia credo che la maggior parte delle persone che giocano all’interactive fiction vi arrivino desiderando di essere immersi, per un po', in uno storyworld (e, sì, magari anche in una storia coerente) e di sperimentarlo attraverso gli occhi di qualcun altro. E le ricompense di un tale approccio devono essere infinitamente più grandi del provare azioni a caso per vedere dove sono collocati i confini della simulazione (per quanto anche questo possa risultare divertente).  
 
(Ma non avevamo detto qualcosa sul non esprimere giudizi di valore? Mi è passato di mente...)
 
Premesso questo, la gente che si meravigliava dinanzi a Zork nei negozi di computer non reagiva considerandolo una narrazione profonda e immersiva, né tantomeno un gioco d’avventura estremamente sofisticato. Lo stupore era tutto riservato al parser, inteso come oggetto (giocattolo) di per sé. Perché, nonostante le limitazioni di spazio entro cui dovevano lavorare, alla Infocom si ritagliarono dello spazio per le risposte ironiche proprio a quel genere di input, fuori di testa e privo di senso, che la gente di passaggio in un negozio di computer poteva inserire.
 
WEST OF HOUSE
YOU ARE STANDING IN AN OPEN FIELD WEST
OF A WHITE HOUSE, WITH A BOARDED FRONT
DOOR.
THERE IS A SMALL MAILBOX HERE.
>FUCK
SUCH LANGUAGE IN A HIGH-CLASS
ESTABLISHMENT LIKE THIS!
>SHIT
YOU OUGHT TO BE ASHAMED OF YOURSELF.
>TAKE ME
HOW ROMANTIC!
>ZORK
AT YOUR SERVICE!
>XYZZY
A HOLLOW VOICE SAYS 'CRETIN'.
>FIND HOUSE
IT'S RIGHT IN FRONT OF YOU. ARE YOU
BLIND OR SOMETHING?
>FIND HANDS
WITHIN SIX FEET OF YOUR HEAD, ASSUMING
YOU HAVEN'T LEFT THAT SOMEWHERE.
>FIND ME
YOU'RE AROUND HERE SOMEWHERE...
>CHOMP
I DON'T KNOW HOW TO DO THAT. I WIN IN
ALL CASES!
>WIN
NATURALLY!
>SIGH
YOU'LL HAVE TO SPEAK UP IF YOU EXPECT ME
TO HEAR YOU!
>REPENT
IT COULD VERY WELL BE TOO LATE!
>WHAT IS A GRUE?
THE GRUE IS A SINISTER, LURKING PRESENCE
IN THE DARK PLACES OF THE EARTH. ITS
FAVORITE DIET IS ADVENTURERS, BUT ITS
INSATIABLE APPETITE IS TEMPERED BY ITS
FEAR OF LIGHT. NO GRUE HAS EVER BEEN
SEEN BY THE LIGHT OF DAY, AND FEW HAVE
SURVIVED ITS FEARSOME JAWS TO TELL THE
TALE.
>WHAT IS A ZORKMID?
THE ZORKMID IS THE UNIT OF CURRENCY OF
THE GREAT UNDERGROUND EMPIRE.
>YELL
AAAARRRRGGGGHHHH!
 
Questo significa giocare a Zork come fosse Eliza: scoprire che risposte sono prodotte da questo o quell’input, in cerca dei limiti. Come dimostrato da alcuni recenti esperimenti, questa modalità di interazione è ancora oggi sostanzialmente la norma per i principianti che affrontano un’opera di narrativa interattiva per la prima volta. Nel 1981, quando i computer non erano ancora stati compresi così bene e per la maggior parte delle persone erano ancora qualcosa di vagamente magico (se non persino qualcosa di inquietante), l’idea di digitare qualcosa (specialmente qualcosa di poco pertinente al contesto o addirittura completamente inappropriato) ed essere ugualmente "compresi", era davvero molto potente e richiamava alla mente HAL e il computer parlante dell’Enterprise.
 
Ma perché vi dico tutto questo? Non sono così sicuro che ci sia qualcosa da imparare in tutto ciò. Dopo un po’ di tempo, giocare col parser e cercare di rompere le cose perde di fascino, e il giocatore o inizia ad appassionarsi allo storyworld e alla narrazione, oppure semplicemente passa ad altro. Da qui l’irrequietezza che esprimo sopra per i giocatori che non sembrano in grado di andare oltre il trionfo che scaturisce dal constatare che sì, senza troppi sforzi è possibile rompere il parser e con ogni probabilità anche la simulazione del mondo. Oltre dieci anni dopo Zork, un’avventura grafica chiamata Myst divenne per alcuni anni il gioco per computer più venduto di sempre. Spesso veniva definito il bestseller meno giocato di sempre. La gente lo comprava per ostentare le proprie nuove schede grafiche, le schede sonore, e i lettori CD-ROM, nel bel mezzo del boom dei “PC Multimediali” degli anni ‘90, ma resterei sorpreso se anche solo un dieci percento di loro si fosse seriamente appassionato ai suoi intricati enigmi intellettuali o avesse compiuto un vero sforzo per finirlo. In modo del tutto analogo, sospetto che molte delle copie di Zork esistevano più come qualcosa da tirar fuori alle feste, piuttosto che come genuina passione di coloro che le possedevano.
 
Ora però non iniziate a stampare le vostre t-shirt con la scritta “Io apprezzo Zork ad un livello molto più profondo di voi”, perché è pur vero che nessuno di noi è mai diventato fino in fondo un giocatore di Classe Uno. Ecco un’altra citazione ancora da Get Lamp, stavolta di Bob Bates, che cattura bene “gli avanti e indietro” che compongono gran parte dei piaceri delle avventure testuali:
 
“Molti giochi prevedano solo la parte del ‘se’, che poi sarebbe il percorso principale attraverso il gioco, di cui parlavo prima. Se il giocatore fa esattamente questo e tutto va bene, allora il gioco risponde così e tutto va avanti. Ma c’è sempre anche ‘altro’. E se il giocatore non facesse ciò che dovrebbe? Che succede se gli viene questa strana idea, o se digita quella o quell’altra cosa stramba che vuole provare semplicemente per vedere se il gioco si rompe? Così, tanto per vedere dove sono i confini. Ecco, questo fa parte del divertimento di giocare a un’avventura testuale, nonché parte del divertimento (una GRANDE parte del divertimento) del crearle; io infatti mi immagino un dialogo con il giocatore, così che alla fine quando il giocatore fa questa cosa estremamente strana e nel farla esclama ‘ah, nessuno può aver pensato di fare questo!’ e poi ‘Oh, cielo! Quella non è una risposta standard! Anche l’autore ci aveva pensato!’. Questo aiuta a forgiare un legame fra te e l’autore. ‘Quel tizio è strambo quanto me. Io e lui pensiamo nello stesso modo.’”
 
Quindi un motto per il successo di una buona avventura testuale potrebbe essere: attraili e affascinali con il parser, ma trattienili con il tuo storyworld. Con lo spirito di essere trattenuti con lo storyworld, la prossima volta indosseremo le nostre divise da giocatori di Classe Uno e ci avventureremo nel Grande Impero Sotterraneo. Stavolta davvero, promesso. 

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Come Vendettero Zork
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)



Rieccoci fedeli lettori al nostro appuntamento settimanale con l'Avventura (con la "A" maiuscola). E dopo aver esplorato gli aspetti tecnici dello sviluppo di Zork e della sua incredibile conversione per le umili piattaforme casalinghe dell'epoca, il sapiente Antiquario ci racconterà di quando la neonata Infocom impegnò tutte le risorse di cui disponeva per presentare la propria creatura al grande pubblico.
Nel 1980 il mercato videoludico era praticamente agli albori
 e le avventure testuali in circolazione erano, più o meno, quelle di Scott Adams pubblicate dalla Adventure International e poco altro...niente a che vedere con Zork!
 
Ma prima, l'imperdibile lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
– Come Vendettero Zork
– Giochi col Parser
– Esplorando Zork, Parte 1
– Esplorando Zork, Parte 2
– Esplorando Zork, Parte 3
– Infocom: Come Cavarsela da Soli
– Zork II, Parte 1
– Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
– Zork III, Parte 1
– Zork III, Parte 2
 
Buona lettura avventurieri... e raccogliete tanti zorkmid!
 
Festuceto
 
Quando ci siamo lasciati, era la fine dell'estate del 1979 e sette dei nove soci della Infocom vivevano a Boston, ognuno col proprio lavoro a tempo pieno, discutendo -quando il tempo lo permetteva- di quello che avrebbe dovuto fare la loro società nuova di zecca. Nel frattempo gli altri due soci, Marc Blank e Joel Berez vivevano a Pittsburgh e stavano affrontando il problema in modo più pratico, progettando (per ora interamente su carta) un sistema che permettesse di convertire Zork (o almeno una buona metà di Zork) dal PDP-10 ai microcomputer. Mentre Blank e Berez continuavano il proprio lavoro in quell'autunno, si convincevano sempre di più che, sì, la loro idea avrebbe potuto funzionare e così iniziarono a fare pressioni sugli altri di Boston per fare in modo che Zork diventasse il primo progetto della Infocom. Il loro piano era così allettante che alla fine persino il riluttante Al Vezza accettò.
 
In quel periodo Berez era stato ammesso a un programma di economia post-laurea alla Sloan School of Management del MIT; così quel Novembre rientrò a Boston per frequentare – e per assumere la carica di Presidente di una Infocom ancora esistente principalmente sulla carta. Dinanzi alla prospettiva di restare intrappolato da solo a Pittsburgh mentre i suoi amici implementavano il suo progetto, Blank prese la decisione -importantissima sul piano personale- di lasciare l’internato medico e trasferirsi a Boston. Così, all’alba dell’anno 1980, la proverbiale banda era di nuovo riunita e i lavori sul nuovo Zork procedevano di buona lena.
 
Con i loro rapporti al MIT e alla DEC, del tempo su un PDP-10 non era poi difficile da recuperare, anche se tutti quelli della Infocom avevano ormai ufficialmente lasciato il MIT. Nonostante il loro scopo finale fosse quello di vendere Zork sui microcomputer, in questa fase la Infocom continuava a lavorare interamente sul PDP-10; probabilmente il vecchio motto “Noi odiamo i micro!” non era ancora  completamente passato di moda. Blank e Lebling scrissero sul PDP-10 l’intero sistema di sviluppo ZIL, incluso il compilatore, nonché (per poter fare delle prove) la prima versione funzionante della macchina virtuale Z-Machine. Sorprendentemente, il progetto astratto che Blank e Berez avevano ideato su dei tovagliolini e su dei pezzi di carta usata, si rivelò perfettamente funzionante nella realtà. Come dicevo nel mio ultimo post, implementare di nuovo il gioco in ZIL diede loro l’opportunità di migliorare ancora da diversi punti di vista l’originale Zork.
 
Perfino quando arrivò il momento di abbandonare il PDP-10, le preferenze della Infocom restarono evidenti: la seconda implementazione della Z-Machine non era né per la macchina della Radio Shack, né per quella della Apple, bensì per un DEC PDP-11. Se il PDP-10 era l’ammiraglia della DEC (tanto grande e potente che forse si meriterebbe di essere etichettato come mainframe piuttosto che come minicomputer), il PDP-11 era un modello più piccolo, più economico, pensato per “portare il pane a casa”. Si stima che la DEC ne avesse venduti più di 170.000 nei soli anni ‘70. Relativamente trasportabile (se la possibilità di trasportare un computer con un singolo camioncino lo rende “trasportabile”) e senza che necessiti di un pavimento sopraelevato o di altre macchinazioni da "data-center", i PDP-11 erano ovunque: nelle fabbriche, nei laboratori, nei centri di controllo del traffico aereo, e… nella camera da letto di Joel Berez (!!!). In un certo senso il PDP-11 aveva già il suo Zork, essendo stata la prima piattaforma su cui fu creato il porting in FORTRAN di Dungeon, ma ciò non fermò la Infocom dal rendere lo Zork per PDP-11 il suo primo prodotto commerciale. Nonostante la diffusione del PDP-11, il suo mercato non era esattamente una roccaforte del gaming: è riportato che Zork su quella piattaforma vendette meno di 100 copie (una delle quali di recente è apparsa su eBay: sul sito di "Get Lamp" di Jason Scott trovate una scansione del suo manuale, sorprendentemente completa, seppur battuta a macchina e ciclostilata [Il link originale è stato rimosso, ma potete trovare una copia del manuale qui, ndFestuceto]). Era del tutto evidente che la Infocom doveva convertire Zork per i microcomputer.
 
In questo spirito, la Infocom comprò un sistema TRS-80 e Scott Cutler (uno dei pochi soci che avesse avuto una qualche esperienza con i microcomputer) si mise al lavoro, con l’aiuto di Blank, per  costruire un’ apposita Z-Machine. Il momento della verità era arrivato:
 
Scott e Marc dimostrarono che Zork I poteva vivere al suo interno, avviando il gioco e riuscendo a fare dei punti con l’incantamento “N.E.OPEN.IN.” (che di certo non sono meno memorabili del “Come here, Mr. Watson; I want you!” di Alexander Graham Bell). 
 
È sempre un momento teso quando un progetto finalmente prende vita e mostra qualcosa di concreto. Ricordo ancora quanto fossi eccitato quando il mio personalissimo interprete di Z-Machine, Filfre, visualizzò il testo d’apertura del primo gioco con cui avevo deciso di provarlo, Infidel. Posso solo immaginare l’eccitazione di Blank e Cutler, quando tutto questo era così nuovo e la posta in gioco era così tanto più alta. Quel che conta però è che l’idea della Z-Machine funzionò. Quando il giocò fu completamente giocabile, la Infocom (erede di una lunga tradizione di informatica istituzionale che faceva le cose come dovevano essere fatte) fece qualcosa di virtualmente senza precedenti per un gioco per microcomputer: sottopose il proprio gioco a una fase di betatesting rigorosa e ripetuta. Il suo tester principale fu uno studente del MIT chiamato Mike Dornbrook, che si era innamorato del gioco al punto di diventarne oltremodo ossessionato, tracciando delle bellissime mappe dettagliate della sua geografia e lavorando sodo per affinare non solo i problemi tecnici ma anche gli enigmi peggiori e le difficoltà del parser (se solo in quei primi tempi la On-Line Systems, Scott Adams, e gli altri sviluppatori avessero avuto una pazienza simile e altrettanta dedizione alla qualità...)
 
Se si esclude il betatest che era ancora in corso, la Infocom a quel punto aveva un vero prodotto da commercializzare. Ora dovevano solo decidere come lo avrebbero venduto. Un’opzione era quella di fare ciò che Ken Williams stava decidendo di fare più o meno proprio in quel periodo: provarci da soli. Tuttavia, data la poca esperienza e la scarsa conoscenza della giovane industria dei microcomputer, ciò sembrò rischioso e nessuno dei soci era poi così eccitato all’idea di inventarsi un packaging e di duplicare migliaia (questa, almeno, era la speranza) di dischi. Iniziarono quindi a proporre Zork a vari publisher. Un tentativo con Microsoft fu respinto dal dipartimento di marketing: avevano già la loro avventura testuale (niente di meno che Adventure in persona) e evidentemente credevano che una fosse più che sufficiente per un singolo publisher. In seguito Bill Gates (che era stato un fan di Zork sul PDP-10) seppe dell’offerta e provò a riaprire la trattativa, ma a quel punto la Infocom stava già trattando con Dan Fylstra della Personal Software, facendo dello Zork della Microsoft un qualcosa di affascinante che sarebbe potuto essere ma non è mai stato.
 
