Zork III, Parte 2
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Cari Avventurieri, avete riempito le vostre borse di gioielli e danari (ovviamente del conio dei Testapiatta) per investirli in equipaggiamento e armi (o in una casetta bianca al margine del bosco se avete pensato di ritirarvi dall'attività)? Bene, perché è il momento di salutare il Regno Sotterraneo di Zork, e il nostro Antiquario Digitale preferito (nonché l'unico degno di tale nome), ma trattenete le lacrime, non è un addio. Dopo una serie di salti acrobatici che ci hanno portati dal 1979 fino al 1982, la traduzione ufficiale del The Digital Antiquarian tornerà e seguirà la normale cronologia, ripartendo proprio dal 1979, quando Zork I aveva rivoluzionato il mercato delle avventure testuali e decretato il successo della nascente Infocom.
Nel frattempo torneremo ad occuparci di Giochi di Ruolo per Computer, con il mitico CRPG Addict (vi mancava?) nella sua traduzione italiana ufficiale, sempre opera dell'instancabile e insaziabile The Ancient One.
L'argomento non ve lo rivelo, ma è davvero molto gustoso!
 
Prima dello struggente commiato, la completa lista degli articoli del ciclo di Zork:
 
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura ... e non siate troppo nostalgici!
 
Festuceto

L’ultima volta abbiamo esplorato l’area a ovest dell’Incrocio. Oggi andiamo a est.
 
Lì troviamo il Museo Regale, che ospita una macchina del tempo che è il cuore dell’ultimo degli intricati enigmi escogitati da Blank appositamente per Zork III. È interessante confrontare il rigore con cui Zork III  tratta i viaggi nel tempo rispetto a quello di Time Zone, che, nonostante abbia proprio il viaggio nel tempo come tema centrale, si limita a nascondere sotto il tappeto la maggior parte delle implicazioni che vi sono connesse, rinunciando del tutto ad affrontarle. E, nonostante le sfide che i viaggi nel tempo offrono agli autori (perfino a quelli di narrativa tradizionale), gli enigmi “temporali” resteranno anche negli anni a venire fra i preferiti della Infocom.
 
E c’è da dire che, in questo primo tentativo, se la sono cavata piuttosto bene: non c’è un vero e proprio modo per “rompere” la simulazione, sia grazie a un modello sorprendentemente complesso, sia grazie a delle limitazioni molto astute che restringono il campo delle possibilità. Con un tocco di commedia leggera, che alleggerisce un po’ il tono generalmente opprimente del gioco, possiamo persino trovarci faccia a faccia (seppur solo brevemente) con Lord Dimwit Flathead the Excessive in persona, che per tutta la serie è stato oggetto di continue ironie:
 
>premi bottone
Sperimenti un breve disorientamento. Quando riacquisti la visti, ti ritrovi nel mezzo di una specie di cerimonia, con uno strano uomo dalla testa piatta con indosso i paramenti regali in procinto di rompere una bottiglia sulle sbarre di una gabbia di ferro che contiene dei magnificenti gioielli. Sembra lieto della tua presenza. Parla a voce molto alta, quasi assordando il povero servitore al suo fianco, il cui compito è quello di assicurarsi che i suoi desideri siano realizzati. “Ah! Un ladro! Te l’avevo detto che ci serviva più sicurezza! Ma, no! Tutti a dirmi che la mia idea, di costruire il museo sotto due miglia di montagna, circondato da centocinquanta metri di acciaio, era poco pratica! E ora che ce ne facciamo di questo… intruso? Ce l’ho! Costruiremo una grandissima fortezza sulla vetta della montagna più alta, con una stretta scala, lunga centinaia di metri, fino al pinnacolo. E lì resterà per tutta la sua vita!” Il suo vessato assistente sembra esitare. “Non pensa, Sua Maestà, che il Vostro piano sia un po’… ehm, un po’ troppo?” Il Testapiatta ci pensa sù. “No, non mi sembra.” esclama e così vieni portato via. Qualche anno dopo, la tua prigione è ultimata. Vi vieni condotto e vi trascorri il resto della tua misera esistenza.
 
** Sei morto **
 
Tutto quello di cui parlerò da qui in poi si riferisce a parti del gioco che sono state prese, sostanzialmente immutate, dalla versione di Zork per PDP-10. Per prima cosa, a sud del Museo Regale, c’è l’Enigma Regale, un elaborato gioco di logica che potrebbe ben essere il primo esempio di un enigma appartenente a quel genere dei “blocchi che scorrono”, che di lì a poco sarebbe diventato (tristemente) assai comune fra i giochi d’avventura. Questo però è più interessante di molti di quelli che gli faranno seguito. Dobbiamo spingere delle pareti di pietra arenaria su una griglia, per rinvenire un importante libro che è nascosto all’interno (facile) e per uscire fuori portandoselo dietro (difficile). Anche se è stato uno degli ultimi enigmi aggiunti alla versione PDP-10 di Zork, l’Enigma Regale era collocato da un punto di vista geografico piuttosto presto all’interno del gioco finito, vicino al grande labirinto e al covo del ladro. Questo enigma fu prevalentemente frutto delle fatiche del meno citato dei membri del team originale di Zork, Bruce Daniels. Fu eliminato da Zork I per ragioni di spazio, ma evidentemente alla Infocom lo consideravano troppo buono per restare fuori dai giochi per PC, e quindi lo inserirono qui, come aggiunta al Museo Regale.
 
Ed effettivamente è un buon enigma, che per essere risolto richiede un’attenta pianificazione e perfino qualche appunto cartaceo, pur restando sicuramente risolvibile. Ma, cosa ancora più importante, la sua risoluzione è divertente. Personalmente non ho mai capito la sua reputazione di