Personal Software oggi è stata quasi completamente dimenticata, ma all’epoca era la stella più luminosa della giovane industria, in grado di eclissare facilmente anche la Microsoft. Fondata da  Peter R. Jennings e Dan Fylstra, fondatori della seminale rivista Byte, la Personal Software trovò la sua miniera d’oro nel 1979, quando raggiunse un accordo con Dan Bricklin e Bob Frankston per la pubblicazione del loro VisiCalc per l’Apple II. Col supporto di un’intelligente campagna promozionale da parte della Personal Software (che enfatizzava opportunamente la natura rivoluzionaria di questo prodotto autenticamente rivoluzionario), al tempo in cui la Infocom si presentò a bussare alla porta del publisher, VisiCalc era sulla bocca di tutto il mondo degli affari, diventando la hit della giovane industria dei microcomputer e arrivando così a vendere centinaia di migliaia di copie. VisiCalc non solo fece della Personal Software il più grande publisher del pianeta, nonché l’oggetto di articoli su riviste come il Time, ma gli conferì anche un enorme potere all’interno del settore. Questo potere si estendeva perfino sulla Apple stessa: un numero infinito di clienti metteva il carro davanti ai buoi, e comprava gli Apple II solo per avere un computer su cui far girare la loro nuova copia di VisiCalc. Fu, insomma, la prima “killer application” dell’era dei PC, e come tale vendette tutti gli Apple II che ciò comportava. Con così tanti soldi e con un tale potere, la Personal Software non sembrò alla Infocom una brutta strada per far uscire il loro nuovo gioco. Fylstra aveva frequentato la scuola di economia al MIT, dove aveva conosciuto sia Vezza che la versione PDP-10 del gioco. Non fu quindi troppo difficile per Berez e Vezza chiudere la trattativa, che incluse anche un anticipo sulle future royalty, aspetto questo per loro assolutamente indispensabile, giacché la Infocom aveva sostanzialmente già speso i suoi 11.500 $ iniziali in hardware, betatester, e tempo sul PDP-10.
 
Nel mezzo dei rispettivi compiti, gli altri soci scrissero anche un paio di articoli per le riviste, che servissero per stimolare un po’ l’attenzione. “Come far entrare un programma grande in una macchina piccola”, una spiegazione un po’ evanescente dei concetti di virtual machine e di virtual memory, apparso nel numero di Luglio di Creative Computing; e “Zork e il futuro delle simulazioni fantasy su computer”, un articolo più teorico sulla nascente arte delle avventure testuali, apparso nel grande numero dedicato alle avventure di Byte di dicembre. Non avendo ancora adottato l’elegante nome di “interactive fiction”, in questo secondo articolo Lebling affibbiò a Zork e ai suoi simili l’etichetta (alquanto scomoda) di “computerized fantasy simulations” (“CFS”). La versione per TRS-80 di Zork stava ormai per sbarcare sul mercato sotto l’ombrello della Personal Software.
 
Le vendite iniziali non furono eccezionali: la versione TRS-80 vendette circa 1.500 copie nei suoi primi nove mesi. Questi numeri possono forse essere in parte spiegati con il marketing poco convinto e privo di immaginazione della Personal Software, che (alla luce del colosso VisiCalc) era sempre meno convinta di voler essere coinvolta nel mercato videoludico. È altresì vero che il mercato del software per TRS-80 non ha mai prosperato nel modo che ci si potrebbe aspettare se lo paragoniamo alle vendite del rispettivo hardware. Uno dei colpevoli principali era da ricercarsi nelle politiche di Radio Shack. Radio Shack insisteva infatti nel voler vendere nei propri negozi solo il software pubblicato sotto la propria etichetta. E al tempo stesso offriva agli sviluppatori delle royalty davvero modeste se confrontate col resto dell’industria, rifiutandosi perfino di attribuirgli adeguatamente la paternità del prodotto sul software stesso, preferendo promuovere l’immagine di una caritatevole Tandy Corporation che apparentemente generava immacolate creazioni software direttamente dal suo didietro. Nel frattempo i proprietari dei negozi di computer (come quelli di ComputerLand, che stavano esplodendo in tutta la nazione) lasciarono Radio Shack da sola a vendere e a occuparsi delle proprie macchine, concentrandosi piuttosto su altre piattaforme. È probabile che lo Zork per TRS-80 fosse finito, almeno in parte, in questa specie di buco nero distributivo, che stava già trasformando il TRS-80 in uno sconfitto, in contrasto con il nuovo gioiellino dell’industria dei microcomputer, l’Apple II. Infatti, quello stesso dicembre la Apple si quotò in borsa, facendo seduta stante dei suoi fondatori e di altre 300 persone, dei miliardari: la prima grande Offerta Pubblica Iniziale del mercato tech, il segno che presto “l’industria dei microcomputer” sarebbe diventata semplicemente “l’industria dei computer”.
 
A proposito dell’Apple II, Bruce Daniels (l’unico membro del team originale di Zork che all’epoca non si era associato alla Infocom) aveva accettato un posto alla Apple, trasferendosi in California dopo la laurea. Accettò di creare sotto contratto la Z-Machine per l’Apple II. Lo Zork dell’Apple II fu così pubblicato nel Febbraio del 1981 e fece molto meglio della versione per TRS-80, vendendo costantemente circa 1.000 copie al mese. Adesso la Infocom aveva finalmente un flusso costante di introiti, oltre all’infrastruttura tecnologica di base (lo ZIL e la Z-Machine) che avrebbe caratterizzato la società per il resto della sua vita. Le cose iniziavano ad andare per il verso giusto, ma dei risvolti imprevisti erano già all’orizzonte.
 
Ve ne parlerò molto presto, ma la prossima volta voglio lasciare da parte la realtà storica in favore di quella virtuale. Ebbene sì, faremo un piccolo viaggio nel Grande Impero Sotterraneo di Zork.

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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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ZIL e la Z-Machine
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)


Bentrovati fedeli lettori di OldGamesItalia e del Digital Antiquarian, vi siete mai chiesti come sia possibile giocare a Zork sui moderni computer e tablet? Nulla di più semplice: per prima cosa, come ogni avventuriero che si rispetti, munitevi di foglio e matita, poi scaricate la nostra epica traduzione di Zork, infine procuratevi un interprete di Z-Machine.
La Z-Machine, ecco, è solo grazie alla mitica "Macchina Z" se Zork e la sua ricca eredità sono stati convertiti per una moltitudine di piattaforme e giocati da milioni di persone per decenni fino ai giorni nostri, un'impresa che nel 1979 era quasi impossibile... ma non per Joel Berez e Marc Blank
L'Antiquario ci trasporta in quel delicato momento della storia di Infocom.
 
La rassicurante lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
 
Lo ZIL e la Z-Machine
Come Vendettero Zork
Giochi col Parser
Esplorando Zork, Parte 1
Esplorando Zork, Parte 2
Esplorando Zork, Parte 3
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura avventurieri... e non perdete la bussola!
 
Festuceto
 
Quando ci siamo lasciati l’ultima volta, Marc Blank e Joel Berez stavano valutando come portare Zork sui microcomputer. In realtà stavano cercando di risolvere tre problemi interconnessi. A costo di risultare pedante, lasciate che ve li riassuma:
 
1. Come portare Zork (un gioco enorme, che consumava 1 MB di memoria sul PDP-10) sui microcomputer di fascia più bassa che avevano selezionato: Apple II o TRS-80 con 32 K di RAM e un singolo floppy-disk.
 
2. Come farlo in modo che fosse facilmente convertibile per altre piattaforme, affinché fosse il più indolore possibile trasportare Zork non solo sull’Apple II e sul TRS-80, ma anche (se tutto fosse andato bene) sulle molte altre piattaforme incompatibili, presenti e future.
 
3. Come usare il codice sorgente esistente di Zork in MDL come base per una nuova versione per microcomputer, piuttosto che dover ripartire da zero e implementare da capo il gioco su un qualche nuovo ambiente di programmazione.
 
Volendo potete considerare questo elenco come una classifica di problemi in ordine di importanza, da “assolutamente essenziale” fino a “non sarebbe male”. Ma non è strettamente necessario, perché -come vedremo di qui a poco- Blank e Berez (col successivo aiuto degli altri) riuscirono a risolverli tutti in modo assolutamente brillante. Vorrei potermi occupare singolarmente di ognuno di questi problemi, ma (come sa chiunque si sia cimentato con delle complicate mansioni di programmazione) le soluzioni tendono a intrecciarsi l’una con l’altra. Quindi mi limiterò a chiedervi di tenere a mente questi tre obbiettivi, mentre io vi spiegherò come funzionava nel suo insieme il progetto di Blank e Berez.
 
Quando ci troviamo davanti a un gioco troppo grande per essere accomodato in un nuovo ambiente, la soluzione più ovvia sarebbe quella di rendere semplicemente il gioco più piccolo, rimuovendo dei contenuti. E questa è appunto una di quelle cose che la Infocom fece con Zork. Stu Galley:
 
Dave esaminò la sua mappa completa di Zork e tracciò un confine intorno a una porzione della stessa che includeva circa 100 location: tutte le stanze all’aperto e un’ampia sezione intorno alla Round Room. Lo scopo era quello di creare uno Zork più piccolo, che rientrasse nei limiti fissati dal progetto di Joel e Marc. Tutto quello che restava fuori sarebbe stato messo da parte per un altro gioco, da realizzare in un altro momento.
 
Dimezzando il mondo di Zork, la Infocom potette ridurre drasticamente le dimensioni del gioco. 191 stanze divennero 110; 211 oggetti divennero 117; 911 parole conosciute dal parser divennero 617. Non era la soluzione definitiva ai loro problemi, ma di certo aiutava, lasciandoli comunque con in mano un gioco enorme, delle dimensioni approssimative simili a quelle dell’originale Adventure come numero di stanze, ma capace comunque di annichilirlo in termini di oggetti e di parole, e che era comunque più grande di ogni altro gioco d’avventura per microcomputer. E, come spiega Galley qui sopra, li lasciava comunque in possesso di abbondante materiale con cui costruire un possibile seguito.
 
Altri risparmi potevano essere conseguiti spostando l’attenzione sul compilatore per MDL. Essendo un linguaggio progettato per eseguire molti compiti di computazione generici, molte delle capacità dell’MDL risultavano ovviamente inutilizzate in un gioco d’avventura come Zork. Ma, anche se inutilizzate, esse consumavano comunque memoria preziosa. La Infocom dette un paio di sforbiciate all’MDL, proprio come avevano fatto con il mondo di Zork, eliminando le librerie e la sintassi superflua, e tenendo solo ciò che era strettamente necessario per implementare un gioco d’avventura. Chiamarono il nuovo linguaggio ZIL (Zork Implementation Language [“Linguaggio per l’Implementazione di Zork”; ndAncient]), mentre il compilatore che attivava il linguaggio (che girava ancora su un PDP-1) lo chiamarono Zilch. Lo ZIL restò abbastanza simile, come sintassi e impostazione di base, all’MDL, tanto è vero che convertire Zork verso lo ZIL fu piuttosto indolore, ma nonostante ciò il nuovo linguaggio non solo produceva degli eseguibili più compatti e più veloci, ma era anche molto più pulito sintatticamente. Infatti lo ZIL incoraggiò la Infocom non solo a convertire Zork per il nuovo linguaggio, ma anche a migliorarlo da molti punti di vista; in particolare fu il parser che, implementato nel più congeniale ZIL, divenne ancora migliore.
 
Questa è la lanterna di Zork in MDL:
 
<OBJECT ["LAMP" "LANTE" "LIGHT"]
["BRASS"]
"lamp"
<+ ,OVISON ,TAKEBIT ,LIGHTBIT>
LANTERN
()
(ODESCO "A battery-powered brass lantern is on the trophy case."
ODESC1 "There is a brass lantern (battery-powered) here."
OSIZE 15
OLINT [0 >])>
 
E questo è il medesimo oggetto in ZIL:
 
<OBJECT LANTERN
                (LOC LIVING-ROOM)
                (SYNONYM LAMP LANTERN LIGHT)
                (ADJECTIVE BRASS)
                (DESC "brass lantern")
                (FLAGS TAKEBIT LIGHTBIT)
                (ACTION LANTERN-F)
                (FDESC "A battery-powered lantern is on the trophy
               case.")
                (LDESC "There is a brass lantern (battery-powered)
               here.")
                (SIZE 15)>
 
Per i posteri darò una veloce spiegazione del codice ZIL mostrato qui sopra. La prima linea semplicemente ci dice che quel che segue descriverà un oggetto chiamato “lanterna”. La linea successiva ci dice che esso si trova nel soggiorno della casa bianca. Poi vediamo che il giocatore si può riferire a esso anche con i termini “lamp,” “lantern,” or “light,”, con l’aggettivo opzionale di “d’ottone” (che del resto può rivelarsi utile per distinguerla dalla lanterna rotta che si trova in un’altra zona del gioco). Quella che viene chiamata descrizione breve (e cioè, con maggior precisione, il nome col quale appare nell’inventario e in altri punti dove deve essere inserito nel testo) è “lanterna d’ottone”. Il flag TAKEBIT indica che è un oggetto che il giocatore può raccogliere e portare in giro con sé; il flag LIGHTBIT significa che proietta luce, illuminando qualunque stanza buia in cui viene lasciato o trasportato.  LANTERN-F è la speciale routine d’azione della lanterna: un pezzo di codice che ci permette di scrivere delle “regole” speciali per la lanterna, che valgono solo per essa, come ad esempio le routine che permettono al giocatore di accenderla e di spegnerla (come ho spiegato in precedenza, questo livello di programmabilità e il conseguente approccio “orientato agli oggetti” era ciò che davvero contraddistingueva l’MDL -e di conseguenza lo ZIL- da tutti gli altri sistemi di sviluppo di avventure testuali dell’epoca). FDESC è la descrizione della lanterna che appare prima che essa sia spostata, e quindi come parte della descrizione della stanza del soggiorno; LDESC invece appare dopo che l’oggetto è stato spostato e depositato altrove. Per finire, SIZE determina le dimensioni e il peso della lanterna ai fini di stabilire quanto il personaggio possa trasportare con sé in un certo momento. Vi lascerò come esercizio quello di tradurre il più caotico codice per MDL...
 
E così a questo punto la Infocom aveva in gran parte risolto il problema n° 3 e aveva fatto dei grandi passi in avanti con il problema n° 1. Il che però li lasciava ancora con in mano il problema n° 2. Probabilmente state pensando che fosse abbastanza facile progettare un’accoppiata engine/database simile a quella ideata da Scott Adams. La verità però è che era assai problematico. Vi ricorderete infatti che una delle cose che rendevano unico l’ambiente di sviluppo di Zork (che fosse l’MDL o lo ZIL) era la sua programmabilità. Passare a una soluzione simile a quella di Adams avrebbe significato sacrificare proprio questo e, nel mezzo, anche lo ZIL. Perché lo ZIL funzionasse doveva poter eseguire del codice che gli consentisse di gestire le interazioni speciali (come, appunto, l’accensione e lo spegnimento della lanterna); doveva, in altre parole, essere un vero linguaggio di programmazione “Turing-complete” e non un mero sistema di inserimento dati. Ma come riuscirci senza rinunciare ad avere un sistema che fosse anche portabile da macchina a macchina (incompatibile)? La risposta: avrebbero ideato una macchina virtuale, un computer immaginario ottimizzato proprio per giocare alle avventure testuali (proprio come lo ZIL era ottimizzato per scriverle) e poi avrebbero scritto il codice di un interprete che avrebbe simulato quel computer su ogni piattaforma per cui avrebbero voluto pubblicare Zork.
 
Oggi le macchine virtuali sono ovunque. Le app del vostro smartphone Android in realtà girano dentro una virtual machine. Potete utilizzare qualcosa tipo VMWare sul vostro computer per utilizzare Linux dentro Windows, o viceversa. I grandi mainframe e, sempre di più, anche i server di fascia alta hanno sistemi operativi tipo Linux che funzionano all’interno di macchine virtuali astratte dal sottostante hardware; ciò, fra i vari benefici, permette anche di suddividere un unico gigantesco mainframe in tanti mainframe più piccoli. A parte gli scenari di questo tipo, le virtual machine sono così interessanti essenzialmente per due motivi; e virtualmente (ah!) chiunque decida di usarle lo fa per un motivo o per l’altro, o per entrambi. Innanzitutto sono molto più sicure. Se un codice malevolo (come un virus) viene introdotto in una macchina virtuale, rimane al suo interno, anziché infettare l’intero sistema che la ospita, e il codice che manda in crash la virtual machine (che lo faccia intenzionalmente o accidentalmente) in realtà manda in crash solo la virtual machine stessa, e non tutto il sistema che la ospita. La seconda cosa è che una virtual machine consente di eseguire lo stesso programma su macchine che sarebbero altrimenti incompatibili. È un caso di “scrivilo una volta e poi gira ovunque”, come erano soliti ripetere i sostenitori di Java. Nel loro caso, ogni piattaforma su cui doveva girare il programma in questione doveva solo essere dotata di un’implementazione aggiornata della virtual machine di Java (non necessariamente il linguaggio, anche solo la virtual machine). Le macchine virtuali hanno però anche un grosso svantaggio: poiché la piattaforma che le ospita sta emulando un altro computer, tendono a essere molto più lente dello stesso codice sorgente eseguito direttamente sulla propria piattaforma (lo so, tecnologie come la compilazione just-in-time possono fare molto per alleviare questo difetto, ma qui non è il caso di addentrarsi ulteriormente nell’argomento). Tuttavia oggi il potere computazionale è poco costoso e molto diffuso, e quindi questo in genere non è un grande problema. E infatti la situazione attuale può diventare a tratti anche abbastanza ridicola: la mia versione per Kindle di The King of Shreds and Patches è costruita su una virtual machine (Glulx) che viene eseguita dentro un’altra virtual machine (quella di Java), il tutto eseguito su un minuscolo lettore portatile... e nonostante questo le performance restano accettabili.
 
Già nel 1979 le virtual machine non erano un’idea nuova. Fra il 1965 e il 1967 un team dell’IBM aveva lavorato in stretto contatto con il Lincoln Laboratory del MIT per creare un sistema operativo chiamato CP-40, nel quale fino a 14 utenti potevano loggarsi all'interno di un proprio computer mono-utente, interamente simulato da un software eseguito su un grande mainframe della IBM. In seguito il CP-40 divenne la base del sistema operativo opportunamente chiamato VM, pubblicato per la prima volta dalla IBM nel 1972 e ancora oggi largamente usato sui mainframe odierni. Nel 1978 un’implementazione in Pascal, nota come UCSD Pascal introdusse la P-Machine, una macchina virtuale portatile che consentiva ai programmi scritti in UCSD Pascal di girare su molte macchine diverse, incluso perfino l’Apple II (in seguito alla pubblicazione dell’Apple Pascal nell’agosto del 1979). Proprio la P-Machine ebbe una grande influenza sulla virtual machine della Infocom, la Z-Machine.
 
Nell’optare per una virtual machine, dovettero ovviamente pagare (come con ogni altra virtual machine) la penalità in termini di performance, ma essa non era troppo severa come invece ci si aspetterebbe. Proprio come avevano ottimizzato lo ZIL, Blank e Berez resero infatti la Z-Machine il più leggera ed efficiente possibile, includendovi solo quelle caratteristiche davvero utili per eseguire un’avventura testuale. E poi avrebbero implementato l’interprete di ogni piattaforma solo in un linguaggio assembly altamente ottimizzato, col risultato che Zork (pur girando all’interno di una virtual machine) girava comunque molto, molto più velocemente delle tipiche avventure scritte in BASIC di quegli anni. E infatti il potere computazionale dei microcomputer, per quanto limitato, non era mai stato la loro preoccupazione principale durante la conversione di Zork: il vero collo di bottiglia era la memoria. Sì, avrebbero dovuto sacrificare della memoria aggiuntiva per l’interprete, ma ne avrebbero risparmiata ancora di più lavorando sull’efficienza della Z-Machine. Per esempio, una speciale codifica gli permetteva di immagazzinare la maggior parte dei caratteri in 5 bit invece che in 8 bit, e gli permetteva di rimpiazzare le parole più comunemente usate con delle loro abbreviazioni. Una tale compressione del testo era molto rilevante, specie se consideriamo che, dopotutto, è il testo che compone la maggior parte di un'avventura testuale. Con tali tecniche di compressione, insieme alle sforbiciate al gioco stesso e al linguaggio ZIL, finirono per avere un gioco di soli 77 K di dimensioni, senza ovviamente considerare l’interprete della macchina virtuale che era necessario per eseguirlo; quest’ultimo fu chiamato Zip (da non confondersi ovviamente con il formato di compressione dei file). Il file del gioco da 77 K, che la Infocom iniziò a chiamare “story file” [“file della storia”; ndAncient] è sostanzialmente uno "snapshot" della memoria della virtual machine.
 
Quando parliamo di capacità di immagazzinamento di un computer, in realtà stiamo parlando (confondendo così genitori e nonni di tutto il mondo) di due quantità separate: la capacità su disco e la capacità di memoria (RAM). Un Apple II poteva contenere 140 K su un singolo dischetto, mentre il TRS-80 in realtà faceva un po’ meglio con i suoi 180 K. E così ora la Infocom aveva un gioco che poteva essere comodamente alloggiato, insieme al suo necessario interprete, su un singolo dischetto. Il problema era la RAM: anche dimenticandoci il necessario interprete, 77 K non entrano in 32 K, per quanto ci si sforzi di ficcarceli. Oppure sì?
 
Non era la prima volta nemmeno in quegli anni che si sentiva usare il disco come una sorta di memoria secondaria, leggendo dei pezzetti di dati e trasferendoli nella RAM, per poi scartarli quando non erano più necessari. La Microsoft aveva usato proprio questa tecnica per infilare Adventure nei 32 K del TRS-80: ogni pezzo di testo, tutti immagazzinati in un file esterno al gioco stesso proprio come nel progetto originale di Crowther e Woods, veniva letto dal disco solo quando doveva andare a schermo. Tuttavia il sofisticato sistema orientato agli oggetti della Infocom mischiava necessariamente testo e codice, rendendo quantomeno poco pratico un tale approccio. Per questo Blank e Berez si spinsero un passo oltre: avendo già progettato una virtual machine, vi aggiunsero un’implementazione della memoria virtuale.
 
Anche il concetto di memoria virtuale non era nuovo, in generale, nel mondo dell’informatica. E infatti la memoria virtuale risale ancora più indietro nel tempo delle virtual machine, fino a uno dei primi supercomputer, sviluppato dalla University of Manchester e chiamato Atlas, che era stato ufficialmente commissionato nel 1962. In un sistema con memoria virtuale, ogni programma non ha un punto di vista “onesto” sulla memoria fisica del computer host. In sostanza gli viene data una mappa “idealizzata” della memoria, che potrebbe avere ben poco a che fare con il vero layout della RAM fisica del computer che lo ospita. Quando legge e scrive dei pezzi di questa mappa, l’host automaticamente traduce gli indirizzi virtuali in indirizzi reali dentro la sua memoria fisica, in modo trasparente. Ma perché mai fare una cosa del genere, specialmente se consideriamo che produce necessariamente uno spreco di risorse? Anche stavolta per due principali ragioni, entrambe le quali di solito si considerano applicabili solo a sistemi operativi multitasking (che ovviamente erano poco più di un sogno per i microcomputer del 1979 o del 1980). Per prima cosa, isolando la memoria di ciascun programma da quella di ogni altro (oltre che da quella del sistema operativo) la memoria virtuale si assicura che un programma non possa (per malizia o semplicemente a causa di bug) corrompersi e danneggiare altri programmi, se non addirittura far crashare l’intero sistema. Per seconda cosa, la memoria virtuale fornisce al computer una specie di “seconda spiaggia”, un’alternativa al semplice fallimento di sistema, qualora un programma (o più programmi) in esecuzione chiedessero più memoria fisica di quella concretamente disponibile. Quando ciò accade, il sistema operativo cerca nella propria memoria dei pezzi che non vengono usati spesso. A quel punto li archivia nella cache su disco, facendo così spazio nella RAM fisica per allocare la nuova richiesta. Quando si deve accedere nuovamente alle aree così archiviate nella cache, esse devono essere riportate nella RAM, possibilmente scambiandole con altri chunk, se la memoria è scarsa. Tutto ciò avviene in modo trasparente rispetto al programma (o ai programmi) in questione, che continuano a vivere all’interno del loro punto di vista idealizzato sulla memoria, gioiosamente ignari di quanto il sistema sottostante stia in realtà ansimando per tenere tutto in piedi. La memoria virtuale ormai è con noi da molti anni nel mondo dei PC desktop. In uno schema del genere c’è inevitabilmente un punto in cui il gioco non vale più la candela: se avete provato ad aprire tantissime finestre o programmi su un vecchio PC, avrete notato che tutto diventava terribilmente lento, mentre l’hard disk lavorava come un mulino; ecco, adesso sapete quello che stava succedendo dietro le quinte (sempre che non lo sapeste già; qui al The Digital Antiquarian non presupponiamo nessun livello di conoscenze tecniche nei nostri lettori).
 
Per la Z-Machine, Berez e Blank adoperarono una versione molto più semplice della memoria virtuale rispetto a quella che oggi troviamo in sistemi operativi come Windows, Linux, o OS X. E se certe importanti informazioni dinamiche (come la posizione attuale di oggetti all’interno del mondo di gioco) deve essere sempre tracciata e aggiornata dinamicamente, la gran parte dei dati che compongono un gioco come Zork è in realtà statica e non cambia nel tempo: tanto, tanto testo, ovviamente, mischiato a un bel po’ di codice. Berez e Blank riuscirono a progettare il compilatore ZIL in modo tale che esso collocasse tutta la roba che poteva realisticamente cambiare (e che noi chiameremo “dati dinamici”) all’inizio dello story file. Tutto il resto (che noi chiameremo “dati statici”) veniva dopo. Ebbene, dei 77 K dello story file di Zork, solo 18 K erano di dati dinamici. Ecco quello che fecero, quindi...
 
I dati dinamici (cioè la memoria in cui la virtual machine avrebbe scritto, oltre che letto) è sempre immagazzinata nella RAM del computer host. I dati statici tuttavia sono caricati e scaricati dalla RAM ad opera dell'interprete, secondo il bisogno, in blocchi di 1 K chiamati “page” [“pagine”; ndAncient]. In altre parole: dal punto di vista del gioco, esso ha 77 K di memoria con cui lavorare. L’interprete nel frattempo scambia freneticamente blocchi di memoria dentro e fuori dalla molto più limitata RAM fisica, per mantenere in piedi questa illusione. Come la virtual machine, anche la memoria virtuale porta ovviamente con sé un rallentamento, ma è un male necessario. Su un sistema a 32 K, con 18 K riservati ai dati dinamici, la Infocom aveva ancora 14 K liberi per ospitare al loro interno l’interprete della macchina virtuale, un piccolo “stack” (cioè un’area dove i programmi immagazzinano le informazioni temporanee di cui hanno bisogno per il “moment-to-moment processing”) e una “page” o due di memoria virtuale. Certo alle volte poteva rallentare vistosamente, ma funzionava. E, quando veniva avviato su un sistema con, ad esempio, 48 K, l’interprete se ne accorgeva automaticamente e usava questa memoria addizionale per tenere più dati statici nella RAM fisica, velocizzando così il tutto e ripagando l’utente per il suo investimento nell’hardware.
 
Con l’impianto ZIL / Z-Machine, la Infocom aveva creato un sistema, robusto e riutilizzabile, che avrebbe potuto godere di vita propria ben al di là del compito specifico di infilare Zork sul TRS-80 e sull’Apple II. Sono certo di non spoilerare niente a nessuno, se vi svelo già adesso che ciò è esattamente ciò che accadde.
 
Forti di tali fondamenta tecniche, la prossima volta osserveremo il percorso che portò infine Zork sul mercato.  

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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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La Nascita di Infocom
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Ormai persino i lettori più distratti avranno capito cosa bolle in pentola, quale segreto si annida tra le pagine polverose di OldGamesItalia. Dopo la gloriosa traduzione di Zork I - The Great Undreground Empire, è in cantiere la localizzazione del secondo capitolo della fortunata trilogia di Infocom.
E quale modo migliore di celebrarne la pubblicazione che pubblicare gli articoli del nostro Antiquario Digitale dedicati proprio alla genesi di Zork e di Infocom? Ed è per l'appunto dell'effettiva nascita di questa mitica azienda di videogiochi, agli albori dell'era dei microcomputer, che tratterà l'articolo di oggi.
 
Ma prima, l'immancabile indice degli articoli del ciclo Infocom:
 
La Nascita della Infocom
ZIL e la Z-Machine
Come Vendemmo Zork
Giochi a Parser
Esplorando Zork, Parte 1
Esplorando Zork, Parte 2
Esplorando Zork, Parte 3
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura avventurieri... e portate le lanterne!
 
Festuceto
 
Mentre il Dynamic Modeling Group completava gli ultimi ritocchi su Zork e finalmente se ne congedava, al MIT si iniziava ad avvertire la fine di un’era. Marc Blank stava per laurearsi in medicina e stava per iniziare il suo internato a Pittsburgh, cosa che avrebbe reso impossibile continuare la sua opera di "hackeraggio" intensivo al MIT, nonostante le sue capacità apparentemente sovrumane. Altri ancora stavano ultimando i loro programmi di laurea al MIT, oppure (a forza di attardarsi all'università) stavano esaurendo le giustificazioni per ritardare ancora l'inizio delle loro “vere” carriere, con dei veri stipendi. Stava insomma per iniziare un esodo generazionale, non solo dal Dynamic Modeling Group ma proprio dal Laboratory for Computer e dall'AI Lab del MIT in generale. Le pressioni del mondo esterno avevano infine fatto breccia nell'utopia hacker del MIT, pressioni che negli anni immediatamente successivi, l'avrebbero cambiato per sempre. Gran parte di questo cambiamento originò però dall'invenzione dei microcomputer.
 
La maggior parte di coloro che frequentava gli ambienti dell’hacking istituzionale, tipo il MIT, all’inizio non era particolarmente entusiasta di quella che veniva chiamata la rivoluzione dei PC. Il che non deve sorprenderci. Quei primi microcomputer erano delle macchine con limiti assurdi. Gli “hacker casalinghi” che le comprarono (spesso costruendosele da soli) erano eccitati dalla semplice idea di avere accesso illimitato a un qualcosa che, almeno lontanamente, rispondesse alla definizione di “computer”. Invece i privilegiati che occupavano un posto in un’istituzione tipo il MIT, non solo avevano accesso illimitato (o quasi) ai suoi sistemi, ma tali sistemi erano anche abbastanza potenti da poter farci davvero qualcosa. Che fascino poteva avere un Altair o anche un TRS-80 in confronto ai sofisticati sistemi operativi come il TOPS-10 o il TOPS-20 o l’Incompatible Timesharing System, con linguaggi di programmazione ben strutturati come il LISP e l’MDL, con ricerche nei campi dell’intelligenza artificiale e del linguaggio naturale, e che avevano perfino dei giochi in rete come Maze, Trivia [il gioco a quiz di cui abbiamo già parlato; ndAncient] e, ovviamente, Zork? Il mondo dei microcomputer ai loro occhi doveva sembrare irrimediabilmente privo di cultura e di educazione, privo di quella vera tradizione di hacking che ormai affondava le sue radici in oltre venti anni di esperienza. Come si poteva pensare di scrivere dei programmi complessi usando il BASIC? Quando molti degli hacker istituzionali si degnarono di accorgersi delle nuove macchine, fu con atteggiamento sprezzante; Stu Galley decretò che il motto non ufficiale del Dynamic Modeling Group diventasse: “Noi odiamo i micro!”. Consideravano i microcomputer come poco più che dei giocattoli, che del resto era grossomodo la reazione avuta da gran parte della popolazione.
 
Già nella primavera del 1979, tuttavia, stava diventando via via più chiaro, a tutti coloro che volevano vederlo, che quelle piccole macchine avevano i loro usi. WordStar, il primo word processor per microcomputer davvero utilizzabile, era disponibile già da un anno, e stava portando sempre più macchine basate sul CP/M negli uffici e perfino negli studi degli scrittori. Alla West Coast Computer Faire di quel maggio, Dan Bricklin mostrò pubblicamente per la prima volta VisiCalc, il primo foglio elettronico del mondo, che avrebbe rivoluzionato la contabilità e la progettazione finanziaria. “Come hai potuto fare senza?”, chiedeva la prima pubblicità che ne anticipava la pubblicazione, con un'iperbole che (fu subito chiaro) si sarebbe rivelata assai preveggente; qualche anno più tardi, milioni di persone si chiederanno esattamente la stessa cosa. A differenza di WordStar e perfino di AdventureLand di Scott Adams, VisiCalc non era una versione più limitata di un concept sviluppato sui computer istituzionali e poi implementato sull’hardware dei microcomputer. Esso era stato concepito, progettato, e implementato interamente sull’Apple II; la prima idea autenticamente nuova nata su un microcomputer, il simbolo di un imminente cambio della guardia.
 
I microcomputer portarono molti, molti più utenti nel mondo dei computer di quanti non ce ne fossero mai stati. Il che portò molti più investimenti privati nel settore, guidati da una nuova realtà: con questa roba si potevano fare soldi veri. E questa consapevolezza portò dei grandi cambiamenti al MIT e nelle altre istituzioni di hacking “puro”. È (tristemente) famosa la spaccatura in due che avvenne durante l’inverno e la primavera del 1979 all’interno dell’AI Lab in seguito alla disputa fra Richard Greenblatt (che sostanzialmente all’interno del MIT era il decano della tradizionale etica degli hacker) e un più pragmatico amministratore di nome Russell Noftsker. Insieme a un piccolo team di altri hacker e di ingegneri informatici, Greenblatt aveva sviluppato un piccolo computer a utente singolo, una sorta di “boutique micro”, il primo di quelle che sarebbero poi state chiamate “workstation”, ottimizzato per far girare il LISP. Credendo che il progetto potesse avere un vero potenziale commerciale, Noftsker avvicinò Greenblatt con la proposta di creare una società che lo producesse. Greenblatt inizialmente si disse d’accordo, ma ben presto si dimostrò (almeno dal punto di vista di Noftsker)  indisponibile a sacrificare anche il più piccolo dei principi degli hacker dinanzi alla realtà degli affari. I due si lasciarono in malo modo, con Noftsker che portò con sé gran parte dell’AI Lab per implementare il concept originale di Greenblatt attraverso la Symbolics, Inc. Sentendosi disilluso e tradito, alla fine anche Greenblatt se ne andò, per formare una sua società, di minor successo, la Lisp Machines.
 
Non è che nessuno del MIT, prima di allora, avesse mai fondato una società, né che il commercio non si sia mai mischiato con l’idealismo di quegli hacker. Gli stessi fondatori della DEC, Ken Olson e Harlan Anderson, erano stati due allievi del MIT, che nella metà degli anni ‘50 si erano occupati, come studenti, del progetto di base di quella che sarebbe poi diventata la prima macchina della DEC, il PDP-1. Da allora il MIT ha sempre mantenuto una relazione privilegiata con la DEC, testando il loro hardware e, cosa ancora più importante, sviluppando del software estremamente essenziale per le macchine della società; una relazione che era (a seconda di come la si guarda) o una miniera d’oro per gli hacker che dava loro continuo accesso alle ultime tecnologie, oppure un brillante piano della DEC per mettere al proprio servizio alcune delle menti migliori dell’informatica di quella generazione senza pagare loro un centesimo. Nonostante questo, ciò che stava accadendo al MIT nel 1979 sembrava qualitativamente diverso. Questi hacker erano quasi tutti programmatori di software, dopotutto, e il mercato dei microcomputer stava dimostrando che adesso era possibile vendere autonomamente il software, in opere preconfezionate, proprio come avviene con un disco o con un libro. Un uomo saggio una volta ha detto: “il denaro cambia tutto”. Molti hacker del MIT erano eccitati all’idea del possibile lucro, come risulta evidente dal fatto che i più scelsero di seguire Noftsker fuori dall’università, piuttosto che l’idealistico Greenblatt. Solo una manciata di loro, come Marvin Minsky e il cocciutissimo Richard Stallman, restarono indietro e continuarono a seguire fedelmente la vecchia etica degli hacker.
 
I fondatori della Infocom non erano fra gli irriducibili. Come si intuisce già dal loro gesto di aggiungere una protezione (oggi suona quasi ridicolo scriverlo) all’Incompatible Timesharing System per proteggere il codice sorgente del loro Zork (una cosa che avrebbe fatto innalzare le urla di protesta di Stallman almeno su due diversi livelli), la loro devozione all’etica degli hacker era quantomeno negoziabile. E infatti Al Vezza e il Dynamic Modeling Group stavano rimuginando su possibili applicazioni commerciali per le creazioni del gruppo già dal 1976. Alla fine del semestre primaverile del 1979, tuttavia, sembrò palese che se questa versione del Dynamic Modeling Group (sul punto di sparpagliarsi ai proverbiali quattro venti) voleva fare qualcosa di commerciale, quello era il momento giusto per iniziare. E del resto molti altri al MIT stavano facendo la stessa identica cosa, no? Non aveva senso restare da soli in un laboratorio vuoto, come accadde letteralmente al povero Richard Stallman. In ogni caso, era così che Al Vezza vedeva la situazione e i colleghi da lui diretti (ansiosi di restare connessi e tutt’altro che contrari all’idea di aumentare i propri modesti stipendi universitari) accettarono di buon grado.
 
E così la Infocom venne ufficialmente fondata il 22 Giugno 1979, con dieci azionisti. Fra questi c’erano tre dei quattro hacker che avevano lavorato a Zork:  Tim Anderson, Dave Lebling, e Marc Blank (appena diventato dottore e già pendolare dal suo internato medico a Pittsburgh). Insieme a loro c’erano anche altri cinque membri (attuali o passati) del Dynamic Modeling Group: Mike Broos, Scott Cutler, Stu Galley, Joel Berez, Chris Reeve. E poi c’era lo stesso Vezza e anche Licklider, che accettò di unirsi al gruppo in una sorta di ruolo di consigliere, lo stesso che aveva rivestito al Dynamic Modeling Group del MIT. Oguno di loro raggranellò ogni finanziamento che poteva ottenere, da 400 $ fino a 2.000 $, e in cambio ricevette una proporzionale quota di azioni della nuova società. I fondi iniziali ammontavano a 11.500 $. Il nome della società era inevitabilmente vago, tanto più se consideriamo che nessuno sapeva cosa avrebbe prodotto quella società (se mai avesse prodotto qualcosa). Le parole composte da due termini troncati e vagamente futuristici erano estremamente in voga fra le società tecnologiche dell’epoca (Microsoft, CompuWare, EduWare) e la Infocom seguì la tendenza, scegliendo il nome su cui “tutti avevano meno obiezioni”.
 
 
Come dovrebbe essere chiaro da quanto sopra, non si può certo dire che la Infocom iniziò sotto i migliori auspici. La definirei una “startup da garage”, se non fosse che loro non avevano nemmeno un garage. Per alcuni mesi la Infocom esistette più come una società astratta sospesa in un limbo, che come una vera impresa in affari. Non ebbe nemmeno il suo primo indirizzo postale (una cassetta postale) fino al Marzo del 1980. Inutile dire che nei mesi successivi nessuno dei soci stava lasciando il proprio lavoro, mentre, di tanto in tanto, si incontravano per discutere il da farsi. Ad agosto, Mike Broos si era già stancato dell’andazzo e uscì dal progetto, lasciando quindi nove soci. Tutti furono concordi sul fatto che avevano bisogno di qualcosa da pubblicare in modo relativamente veloce, per far decollare la società. Solo allora sarebbero potuti seguire dei progetti più ambiziosi. Il problema era cosa avrebbero potuto fare per quel loro primo progetto.
 
Gli hacker passarono in rassegna i loro vecchi progetti del MIT, in cerca di idee. Continuavano a tornare sui giochi. C’era quel gioco a quiz, ma sarebbe stato difficile inserire abbastanza domande su un singolo floppy disk per dare un senso alla cosa. Più intrigante era il gioco chiamato Maze. I giochi arcade erano esplosi in quegli anni. Se la Infocom avesse potuto creare una versione di Maze per i cabinati, avrebbero avuto un qualcosa di unico, senza precedenti. Per farlo però sarebbe stato necessario un progetto ingegneristico enorme, sul lato hardware oltre che su quello software. I soci della Infocom erano tutti in gamba, ma erano tutti hacker di software e non di hardware, e di soldi ce n’erano ben pochi. E poi, ovviamente, c’era Zork… ma non c’era nessun modo di infilare un gioco d’avventura da 1 MB in un microcomputer da 32 K o 48 K. E poi ad Al Vezza non piaceva affatto l’idea di entrare nel settore dei giochi, perché temeva che ciò avrebbe potuto compromettere il nome della compagnia, anche se si fosse trattato solo di accumulare dei fondi iniziali per avviare le attività. E così ci furono abbondanti discussioni su altre idee, più legate al mondo degli affari, sempre tratte dalla storia dei progetti del Dynamic Modeling Group: un sistema di indicizzazione dei documenti, un sistema di email, un sistema di elaborazione testi.
 
Nel frattempo, Blank viveva a Pittsburgh ed era piuttosto scontento di ritrovarsi tagliato fuori dai vecchi tempi dell’hacking al MIT. Per fortuna aveva almeno una vecchia connessione con il MIT: Joel Berez, che prima della laurea nel 1977 aveva lavorato al Dynamic Modeling Group. Egli aveva trascorso gli ultimi due anni a Pittsburgh, lavorando nella ditta di famiglia (esperienza che forse convinse gli altri a nominarlo Presidente della Infocom nel 1979). Blank e Berez presero l’abitudine di ritrovarsi insieme per mangiare cinese (alimento alla base della dieta di ogni hacker) e per rimembrare i vecchi tempi. E tutte quelle loro conversazioni continuavano a ritornare su Zork. Era davvero impossibile immaginarsi di portare il gioco su microcomputer? In poco tempo le conversazioni passarono dal nostalgico al tecnico. Ma, come iniziarono a parlare delle questioni tecniche, si affacciarono altre sfide, anche al di là della mera capacità computazionale dei microcomputer.
 
Se anche avessero potuto in qualche modo portare Zork su microcomputer, quale avrebbero scelto? Il TRS-80 era di gran lunga quello più venduto, ma l’Apple II (la Cadillac della trinità del 1977) stava iniziando a guadagnare terreno, grazie all’aiuto del nuovo modello II Plus e di VisiCalc. Ma l’anno prossimo, e quello dopo ancora… chi poteva dirlo? E poi tutte queste macchine erano irrimediabilmente incompatibili l’una con le altre, il che significava che per raggiungere le diverse piattaforme sarebbe stato necessario implementare Zork (e ogni altro futuro gioco d’avventura si decidesse di sviluppare) di nuovo, ogni volta, su ciascuna di tali macchine. Blank e Berez si misero alla ricerca di un linguaggio di alto livello, che fosse abbastanza portabile e adeguato per implementare un nuovo Zork, ma non ne trovarono. Il BASIC era... beh, era il BASIC, e non era nemmeno particolarmente uniforme da microcomputer a microcomputer. All’orizzonte c’era una nuova, promettente implementazione di un più portabile Pascal per Apple II, ma non si parlava di nulla di simile per le altre piattaforme.
 
E così, se volevano essere in grado di vendere il proprio gioco a tutto il mercato dei microcomputer, anziché solo a una fetta dello stesso, si sarebbero dovuti inventare un sistema di gestione dei dati che fosse facilmente portabile, che potesse essere fatto funzionare su differenti microcomputer attraverso un interprete appositamente scritto per ogni modello. Ovviamente creare ogni singolo interprete sarebbe stato impegnativo, ma sarebbe comunque stato uno sforzo più modesto e, qualora la Infocom avesse deciso di fare altri giochi dopo Zork, il risparmio di energie sarebbe rapidamente diventato estremamente significativo. Nel giungere a questa conclusione, avevano sostanzialmente seguito una linea di pensiero già abbondantemente battuta da Scott Adams e dalla Automated Simulations.
 
Ma c’era un altro problema ancora: attualmente Zork esisteva solo su MDL, un linguaggio che ovviamente non era implementato sui microcomputer. Se non volevano riscrivere da zero l’intero gioco (del resto l’obbiettivo di tutto questo non era esattamente quello di tirar fuori un prodotto rapidamente e con una certa facilità?), dovevano anche trovare un modo per far girare quel codice sui microcomputer.
 
Quelli che avevano fra le mani erano un bel po’ di problemi. La prossima volta vedremo come li risolsero (in modo assolutamente brillante).

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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Zork sul PDP-10
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Continua il ciclo di articoli dedicato alla nascita di Infocom e ai primi tre capitoli della celebre serie di Zork. Sì avete letto bene: nel corso del nostro viaggio analizzeremo i primi tre capitoli di Zork. Contrariamente a quanto annunciato nell'ultimo editoriale, non ci limiteremo ai primi due titoli della leggendaria serie Infocom, ma chiuderemo la trilogia originale, com'è giusto che sia. 
Pertanto considerate l'indice riportato di seguito, soltanto parziale. Sarà nostra premura completarlo non appena sarà possibile, e se proprio non potete resistere, cliccate in fondo all'articolo per fiondarvi nel blog originale del "The Digital Antiquarian" ... ma non vorrete rovinarvi la sorpresa, vero?
 
A proposito, nel caso vi steste ancora chiedendo perché Zork sia così attuale qui su OldGamesItalia, vi consiglio di visitare attentamente la sezione "traduzioni" del nostro forum... 
Ecco il solito indice degli articoli:
 
Zork sul PDP-10
La Nascita della Infocom
ZIL e la Z-Machine
Come Vendemmo Zork
Giochi a Parser
Esplorando Zork, Parte 1
Esplorando Zork, Parte 2
Esplorando Zork, Parte 3
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
 
Buona lettura esploratori e ... attenti ai grue!
 
Festuceto
 
Uno dei tratti distintivi degli hacker è il non considerare mai un programma davvero completamente e definitivamente finito; ci sono sempre aggiunte da fare, angoli da smussare. E di certo Adventure, per quanto impressionante, lasciava ampio spazio ai miglioramenti. Dobbiamo poi aggiungere che Adventure arrivò al MIT attraverso Don Woods dell'AI Lab della Stanford, forse l'unico corso di informatica della nazione che aveva la statura per potersi confrontare alla lontana con quello del MIT. Gli studenti del MIT erano fieramente orgogliosi della propria Università. Anche se la Stanford aveva prodotto per prima un gioco d'avventura, il Dynamic Modeling Group del MIT avrebbe potuto quantomeno farlo meglio. E certo non nuoceva alla causa il fatto che il Project MAC e il Laboratory for Computer Science (per non parlare dello stesso Dynamic Modeling Group) avessero donato loro degli ottimi strumenti con cui affrontare il problema.
 
Adventure era stata implementato in FORTRAN, un linguaggio non particolarmente adatto alla creazione di un'avventura testuale. E infatti il FORTRAN non poteva nemmeno gestire nativamente le stringhe di lunghezza variabile, lasciando a Crowther e Woods il compito di arrangiare qualche soluzione, come del resto dovettero fare anche con molti altri problemi. Come sappiamo, entrambi erano programmatori molto talentuosi e ci riuscirono al meglio. E così gli hacker del Dynamic Modeling Group (la cui opinione del FORTRAN era solo un gradino superiore a quella che avevano del BASIC) non vedevano l'ora di progettare il proprio gioco d'avventura con il proprio linguaggio, l'MDL. Non solo l'MDL (essendo un linguaggio progettato, almeno in parte, per la ricerca nel campo dell'Intelligenza Artificiale) poteva vantare capacità di gestione di stringhe relativamente robuste, ma offriva anche la possibilità di definire dei nuovi “data type” complessi, adatti per compiti specifici, e la possibilità di inserire direttamente in tali strutture dei pezzi di codice. Lasciatemi provare a spiegarvi perché tutto questo era così importante.
 
Inizieremo con la stanza di apertura di Zork, il gioco che alla fine fu prodotto dal Dynamic Modeling Group in risposta ad Adventure. La descrizione di tale stanza al giocatore [nella nostra traduzione italiana di Zork I; ndAncient] appare così:
 
 
West of House
This is an open field west of a white house, with a boarded front door.
There is a small mailbox here.
A rubber mat saying 'Welcome to Zork!' lies by the door.
 
Questo è il codice sorgente originale in MDL che descrive la stanza:
 
<ROOM "WHOUS"
"This is an open field west of a white house, with a boarded front door."
"West of House"
<EXIT "NORTH" "NHOUS" "SOUTH" "SHOUS" "WEST" "FORE1"
"EAST" #NEXIT "The door is locked, and there is evidently no key.">
(<GET-OBJ "FDOOR"> <GET-OBJ "MAILB"> <GET-OBJ "MAT">)
<>
<+ ,RLANDBIT ,RLIGHTBIT ,RNWALLBIT ,RSACREDBIT>
(RGLOBAL ,HOUSEBIT)><
 
Praticamente tutto ciò che il programma deve sapere di questa stanza è incapsulato qui dentro in modo ordinato. Analizziamolo, linea per linea. Il tag “ROOM” [stanza] all'inizio definisce questa struttura come una stanza, chiamata brevemente “WHOUS” [abbreviazione di "West of House", cioè "A Ovest della Casa", ndAncient]. La linea di testo seguente è la descrizione della stanza che il giocatore vede quando vi entra la prima volta o quando digita “GUARDA”. “West of House” è invece il nome completo della stanza, quello che appare come titolo della descrizione della stanza e nella linea di stato in cima allo schermo, ogni volta che il giocatore si trova in questa stanza. Poi abbiamo un elenco di uscite dalla stanza, andare a nord porta il giocatore a “North of House,” a sud lo porta a “South of House”, a ovest in una di diverse stanze che compongono la “Foresta”. Cercare di andare a est produrrà invece uno speciale messaggio di fallimento, che riferirà al giocatore di non essere in possesso di una chiave per aprire la porta, anziché il generico: “Non puoi andare in quella direzione”. Subito dopo abbiamo gli oggetti che si trovano nella stanza all'inizio del gioco: la porta frontale, la cassetta delle lettere, e il tappetino di benvenuto. Quindi una serie di "flag" definisce altre proprietà della stanza: che è asciutta anziché invasa dall'acqua, che è illuminata anche se il giocatore non ha con sé una lanterna accesa; che (essendo all'aperto) non ha pareti; che è “sacred” [“sacra”] (il che significa che il ladro -un personaggio che vaga in giro, infastidendo il giocatore in modo non dissimile dai nani e dal pirata di Adventure- non può venire qui). E, alla fine, l'ultima linea associa questa stanza alla "white house" o, per essere più precisi, la associa a una parte della “regione casa” della geografia del gioco.
 
Ogni oggetto e ogni personaggio del gioco è definito da un simile blocco, che spiega quasi tutto ciò che il gioco deve sapere al riguardo. Va aggiunto anche che le abilità e le capacità speciali di oggetti e personaggi sono descritti come parti di essi, utilizzando dei collegamenti a delle sezioni speciali del codice, create appositamente. Per questo una volta che l'impalcatura del codice alla base di tutto questo fu creata (cosa che, ovviamente, non era affatto banale), aggiungere nuovo contenuto a Zork era prevalentemente una questione di aggiungere più stanze, più oggetti, e più personaggi, senza bisogno ogni volta di rituffarsi nell'"engine" che muoveva il tutto; solo le capacità speciali degli oggetti e dei personaggi dovevano essere programmate da zero e collegate nei punti giusti. Componendo il mondo da una raccolta di “oggetti” integrati, gli hacker del Dynamic Modeling Group stavano inconsapevolmente dirigendosi verso un nuovo paradigma nella programmazione, che sarebbe giunto alla ribalta dell'informatica solo alcuni anni dopo: la programmazione orientata agli oggetti, in cui i programmi non sono rigorosamente divisi nel codice che li esegue e nei dati che esso manipola, ma sono piuttosto costruiti dall'interazione di oggetti semi-autonomi che contengono il proprio codice e i propri dati. Un tempo considerata praticamente la soluzione a ogni problema (forse persino alla fame nel mondo), oggigiorno in certe aree, ci sono delle resistenze (probabilmente giustificate) alla imposizione, applicata a prescindere, della teoria della programmazione orientata agli oggetti operata da certi linguaggi, come il Java. Sia come sia, la programmazione orientata agli oggetti resta praticamente la soluzione ideale nella creazione delle avventure testuali. Per mostrarvi cosa intendo, guardiamo all'alternativa, illustrata da Adventure (scritto in FORTRAN, un linguaggio altamente NON orientato agli oggetti).
 
Ad ogni stanza di Adventure è assegnato un numero da 1 (la location iniziale, naturalmente all'esterno di un piccolo edificio di mattoni) fino a 140 (stavolta, meno naturalmente, un vicolo cieco in un labirinto). Per trovare la descrizione completa della stanza (quella che viene mostrata al giocatore quanto vi entra per la prima volta o quando la GUARDA) il programma scava nella prima tabella di un file esterno di dati, confrontando il numero della stanza alle rispettive voci.
 
1
1 YOU ARE STANDING AT THE END OF A ROAD BEFORE A SMALL BRICK BUILDING.
1 AROUND YOU IS A FOREST.  A SMALL STREAM FLOWS OUT OF THE BUILDING AND
1 DOWN A GULLY.
 
Un'altra tabella mostra invece la descrizione breve che viene visualizzata quando si entra in una stanza già visitata:
 
1 YOU'RE AT END OF ROAD AGAIN.
 
E ora viene il bello. Un'altra tabella ancora ci dice cosa ci aspetta in ogni direzione cardinale.
 
1 2 2 44 29
1 3 3 12 19 43
1 4 5 13 14 46 30
1 5 6 45 43
1 8 63
 
La prima linea di cui sopra ci dice che quando siamo in stanza 1, possiamo andare in stanza 2 digitando una delle tre voci di un'altra tabella ancora; in questo caso: “ROAD o HILL” (voce 2); “WEST” or “W” (voce 44); or “UPWAR” (infatti le parole vengono confrontate sulla base dei primi 5 caratteri soltanto [in questo caso la parola completa sarebbe UPWARD, formata da 6 caratteri, che significa SU; ndAncient], “UP,” “ABOVE,” or “ASCEN” (voce 29). In modo del tutto analogo, le definizioni degli oggetti sono sparpagliate su più tabelle all'interno del data file. Quindi, anche se Adventure tenta almeno in parte di astrarre il suo "engine" dai dati che compongono il suo mondo (collocando questi ultimi in un "data file" esterno), modificare il mondo stesso è un procedimento rognoso e foriero di errori, che consiste nell'editare più tabelle criptiche. I primi "engine" per avventure testuali sui microcomputer, come quelle di Scott Adams, funzionano tutti in questo modo. E anche se era comunque possibile sviluppare dei tool che alleviassero il fardello di modificare a mano i "data file", il sistema di Zork basato sull'MDL è flessibile e programmabile in un modo ben superiore a quello di questi sistemi: non essendo possibile inserire del codice all'interno degli oggetti del mondo di gioco, creare oggetti non standard in Adventure o in un gioco di Scott Adams richiedeva generalmente di andare a modificare il codice dell'"engine"; non proprio il massimo.
 
Per questo l'MDL era semplicemente migliore per scrivere un'avventura testuale che fosse capace di rappresentare limpidamente un mondo vasto, in un modo che fosse anche leggibile e facilmente mantenibile. Era quasi come se l'MDL fosse stato progettato a questo scopo. Ed effettivamente, se avete usato un linguaggio di programmazione di IF più moderno (come Inform 6), sareste rimasti sorpresi da quanto poco sia cambiato l'approccio nella definizione del mondo rispetto ai giorni dell'MDL di Zork. (Inform 7, uno degli ultimi, e migliori, tool per lo sviluppo di IF si è allontanato dal modello della programmazione orientata agli oggetti in favore di un approccio basato su regole più leggibili -se non addirittura più “letterarie”-. Basti dire che i meriti e gli svantaggi dell'approccio di Inform 7 sono un argomento troppo complesso per essere affrontato in questa sede. Forse ne riparleremo fra 20 anni, quando finalmente il Digital Antiquarian si occuperà dell'anno 2006...)
 
E gli hacker del Dynamic Modeling Group avevano ancora un altro asso nella loro manica.
 
Il MIT aveva all'attivo importanti ricerche sulla comprensione del linguaggio naturale nel computer, che risalivano almeno fino a Joseph Weizenbaum e al suo sistema ELIZA del 1966. E se quel programma alla fin fine era poco più di un elaborato trucco da salotto, esso però ispirò altri e più rigorosi tentativi di far parlare a un programma un buon inglese. È estremamente noto quello che fra il 1968 e il 1970 fu sviluppato da Terry Winograd sotto il nome di SHRDLU, che simulava un modello di mondo composto di blocchi. L'utente poteva chiedere al programma di manipolare questo mondo, spostando i blocchi di posto in posto, impilandoli, e così via, il tutto limitandosi a digitare le sue richieste con delle semplici frasi imperative in lingua inglese. Era perfino possibile porre delle semplici domande al computer, per sapere ad esempio quale blocco fosse collocato in una determinata posizione. Piuttosto sopravvalutato all'epoca (come gran parte della ricerca sull'intelligenza artificiale), quasi fosse un passo decisivo verso HAL, SHRDLU riuscì comunque a dimostrare che, almeno all'interno di un dominio molto ristretto, è possibile per un programma parlare e “comprendere” realmente un significativo sottoinsieme della lingua inglese. Partendo dalla tradizione di SHRDLU, gli hacker del Dynamic Modeling Group crearono un parser per avventure testuali che era oggettivamente il primo mai creato a essere degno del termine. E se Adventure se la cavava con un semplice riconoscimento delle parole (stratagemma reso palese dal fatto che “LAMPADA PRENDI” funziona esattamente come “PRENDI LAMPADA”), Zork comprendeva davvero non solo il verbo e il complemento oggetto, ma anche le preposizioni, il complemento di termine, le congiunzioni, la punteggiatura, e perfino gli articoli. A dare un contributo essenziale al raggiungimento di tale obbiettivo fu nuovamente l'MDL che (essendo un linguaggio ideato pensando alla ricerca sull'IA) aveva delle straordinarie capacità di manipolazione delle stringhe. Il parser che riuscirono a ideare si rivelò una creazione mirabile, che si sarebbe contraddistinta per molti anni a venire (un'eternità, allora come ora, nel mondo dell'informatica). Ma ora sto andando troppo avanti.
 
La strada che condurrà a Zork iniziò nel Maggio del 1977, quando Dave Lebling creò un semplicissimo parser e un semplicissimo "engine" piuttosto simile a quello di Adventure, dal quale Marc Blank e Tim Anderson crearono il loro primo gioco di quattro stanze, come prototipo. A quel punto Lebling si prese una vacanza di due settimane, mentre Blank, Anderson, e Bruce Daniels "hackeravano" come pazzi, creando la struttura base di Zork così come la conosciamo ancora oggi. Il nome stesso era una parola priva di senso presa dal gergo parlato al MIT; una parola che si usava nelle situazioni di tensione al posto di un altra più scurrile: “Zorka quel maledetto codice!”, quando una linea di codice non ne voleva sapere di funzionare, e cose del genere. Ogni programmatore ha qualche parola tipo questa che usa per programmi, variabili, funzioni, e così via, quando sta semplicemente facendo esperimenti e non ha tempo di inventarsi un nome migliore (negli ultimi 25 anni il mio personale “go-to placeholder” è stata la parola “fuzzy”, per ragioni troppo imbarazzanti e stravaganti per spiegarle qui). Nel caso di Zork, però, un nome vero e proprio tardava a venir fuori. E così il gioco restò Zork per i primi sei mesi della sua esistenza.
 
Quando Lebling tornò dalla vacanza per riprendere a lavorare al gioco, c'erano già delle solide basi. Tutto il design era modulare; questo significava (come dimostrato sopra) che era facile aggiungere altre stanze, altri oggetti, altri enigmi, ma anche che ogni parte della sottostante tecnologia poteva essere facilmente rimossa, migliorata, e inserita di nuovo. Il parser in particolare migliorò gradualmente da uno a due parole (“intelligente quasi quanto quello di Adventure”), fino a diventare la creazione allo stato dell'arte che era alla fine; il tutto prevalentemente grazie all'impegno di Blank, che ne divenne ossessionato fino a produrne “40 o 50” iterazioni.
 
Negli anni successivi la Infocom avrebbe sviluppato una storia e una mitologia, complesse ma anche comiche, intorno a Zork e al suo “Grande Impero Sotterraneo”, ma in questi primissimi giorni di sviluppo gli autori erano interessati al mondo di gioco solo come luogo in cui ambientare delle scene accattivanti ma anche ridicolmente eterogenee, e -ovviamente- degli enigmi da risolvere, nel solco della tradizione inaugurata da Don Woods con Adventure. E infatti il mondo di Zork rende omaggio ad Adventure quasi al punto da sembrare inizialmente un suo remake. Come Adventure, si inizia all'aria aperta, accanto ad una piccola casa; come in Adventure c'è una piccola area esterna da esplorare, ma il succo del gioco si svolge sottoterra; come Adventure lo scopo è raccogliere tesori e riportarli dentro la casa, che serve quindi da base delle nostre operazioni; ecc. ecc. Solo andando molto avanti nel gioco, Zork diverge davvero da questo schema e assume una sua distinta personalità, con location fantasiose ed enigmi molto più intricati, resi possibili dallo stupefacente parser. Ovviamente tutte queste parti furono ideate in seguito, quando il team di sviluppo aveva più esperienza e quando il parser era ormai molto migliore di quello iniziale. Personalmente darò uno sguardo approfondito a Zork nella sua versione per microcomputer, piuttosto che nella sua incarnazione per PDP-10, ma se siete interessati a saperne di più sull'implementazione originale senza capo né coda, vi invito a dare un'occhiata all'approfondito play-through di Jason Dyer.
 
Come Adventure, anche Zork girava su un DEC PDP-10. A differenza di Adventure però, girava sotto il sistema operativo che ospitava anche l’ambiente MDL, l’Incompatible Timesharing System (così chiamato, con un po’ di sano humour da hacker, in sarcastica risposta ad un precedente Compatible Timesharing System; anche qui però -scusate se insisto- vi rimando a Hackers di Levy per un eccezionale racconto delle sue origini). L’Incompatible Timesharing System era sostanzialmente unico del MIT, l’istituzione che lo aveva sviluppato. E aveva un elemento di estrema originalità: in uno stravagante (ma qualcuno lo chiamerebbe folle) tributo alla tradizione degli hacker di totale apertura e trasparenza, non aveva password; anzi, non aveva nessun tipo di sicurezza. Proprio chiunque poteva loggarsi e fare ciò che voleva. Questo creò una specie di community di coloro che gli hacker del MIT chiamavano “gente a caso dalla rete”: persone che non avevano niente a che fare con il MIT, ma che godevano, da qualche parte, di un accesso a un computer connesso ad ARPANET e che si fermavano per rovistare nel sistema, solo per vedere cosa stessero facendo quei folli hacker del MIT. La macchina del Dynamic Modeling Group aveva raccolto intorno a sé una community considerevole di gente a caso, grazie a un precedente gioco di quiz. Non ci volle molto prima che scoprissero Zork (anche se non era mai stato annunciato ufficialmente) e che si imbarcassero nell’avventura. Ben presto questo gioco in sviluppo si guadagnò una certa reputazione su ARPANET. Proprio a vantaggio di questa community di giocatori, gli sviluppatori iniziarono a collocare una copia dell’U.S. News and Dungeon Report in una delle prime stanze, che elencava tutti gli ultimi cambiamenti e le ultime aggiunte a questo mondo virtuale che la gente stava esplorando. La gente a caso dalla rete, insieme ad altri utenti più “legittimati” di base al MIT (fra cui anche John McCarthy, il padre dell’intelligenza artificiale), servirono da team allargato di beta-test; gli implementatori potevano vedere quello che queste persone provavano a fare, per non dire ciò di cui si lamentavano, e modificavano il gioco di conseguenza. In particolare, molti dei miglioramenti al parser furono senza dubbio incentivati da questo processo; chiunque abbia mai sottoposto una propria avventura testuale a un beta-test, sa bene che non si può semplicemente prevedere a priori gli infiniti modi in cui le persone proveranno a esprimere certe cose.  
 
La crescente popolarità di Zork sollevò delle inevitabili preoccupazioni sull’eccessivo carico generato da questi giocatori sul sistema PDP-10 del Dynamic Modeling Group, che a conti fatti era finanziato dal Dipartimento della Difesa e che quindi -teoricamente- sarebbe dovuto servire per vincere la Guerra Fredda. Al tempo stesso c’erano altri che chiedevano una copia del gioco, per poterla installare sulle proprie macchine. Anche se sviluppato e utilizzato principalmente sotto l’Incompatible Timesharing System, esisteva però una versione dell’ambiente MDL che girava su un altro sistema operativo per PDP-10, il TOPS-20, pubblicato dalla DEC per la prima volta nel 1976 e pubblicizzato come una versione più avanzata e user-friendly del TOPS-10. A differenza dell’Incompatible Timesharing System, il TOPS-20 era assai diffuso al di fuori del MIT. Gli hacker del Dynamic Modeling Group modificarono quindi Zork quanto bastava per farlo girare sul TOPS-20 e iniziarono a distribuirlo a tutti gli amministratori che gliene chiedevano una copia. Alla fine dell’anno tutte le macchine della nazione ospitavano Zork ed era stata perfino predisposta una "mailing list" per informare i vari amministratori delle espansioni e dei miglioramenti che venivano apportati.
 
Gli hacker del Dynamic Modeling Group erano generosi, ma non quanto lo era stato Don Woods con Adventure. Distribuirono Zork solo come file criptati, che erano eseguibili in un ambiente MDL ma che non erano leggibili (né modificabili) a livello di codice sorgente. Arrivarono perfino a modificare il proprio sistema di sviluppo Incompatible Timesharing System, celebre per la sua mancanza di sicurezza, aggiungendo una protezione esclusivamente alla cartella che conteneva il codice sorgente di Zork. Tuttavia gli hacker non si smentiscono mai e ben presto uno della DEC aveva già penetrato il velo. Dalla “History of Zork” della Infocom:
 
[La sicurezza] fu infine battuta da un hacker del sistema della Digital: usando un’arcaica (non che ne sia mai esistita una diversa) documentazione dell’Incompatible Timesharing System, riuscì a capire come modificare il sistema operativo. Sapendo il fatto suo, riuscì anche a capire come funzionava la nostra modifica per proteggere la cartella del codice sorgente. A quel punto era solo questione di decriptare i sorgenti, il che ben presto si ridusse a intuire la chiave che avevamo usato. Ted non ebbe difficoltà a procurarsi il tempo che gli serviva sulla macchina: aveva appena trovato una macchina TOPS-20 che era sottoposta agli ultimi test e vi avviò un programma che tentava ogni chiave finché una non gli restituì qualcosa che aveva le sembianze di un testo. Dopo meno di un giorno di lavoro, aveva una copia leggibile del sorgente. Dovemmo ammettere che, chiunque si fosse preso la briga di fare tutto ciò, di certo se lo meritava... Tutto questo produsse altre conseguenze in seguito.
 
Riguardo a queste “altre conseguenze”:
 
Ad un certo punto, alla fine del 1977, gli hacker del Dynamic Modeling Group decisero che la loro creazione aveva davvero, davvero bisogno di un nome vero e proprio.  Lebling suggerì Dungeon, che non emozionò nessuno (Lebling incluso), ma a nessuno veniva in mente un’alternativa migliore. E così si optò per Dungeon. Ciò avvenne poco prima della breccia nella sicurezza appena descritta; per questo il gioco recuperato da quell’hacker della DEC non si chiamava Zork, bensì Dungeon. Poco dopo, al MIT giunsero voci di possibili azioni legali da parte (provate a indovinare) della TSR, il publisher di Dungeons and Dragons e di un gioco da tavolo di esplorazione di dungeon chiamato semplicemente Dungeon! La TSR era sempre particolarmente zelante nel querelare e gli avvocati del MIT, consultati dagli hacker del Dynamic Modeling Group, erano unanimemente concordi nel ritenere che la TSR non avesse nessun appiglio legale a cui aggrapparsi. Tuttavia, piuttosto che venir risucchiati in una controversia su un nome che oltretutto non piaceva a nessuno, decisero di ritornare al ben più memorabile Zork. E così, all’inizio del 1978, Dungeon tornò di nuovo a essere Zork, per poi mantenere quel nome per sempre.
 
Quasi per sempre. Vi ricordate quel codice sorgente che “Ted” aveva sottratto al MIT? Ebbene, arrivò nelle mani di un altro hacker del DEC, un certo Robert Supnik, che convertì il tutto per FORTRAN, più diffuso e portabile (seppur intrinsecamente e infinitamente meno adatto alle avventure testuali); fu uno sforzo erculeo che stupì perfino gli hacker del Dynamic Modeling Group. Poiché il gioco contenuto nel codice sorgente in MDL a cui aveva accesso si chiamava Dungeon, questa nuova versione rimase Dungeon. Inizialmente Supnik eseguì il porting con l'intenzione di portare Dungeon a girare su un DEC PDP-11 (che, a discapito di quanto sembra indicare il nome, non era un successore del PDP-10, ma piuttosto una macchina fisicamente più piccola, meno potente, e meno costosa). Con il codice sorgente in FORTRAN di Supnik libero di essere distribuito, tuttavia, il salto dal PDP-11 ad altre architetture fu assai breve. Perciò, in questi primi anni, il Dungeon di Supnik con ogni probabilità era più ampiamente distribuito, e quindi era anche più giocato, dello Zork del Dynamic Modeling Group. E quando arrivarono dei PC in grado di supportarlo, Dungeon sbarcò inevitabilmente anche su questi. E così alla fine degli anni ‘80 la situazione era incomprensibile per chi non conosceva tutta questa storia: c’era questo gioco gratuito, chiamato Dungeon, che era stranamente simile ai giochi commerciali ufficiali di Zork, che a loro volta erano molto simili a quest’altro gioco, Adventure, che all’epoca era disponibile in dozzine di versioni gratuite e commerciali. Ad oggi il Dungeon di Supnik è disponibile insieme al codice sorgente (finalmente libero) della versione per PDP-10 di Zork.
 
Tornando al MIT, lo sviluppo dello Zork vero e proprio continuò per tutto il 1978, seppur a un ritmo decrescente. Se si escludono delle correzioni minori di bug, che sarebbero proseguite per un paio di anni ancora, gli ultimi pezzi di Zork furono aggiunti nel Febbraio del 1979. A quel punto il gioco aveva assunto proporzioni davvero enormi: 191 stanze, 211 oggetti, un vocabolario di 908 parole con 71 verbi diversi (senza considerare i loro sinonimi). Gli implementatori avevano praticamente finito le idee per nuovi enigmi ed erano comprensibilmente esausti per il grande sforzo, e (qualora queste giustificazioni non fossero sufficienti) avevano completamente riempito l'unico MB circa di memoria che un programma MDL poteva utilizzare. E così accantonarono Zork e si spostarono su altri progetti.
 
La storia sarebbe potuta tranquillamente finire lì, con Zork che passa alla storia come un altro esempio, eccezionalmente significativo, di avventura testuale fiorita sulle macchine istituzionali negli anni successivi alla pubblicazione di Adventure; insomma, Zork come fosse un altro Mystery Mansion, Stuga (AGGIORNAMENTO: non proprio; leggete il commento di Jason Dyer [“Se vogliamo essere precisi, Stuga non può essere annoverato nel gruppo degli altri due titoli; fu distribuito commercialmente, e vendette piuttosto bene, e può essere definito lo Zork della Svezia”; ndAncient]), o HAUNT. Però non andò così, grazie ad Al Vezza, il direttore (dall’anima tutt’altro che hacker) del Dynamic Modeling Group, che qualche mese più tardi decise che il momento era giusto per entrare coi suoi collaboratori nella nuova, promettente frontiera dei microcomputer, avviando una software house. Non poteva però certo immaginare dove avrebbe portato questa sua decisione.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Le Radici della Infocom
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

 
Dopo una prolungata pausa estiva riprende la traduzione ufficiale del nostro "Antiquario" preferito e - come avranno intuito i lettori più scaltri - i prossimi articoli riguarderanno un argomento molto caro agli avventurieri e per certi versi di grande attualità, il perché vi sarà chiaro nei mesi a venire...
L'articolo del The Digital Antiquarian (versione italiana) che vi presentiamo inaugura il ciclo dedicato alla nascita della Infocom e ai primi due capitoli della serie di Zork.
 
Il percorso di lettura includerà i seguenti articoli:
 
Le Radici della Infocom
Zork sul PDP-10
La Nascita della Infocom
ZIL e la Z-Machine
Come Vendemmo Zork
Giochi a Parser
Esplorando Zork, Parte 1
Esplorando Zork, Parte 2
Esplorando Zork, Parte 3
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
 
Buona Lettura!
 
Festuceto
 
 
Zork
by Personal Software
 
Zork è un fantasy digitale di sfida definitiva. Creature immonde sono a guardia di tesori inimmaginabili. Labirinti ingarbuglieranno la tua quest. Quindi affila il tuo ingegno e scegli attentamente il tuo percorso attraverso il Grande Impero Sotterraneo. L’oggetto più improbabile potrebbe essere il solo in grado di salvarti la vita.
Nonostante tutto, potresti farcela. Scopri i 20 tesori di Zork, riportali nell’Armadietto dei Trofei, e vattene con la tua vita. Ma porta con te tutta l’astuzia e il coraggio che possiedi, perché in Zork… non si fanno prigionieri!
 
Zork, Il Grande Impero Sotterraneo è stato creato dalla Infocom inc. ed è disponibile per Apple II 32K e II Plus e S-80 32 K Model I Level II.
$39.95
 
Nel novembre del 1980, la Personal Software iniziò a pubblicizzare l’annuncio di cui sopra sulle riviste di computer, per promuovere un nuovo gioco disponibile su TRS-80 e (qualche mese più tardi) sull'Apple II. Non si può definire esattamente un capolavoro del marketing: l'artwork pacchiano e dilettantesco può essere difeso solo perché in linea con le altre pubblicità dell'epoca, e il testo riesce a non spiegare assolutamente niente di cosa contraddistingua Zork dalle altre avventure testuali simili. Come non perdonare un avventuriero scafato che abbia voltato distrattamente pagina alla lettura dei “labirinti che ingarbuglieranno la tua quest” e dei “20 tesori” che devono essere riposti “nell'Armadietto dei Trofei”. Perfino Scott Adams (che non era esattamente il paladino della sperimentazione) aveva ritenuto opportuno spingersi oltre le semplicistiche cacce al tesoro fantasy. Senza considerare poi che Zork non offriva nemmeno le belle immagini dei primi giochi della On-Line Systems (per quanto questi fossero punitivi fin quasi al punto di risultare ingiocabili).
 
Nonostante ciò, Zork rappresenta una vera svolta nel genere della avventure testuali, anzi... un’intera collezione di svolte, a partire dal suo parser che mostrava davvero un barlume di uso corretto della lingua inglese (invece del solito semplicissimo schema ripetitivo del testo in-game), tale da far pensare per la prima volta che dietro vi fossero degli autori davvero interessati alla qualità della loro prosa, che non ritenevano la grammatica e l’ortografia delle inutili distrazioni.
In una delle mie parti preferite del documentario Get Lamp di Jason Scott, diversi intervistati riflettono su quanto formidabile fosse Zork nel mondo dell’informatica del 1980-1981. Tutti concordano nell’affermare che, per un breve lasso di tempo, esso sia stato il dischetto più impressionante da tirar fuori per mostrare ciò di cui erano capaci i nuovi TRS-80 e Apple II.
 
Zork giocava su un livello completamente diverso da qualunque altro gioco d’avventura, cosa che del resto non sorprende più di tanto, considerando il suo pedigree. Di certo non si può dedurlo dalla pubblicità qui sopra, ma Zork nasce nell’area più leggendaria della più importante università della storia dell’ingegneria informatica: il MIT. A ben vedere il pedigree di Zork è così impressionante che è difficile sapere da dove iniziare a descriverlo e ancor più difficile sapere dove smettere, e altrettanto difficile evitare di venir risucchiati in un'interminabile versione informatica del “Numero di Bacon”. Per gestire la cosa, cercherò il più possibile di limitarmi alle persone coinvolte direttamente con Zork o con la Infocom, la società che lo ha sviluppato. Iniziamo quindi con Joseph Carl Robnett Licklider, un tizio che per sua ammissione ebbe un ruolo più marginale che diretto nella storia della Infocom, ma che ci serve come esempio della “rarefatta aria di ingegneria informatica” che si respirava alla Infocom.
 
Nato nel 1915 a Saint Louis, Licklider era uno psicologo di mestiere, ma aveva quell’intelletto irrequieto di cui Joseph Weizenbaum avrebbe lamentato la scomparsa (apparente) nelle successive generazioni di studenti del MIT. Conseguì un triplice bachelor's degree in fisica, matematica, e psicologia alla Washington University in Saint Louis all’età di 22 anni, avendo anche “flirtato”, lungo il percorso, con la chimica e le belle arti. Si fermò un attimo per concentrarsi sulla psicologia per il suo Master's degree e per il suo dottorato di ricerca, pur restando costantemente interessato a connettere la scienza “soft” della psicologia con le scienze “hard” e con la tecnologia. E così, studiando la componente psicologica dell’udito, apprese la conformazione fisica del sistema nervoso uditivo dell’uomo e degli animali più di quanto non facciano molti medici specialisti (una volta lo ebbe a definire “il prodotto di un superbo architetto e di un approssimativo operaio”). Durante la Seconda Guerra Mondiale le ricerche sugli effetti dell’altitudine sugli equipaggi dei bombardieri lo portarono ad essere altrettanto coinvolto nella ricerca sulla tecnologia radio utilizzata per le comunicazioni tra i membri dell'equipaggio e con gli altri aerei.
 
Dopo alcuni brevi periodi in varie università, Licklider arrivò al MIT nel 1950, inizialmente per continuare i suoi studi sull’acustica e sull’udito. Tuttavia l’anno seguente il complesso militare-industriale americano si rivolse al MIT in cerca di aiuto per create un network di allerta precoce per i bombardieri sovietici, che ci si immaginava avrebbero potuto calare sull'America dal Circolo Polare Artico. Licklider si unì all’istituzione che fu creata per portare avanti il progetto (il Lincoln Laboratory) in qualità di capo del gruppo di “human-engineering”, ed ebbe un ruolo nella creazione del Semi-Automatic Ground Environment (SAGE), di gran lunga la più ambiziosa applicazione di tecnologia informatica concepita fino ad allora e per molti anni a venire. Creato dal Lincoln Lab del MIT insieme alla IBM e altri partner, il cuore del SAGE era un insieme di mainframe IBM AN/FSQ-7, fisicamente i computer più grandi mai costruiti (un record che probabilmente deterranno per sempre). Il sistema compilava i dati provenienti da molte stazioni radar, per permettere agli operatori di tracciare in tempo reale un ipotetico attacco. Potevano far decollare in allarme e guidare aerei americani per intercettare i bombardieri, con una visuale a volo d’uccello sulla battaglia risultante. Le versioni successive di SAGE consentivano perfino di prendere il momentaneo controllo di aerei alleati, guidandoli verso il punto di intercettazione attraverso un collegamento ai loro sistemi di auto-pilota. SAGE è rimasto operativo dal 1959 al 1983, costando più di quel Manhattan Project, che per primo aveva scoperchiato il vaso di Pandora del conflitto nucleare, e produsse giganteschi passi avanti nell’informatica, in particolare nelle aree del networking e del time-sharing interattivo. D’altro canto, però, se consideriamo che, quando esso divenne operativo, la minaccia rappresentata dai bombardieri nucleari (che il SAGE avrebbe dovuto fronteggiare) era stata già abbondantemente surclassata da quella dei Missili Balistici Intercontinentali, la sua utilità da un punto di vista militare è quantomeno discutibile.
 
 
Negli anni '50 la maggior parte delle persone, fra cui anche molti degli ingegneri e dei primi programmatori che ci lavoravano, vedevano i computer essenzialmente come dei giganteschi calcolatori. Mettevi dei numeri in un'estremità e ne ottenevi altri dall'altra, che si trattasse della giusta traiettoria di un pezzo di artiglieria destinato a colpire un qualunque bersaglio, o che si trattasse dei conti correnti dei milioni di clienti di una banca. Tuttavia, osservando i primi tester di SAGE mentre tracciavano in tempo reale delle minacce simulate, Licklider ebbe una visione radicalmente nuova dall'informatica, in cui l'uomo e il computer potevano collaborare attivamente insieme, in modo interattivo, per risolvere problemi, generare idee, e magari anche divertirsi. E lui si portò dietro queste idee quando nel 1953 lasciò il nascente progetto SAGE per galleggiare fra vari ruoli diversi all'interno del MIT, allontanandosi lentamente sempre di più dalla psicologia tradizionale a favore dell'informatica. Nel 1957 iniziò a dedicarsi all'informatica a tempo pieno, quando (seppur solo temporaneamente) lasciò il MIT per la società di consulenze Bolt Beranek and Newman, una società che giocherà un ruolo enorme nello sviluppo dei network informatici e di quella che oggi conosciamo come internet (i lettori più fedeli di questo blog si ricorderanno che la BBN è anche il luogo dove era impiegato Will Crowther quando creò la versione originale di Adventure come svago dalla sua attività principale di programmazione del codice di gestione dei primi router per network informatici).
 
Licklider, che voleva che tutti (perfino i suoi studenti universitari) lo chiamassero semplicemente “Lick”, era una persona brillante quanto umile. Con la parlata lenta e strascicata del Missouri che poteva oscurare il genio di alcune delle sue idee, non ha mai pensato alla carriera o alla fama personale, e non ha mai fatto uso di inganni o di scaltrezze per avere più successo. Quando uno dei suoi colleghi più ambiziosi rubava una sua idea, Lick si limitava a scrollare le spalle, dicendo: “Non importa che si prenderà il merito; quel che conta è che il risultato sia raggiunto.” Tutti lo adoravano. Gran parte del suo lavoro sarà anche stato finanziato dalla realpolitik dell'industria militare, ma Lick era di indole idealista. Si era convinto che i computer avrebbero potuto plasmare una società migliore e più giusta, in cui gli uomini avrebbero potuto creare ed esplorare il proprio potenziale affiancati dai computer, che si sarebbero assunti tutti i compiti noiosi e ripetitivi. Anticipando in modo sorprendente il World Wide Web, si era immaginato un mondo di “plance di home computer” connesse a un network più ampio che avrebbe portato il mondo dentro casa, in modo interattivo (invece che nel modo passivo e dominato dalle grandi società, come avveniva nella televisione). Tutte queste idee le mise anche nero su bianco in uno studio del 1960 (“Man-Computer Symbiosis” [“Simbiosi Uomo-Computer”]), inserendo il suo pensiero nella lunga schiera degli utopisti informatici, che giocheranno un ruolo essenziale nello sviluppare tecnologie più amichevoli per l'uomo comune, come il linguaggio di programmazione BASIC e i microcomputer veri e propri.  
 
Nel 1958 il governo degli Stati Uniti d'America creò l'Advanced Research Projects Agency in risposta alla presunta superiorità tecnologica e scientifica dell'Unione Sovietica alla luce del lancio dello Sputnik (il primo satellite del mondo) avvenuto l'anno precedente. L'ARPA sarebbe dovuta essere un qualcosa di “visionario”, che metteva insieme scienziati e ingegneri per ricercare idee e tecnologie che sarebbero anche potute non essere di immediata applicabilità nei programmi militari in corso, ma che si sarebbero potute dimostrare utili in futuro. Fu il passo successivo di Lick dopo la BBN: nel 1962 assunse il ruolo di capo del loro “Information Processing Techniques Office”. Rimase all'ARPA per soli due anni, ma in molti gli riconoscono il merito di aver profondamente cambiato il modo di pensare dell'agenzia. Prima di lui l'ARPA era concentrata su monolitici mainframe, usati come gigantesche “macchine per risposte”, che operavano in batch-processing. Da Where Wizards Stay Up Late:
 
Avrebbero immesso nel computer informazioni segrete provenienti da varie fonti umane, quali pettegolezzi da feste od osservazioni alle parate militari del Primo Maggio, per cercare di delineare uno scenario probabile delle prossime mosse dei Sovietici. “L'idea consisteva nell'immettere in un potente calcolatore informazioni qualitative del tipo: 'Il comandante dell'aviazione ha bevuto due Martini' oppure ' Khrushchev non legge la Pravda il lunedì', ricorda Ruina. 'E il computer avrebbe recitato la parte di Sherlock Holmes, e ne avrebbe concluso che i russi stavano costruendo un missile MX-72, o qualcosa del genere.”
 
“Robe da asini” tipo queste erano il motore di gran parte delle riflessioni sui computer di quei giorni, perfino in università prestigiose come il MIT. Tuttavia Lick virò ARPANET in una direzione più gestibile e fruttifera, verso delle reti di computer che gestissero applicazioni interattive in connubio con gli umani: dei fatti e dei numeri se ne sarebbe occupato il computer, mentre delle conclusioni e del processo decisionale se ne sarebbe occupato l'uomo. Questo cambiamento di rotta condusse, nel giro di una decade, alla creazione di ARPANET. E, come tutti oggi ben sanno, ARPANET alla fine divenne Internet (dite quel che volete della Guerra Fredda, ma non che non abbia portato dei giganteschi passi in avanti nell’informatica). La visione umanistica dell’informatica, di cui Lick era paladino, resta percorribile e allettante ancora oggi, mentre restiamo in attesa che i fautori dell’intelligenza artificiale ci producano il primo HAL.
 
 
Lick tornò al MIT nel 1968, stavolta come direttore del leggendario Project MAC. Creato nel 1963 col fine di condurre ricerche per ARPA, la sigla MAC stava (a seconda della persona con cui stiamo parlando) per "Multiple Access Computing" o per "Machine Aided Cognition". Questi due nomi definiscono anche l’oggetto principale delle prime ricerche che vi venivano condotte: sistemi in "time-sharing" che permettessero a utenti multipli di condividere risorse e usare programmi interattivi su una singola macchina; e intelligenza artificiale, sotto la guida di due dei più famosi sostenitori dell’IA: John McCarthy (che ne ha anche coniato il termine) e Marvin Minsky. Potrei scrivere con facilità altri post (se non addirittura dozzine di post) sulla carriera e sulle idee di questi due uomini, affascinanti, problematici, e a volte un po’ inquietanti. E potrei dire lo stesso di molti altri dei luminari dell’informatica del MIT con cui Lick fu in stretto contatto, tipo Ivan Sutherland, l’inventore del primo programma di disegno nonché sostanzialmente di tutto il campo della ricerca nella computer grafica, oltre che suo successore alla guida di ARPA. Invece mi limiterò (ancora una volta) a segnalarvi Hackers di Steven Levy, un libro di facile lettura ma necessariamente incompleto, che descrive il fermento intellettuale del MIT degli anni ‘60, e poi Where Wizards Stay Up Late di Matthew Lyon e Katie Hafner, per approfondire i primi anni della carriera di Lick, ma anche la BBN, il MIT, e il nostro vecchio amico Will Crowther.
 
Il Project MAC si divise in due nel 1970, diventando il MIT AI Laboratory e il Laboratory for Computer Science (LCS). Lick rimase con quest’ultimo nel ruolo di una sorta di figura paterna per la nuova generazione di giovani hacker che alla fine degli anni ‘70 stavano lentamente rimpiazzando la vecchia guardia, di cui parla il libro di Levy. La sua era una mente accorta, sempre pronta a raccogliere le loro idee, e lui riusciva sempre (grazie anche alla sua rete di connessioni col governo e con l’industria) a trovare i fondi per portarle avanti.
 
L’LCS era formato da una serie di gruppi di lavoro più piccoli, uno dei quali era noto come il Dynamic Modeling Group. È stranamente difficile abbinare questi gruppi a uno scopo univoco. A ben vedere non è possibile farlo nemmeno con gli stessi AI Lab e LCS. Molte ricerche che si sarebbero potute facilmente considerate inerenti all’IA si svolgevano all’LCS, e molte che invece non rientravano tanto comodamente sotto quell’ombrello si svolgevano all’AI Lab (per esempio Richard Stallman sviluppò il text editor definitivo per gli hacker, l'EMACS, al AI Lab – un progetto indiscutibilmente meritevole, ma che ha davvero poco a che fare con l’intelligenza artificiale). I gruppi e gli individui al loro interno avevano un’immensa libertà di "hackerare" su qualunque progetto giustificabile di loro interesse (con i progetti non giustificabili che venivano rimandati al dopolavoro), aspetto questo che fece dell’LCS e dell’AI Lab l'amatissima casa degli hacker. E molti di loro arrivarono a ritardare la propria laurea, o addirittura non ci persero proprio tempo, tanto era intellettualmente fertile l’atmosfera nel MIT in contrasto con ciò che avrebbero trovato in una “normale” carriera nell’industria privata.
 
 
Il direttore del Dynamic Modeling Group era un tizio chiamato Albert (Al) Vezza, che ricopriva anche il ruolo di direttore aggiunto dell’LCS. E qui dobbiamo prestare attenzione. Se sapete già qualcosa della storia della Infocom, probabilmente vi ricorderete di Vezza come dell'imprenditore severo e cattivo, che non riusciva a vedere la magia nel nuovo medium della narrativa interattiva che il resto della società voleva perseguire, e che insisteva nel voler ridurre il lavoro della divisione ludica a una mera fonte di introiti per finanziare le applicazioni professionali più “serie”, e che alla fine condusse la società alla rovina per colpa delle sue errate priorità. È però anche vero che non c’è nemmeno mai stato un vero scontro diretto fra gli ex studenti universitari della Infocom e Vezza. Un’intervista con Mike Dornbrook per un progetto di uno studente del MIT impegnato a studiare la storia della Infocom, ci fornisce la seguente immagine di Vezza al MIT:
 
Se Licklider era carismatico e veniva affettuosamente chiamato “Lick” dai suoi studenti, Vezza non parlava quasi mai con i membri dell’LCS e di solito la mattina passava dall’ascensore al suo ufficio senza una minima deviazione, chiudendosi la porta alle spalle, per poi non vedere più nessuno per tutto il giorno. All’LCS c’era chi era scontento del suo stile dirigenziale, affermando che fosse freddo e che “non parlava mai con le altre persone se non vi era costretto, perfino con quelle che lavoravano all'interno del Lab.”
 
D’altro canto Lyon e Hafner hanno però questo da dire al riguardo:
 
Vezza faceva sempre una buona impressione. Era affabile ed eloquente in modo impeccabile; aveva un’arguta mente scientifica e istinti amministrativi di primissimo livello.
 
Al di là dei suoi difetti, Vezza era molto più di un vuoto colletto bianco privo di immaginazione. Ha infatti avuto una lunga e brillante carriera, spesa in gran parte a portare avanti le idee inizialmente proposte dallo stesso Lick; per esempio, appare nel libro di Lyon e Hafner perché ebbe un ruolo chiave nell’organizzazione della prima dimostrazione pubblica delle capacità della nascente ARPANET. Anche dopo gli anni alla Infocom, la sua restò una voce importante nel World Wide Web Consortium, l’ente che sviluppò molti degli standard che ancora oggi guidano internet. Di certo non rende onore a Vezza il fatto che la sua pagina di Wikipedia consista quasi esclusivamente nel suo inglorioso mandato alla Infocom, un periodo che probabilmente lui considera poco più che una sgradevole parentesi della sua carriera. Anche noi però siamo principalmente interessati a tale parentesi, benché per adesso ci accontentiamo di tracciare il ritratto di un uomo che era più un amministratore o un burocrate che un hacker, e che era più pragmatico che idealista; un uomo che, in conseguenza di ciò, aveva problemi a relazionarsi con le persone che avrebbe dovuto dirigere.
 
Molte di queste persone avevano nomi che i fan della Infocom hanno imparato a conoscere bene: Dave Lebling, Marc Blank, Stu Galley, Joel Berez, Tim Anderson, ecc. ecc. Come Lick, molte di queste persone erano diventate hacker passando per vie traverse. Lebling, per esempio, aveva conseguito un diploma in scienze politiche prima di venir risucchiato nell’LCS, mentre Blank faceva la spola fra Boston e New York, dove in qualche modo riuscì a completare i suoi studi di medicina pur "hackerando" come un pazzo al MIT. Una cosa però accomuna tutte queste persone: erano in gamba. Del resto all’LCS i cretini erano mal sopportati – anzi, non erano sopportati per niente.
 
Uno dei primi lavori del Dynamic Modeling Group fu la creazione di un nuovo linguaggio di programmazione da utilizzare nei suoi progetti, che (con la tipica impudenza degli hacker) fu chiamato “Muddle” [“bordello”]. Il Muddle divenne rapidamente l’MDL (MIT Design Language) in risposta a qualcuno (Vezza?) che non apprezzava lo humour del Dynamic Modeling Group. Si trattava, in sostanza, di una versione migliorata di un vecchio linguaggio di programmazione sviluppato al MIT da John McCarthy, che era (e resta ancora oggi) il linguaggio favorito dai ricercatori nel campo dell’intelligenza artificiale: il LISP.
 
Forti del MDL, il Dynamic Modeling Group si lanciò in una serie di progetti, individuali o cooperativi. Alcuni di questi progetti avevano anche delle vere applicazioni militari che dovevano strizzare l'occhio a quelle persone che, in ultima analisi, pagavano per tenere in piedi tutta la baracca; Lebling, per esempio, passò un bel po’ di tempo su dei sistemi informatizzati di riconoscimento del codice morse. Ma c’erano anche molti giochi, in alcuni dei quali anche Lebling partecipava, incluso quello più ricordato di tutti, Maze. Maze funzionava in rete, con fino a 8 Imlac PDS-1 (dei microcomputer molto semplici, dotati di primitive capacità grafiche) che fungevano da “client” connessi ad un singolo “server” DEC PDP-10. I giocatori sui PDS-1 potevano navigare attraverso un ambiente condiviso, sparandosi contro; una sorta di antenato di giochi moderni tipo Counter-Strike. Maze divenne un grande successo, nonché un serio problema per i burocrati tipo Vezza; non solo un vero gioco da 8 giocatori spingeva il server PDP-10 ai suoi limiti, ma aveva anche la tendenza a far crashare del tutto questa macchina, che altri dovevano usare per lavorare davvero. Vezza chiese più e più volte che venisse rimosso dai sistemi, ma cercare di imbrigliare il caos del Dynamic Modeling Group era una causa persa in partenza. Fra gli altri progetti “divertenti”, Lebling creò anche un quiz, che permetteva agli utenti di ARPANET di inviare le domande scritte da loro e che alla fine poteva contare su un database di migliaia di domande.
 
E poi, nella primavera del 1977, Adventure arrivò al MIT. Come nei dipartimenti di informatica di tutta la nazione, anche qui il lavoro sostanzialmente si fermò mentre tutti cercavano di risolverlo; alla fine i membri del Dynamic Modeling Group conquistarono quel “last lousy point” [cioè “quell’ultimo disgustoso punto”; ndAncient] con l’aiuto di uno strumento di debugging. Forti di questo risultato, iniziarono (come molti altri hacker, in molti altri luoghi) a pensare a come avrebbero potuto creare un Adventure migliore. A differenza di altri, però, il  Dynamic Modeling Group aveva degli strumenti a portata di mano che lo metteva in una posizione più che unica per riuscirci.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Due diverse culture di avventurieri
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Quando Adventureland compì il suo primo anniversario, i giochi d'avventura sul TRS-80 erano già fra i software più popolari di quella piattaforma. E avevano iniziato ad apparire anche sugli altri microcomputer, grazie all'engine estremamente convertibile di Scott Adams e al fatto che praticamente tutte le avventure di altri autori erano ancora programmate in un BASIC relativamente standard. Era ormai nata una nuova forma d'arte.

Già nel numero del Giugno 1979, SoftSide pubblicò un "avviso di fidanzamento" fra il TRS-80 e il "Fantasy":

La redazione di SoftSide è lieta di annunciare la nascita, da questa unione, di una nuova forma d'arte. Crediamo che una delle più creative forme d'arte del futuro sarà il romanzo partecipato ["the participation novel" nel testo originale, ndTraduttore], nel quale assumerete il ruolo di un personaggio e con le vostre azioni potrete alterare il corso della storia, anziché limitarvi a leggere passivamente ciò che l'autore principale ha ideato e scritto.

Già adesso gli autori, che fin qui si sono dedicati ad elaborati giochi di simulazione, sono al lavoro sui loro adattamenti per computer. I loro progressi sono eccitanti, con grandi novità all'orizzonte! Nel nostro numero di Dicembre vi abbiamo presentato Santa Paravia en Fiumaccio, che ha infranto nuove barriere nelle simulazioni su computer [scritto dal Reverendo George Blank, Santa Paravia en Fiumaccio era un adattamento / espansione di Hamurabi, un gioco di strategia e gestione delle risorse che risaliva al 1968 e che era stato convertito in BASIC da David Ahl, il fondatore della rivista Creative Computing. Essendo stato il primo gioco per computer che chiedeva al giocatore di calarsi nei panni di un personaggio dentro una specie di vero e proprio "storyworld", già Hamurabi da solo riveste un ruolo di grande interesse storico e teorico]. A Maggio vi abbiamo presentato Dog Star, che ci ha portato un passo più vicini al romanzo elettronico. E già intravediamo all'orizzonte i giorni in cui elaborate simulazioni elettroniche di alta qualità artistica e letteraria sapranno riempire le nostre ore di svago, proprio come oggi fa la televisione; proprio come la televisione solo ieri ha sostituito i radiodrammi, e come i radiodrammi avevano contribuito al declino della lettura come svago.

A Marzo, SoftSide è stata contattata dall'editore di The Dungeoneer e di Judges Guild Journal, due riviste specializzate nel gioco di simulazione Dungeons and Dragons. In una copia di The Dungeoneer abbiamo scoperto, con una certa sorpresa, una lista di sessantuno altre riviste specializzate in giochi fantasy, di guerra e di simulazione. E abbiamo altresì scoperto che molte di queste persone stanno iniziando a usare il TRS-80
[presto esplorerò io stesso questo collegamento fra la nascente industria dei videogiochi e il mondo in rapida espansione dei giochi di ruolo da tavolo; ndDigitalAntiquarian]. Quando il lavoro altamente creativo che queste persone stanno facendo sarà adeguatamente coniugato con il computer, allora nascerà il romanzo elettronico! Siamo certi che quel giorno non è lontano e noi intendiamo farne parte!

Poco dopo SoftSide iniziò ad usare il bizzarro termine "compunovels" [contrazione di "computer" + "novel", cioè "computer" + "romanzo", nd Traduttore] per riferirsi a queste opere, il primo di tanti tentativi di scrittori, commentatori e giocatori di andare oltre la limitante etichetta di "giochi d'avventura" o (come furono chiamati qualche tempo dopo) di "avventure testuali", nella speranza di coniare un termine che riflettesse meglio le ambizioni letterarie del genere.



Ovviamente il concetto di "compunovel" era più un'aspirazione che una realtà nel 1979, quando la regola nel campo delle avventure erano i giochi dal lessico infantile di Scott Adams, "la grammatica stranamente errante" (per usare le parole di Graham Nelson), e trame meramente abbozzate. E per molti contemporanei queste aspirazioni di grandezza letteraria devono essere sembrate pura follia, considerata la magra realtà del tempo. Dobbiamo quindi rendere merito agli scrittori di SoftSide di aver intuito il potenziale di questa nuova forma, una volta liberata dai limiti tecnici che i 16 K di memoria e l'archiviazione su cassetta imponevano a quei programmatori che in quegli anni stavano lentamente cercando di diventare scrittori.

Tuttavia esisteva anche un'altra cultura che all'epoca era già in gran parte libera quanto meno dal primo di questi due limiti: la cultura dell'hacking sui computer istituzionali, a cui già spettava anche il merito della nascita del genere. Nel 1979 le grandi macchine istituzionali ospitavano già una varietà di titoli: Zork (al MIT); Stuga (allo Stockholm Computer Central, la prima avventura creata fuori dagli Stati Uniti e la prima non in inglese); Acheton (alla Cambridge University in Inghilterra); Mystery Mansion (hostato -fra i tanti posti- al Naval Warfare Engineering Station di Keyport, Washington).
Nel frattempo altri autori (liberi dalle considerazioni di natura commerciale che stavano già iniziando a dominare il mercato del software dei microcomputer) iniziarono a migliorare ed espandere l'Adventure originale di Crowther e Woods, creando un numero sorprendente di varianti che vennero identificate in base al punteggio massimo che era possibile raggiungere in ognuna di esse. L'originale, che offriva un potenziale di 350 punti, è così saltuariamente chiamato Adventure 350, mentre fra i suoi successori ci sono: Adventure 366, Adventure 500, e molti altri, fino ad arrivare molti anni dopo all'inevitabile Adventure 1000. Perfino lo stesso Woods creò una versione espansa a 440 punti, prima di abbandonare definitivamente la creazione di avventure.



La prima caratteristica che oggi ci colpisce di più in tutti questi giochi apparsi sui grandi computer istituzionali è la loro considerevole dimensione; molte rimangono ancora oggi fra le avventure più grandi mai costruite; se non come profondità di gioco, sicuramente come ampiezza, con centinaia di stanze ciascuna.
Le loro dimensioni erano una conseguenza naturale della cultura che le aveva create. Nella cultura degli hacker nessun programma poteva mai essere davvero considerato finito: c'era sempre spazio per aggiustare qualcosa, per aggiungere altro, per... altro. Poiché questi giochi non erano destinati alla commercializzazione, non c'era nessuna necessità di dichiararli finiti e di consegnarli al pubblico una volta per tutte. Per questo restavano spesso, letteralmente per anni, in una sorta di stadio di sviluppo in cui erano comunque giocabili, crescendo a singhiozzi sulla base dell'interesse del momento di chi vi contribuiva. E infatti un'altra cosa che contraddistingueva questi giochi dalle loro controparti per i microcomputer (e perfino dalla maggior parte delle opere di narrativa interattiva di oggi) era il fatto che esse erano il frutto di un lavoro di squadra. Zork, per esempio, è apparso la prima volta su un sistema del MIT nel Maggio del 1977 sulla scia del fenomeno Adventure, ma non fu terminato prima del Febbraio del 1979. E, anche a quel punto, il gioco non era davvero completato da un punto di vista tematico o di design. Semplicemente i suoi creatori erano riusciti a riempire perfino il cavernoso megabyte di memoria del loro DEC, e quindi erano fisicamente impossibilitati ad aggiungere altre stanze ancora.

Se state pensando che un tale modello di sviluppo fosse limitante per le possibilità narrative degli autori, non meno degli assurdi limiti hardware dei primi home computer... beh, avete ragione. Il team che creò Zork, per esempio, conteneva degli scrittori autenticamente dotati, forse i più dotati del mondo delle avventure del 1979. Nonostante questo i loro sforzi erano continuamente disfatti dalla presenza di "troppi cuochi in cucina", con delle descrizioni frutto di vera immaginazione ed eleganza troppo spesso affiancate da altre di una concisione degna di Scott Adams. In modo analogo, il design è confuso e privo di focus, con delle ottime idee sommerse da altre meno brillanti, in maniera apparentemente del tutto casuale. Zork, e molti altri giochi ancora più grandi (come Acheton), sono vasti e caotici al punto da risultare quasi incomprensibili. Da questo punto di vista i limiti tecnici dei microcomputer, che costringevano gli autori a creare dei giochi ben pensati e con un design strutturato al posto di divagazioni casuali, non erano poi un gran male. O, per dirlo in un'altra maniera: più grande in questo caso non significa necessariamente meglio. Vale la pena far notare che nessuno di questi giochi aveva un arco narrativo che fosse lontanamente conciso e coerente come quello di The Count.



Detto questo, non possiamo non perdonare i possessori di TRS-80 (che all'epoca si avventuravano per i limitati ambienti di Adventureland, di Dog Star Adventure, e di The Count) per aver gettato degli sguardi invidiosi su tutte quelle stanze, tutti quegli oggetti, tutto quello spazio per il testo. Fu quindi un grande evento l'arrivo sul TRS-80 del padre di tutti gli sfarzi dei computer istituzionali: Adventure.
Infatti, se Adventure poteva girare su un TRS-80, allora era ragionevole sperare che presto sui microcomputer sarebbero stati possibili anche altri giochi più grandi e più ambiziosi - il che, ovviamente, avvenne puntualmente. E, di lì a qualche anno, lo sviluppo dei giochi d'avventura sulle grandi macchine si esaurì del tutto.

Il nome della società che per prima portò Adventure nelle case delle persone comuni tramite il TRS-80 probabilmente vi sorprenderà. Ma su questo mi dilungherò la prossima volta.

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Articoli precedenti:
- Sulle tracce di The Oregon Trail
- In difesa del BASIC
- A Caccia del Wumpus
- L'Avventura di Crowther
- TOPS-10 in a Box
- L'Avventura completata
- Tutto il TRaSh del TRS-80
- Eliza
- Adventureland
- Dog Star Adventure
- Qualche domanda per Lance Micklus
- Un 1979 indaffarato
- The Count

- Due diverse culture di avventurieri

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I vent'anni di Inform

Esattamente vent'anni fa, il matematico inglese Graham Nelson (allora venticinquenne) rilasciava pubblicamente la prima versione di Inform, un linguaggio di programmazione che avrebbe dato il via al definitivo affermarsi delle avventure testuali non commerciali. Certo, di Interactive Fiction fatta in casa se n'era vista sin dagli albori del genere e già negli anni '80 non mancavano i linguaggi dedicati (tra cui TADS) e i corsi per giovani scrittori (da ricordare, per noi Italiani, quello di Enrico Colombini pubblicato da Edizioni Jackson nell'85),

Inform, tuttavia, aveva e ha tuttora la non secondaria caratteristica di creare file d'avventura in Z-Code, lo stesso formato dei grandi successi Infocom. Anche il più semplice interprete in grado di avviare le avventure della casa di Zork, dunque, era in grado di far girare anche le creazioni realizzate in Inform.
Come se ciò non bastasse, Nelson fece conoscere il suo linguaggio in maniera assai efficace: ci creò sopra Curses, un'avventura enorme, con enigmi subdoli e stuzzicanti. Un pezzo d'IF che aveva poco da invidiare alle opere di Mark Blanc e compagnia.

Oggi Inform è ancora uno strumento molto amato tra gli autori di avventure testuali e continua a ricevere aggiornamenti e modifiche. Attualmente è possibile usare la versione 7, ma la 6 gode ancora di un discreto successo, date alcune differenze fondamentali che le caratterizzano. La 6 è l'ultima evoluzione di Inform "classico", simile a un vero e proprio linguaggio di programmazione; è dunque molto usata dagli autori "storici". La 7 è un vero e proprio nuovo inizio, essendo basata su un linguaggio "discorsivo" che non fa uso di comandi o tag: basta scrivere una semplice frase in lingua corrente (es. "Quando entri in cucina, visualizza "Che profumino!") e il sistema riconoscerà il tutto in maniera organica. Inform 7 è apprezzato da autori più giovani, ma anche i veterani stanno piano piano incominciando a sfruttarne le caratteristiche.

E fra vent'anni che versione di Inform avremo a disposizione?

Nel frattempo, provate Inform anche voi.
E poi venite a mostrarci i risultati nell'OGI Forum.

Archeologia Videoludica 3x10: Quando uccisi il troll con una spada

Eccoci ad un nuovo appuntamento con Archeologia Videoludica, questa volta creato a colpi di parser! Il protagonista del nostro racconto è infatti Zork, una delle prime avventure testuali prodotte da Infocom e pietra angolare della storia videoludica.

Alla tastiera virtuale un interessante trio composto da Simone "AT" Pizzi, Alex "Z-Machine" Raccuglia e Roberto "il Grue" Bertoni, accompagnati da Marco Vallarino, una delle più promettenti penne della scena attuale e autore di Darkiss, un titolo dedicato al mondo dei vampiri che vi invitiamo a provare.

Guest stars dell'episodio uno dei maestri italiani delle avventure testuali, Enrico Colombini insieme e Paolo Gabriele Sfredda, super appassionato di tutto quello che sia Interactive Fiction. 

Bando alle ciance, accendete le casse e ascoltate il nuovo episodio!

Scaricate la puntata
Visitate il sito di Archeologia Videoludica
E lottate con il Grue nell'Ogi Forum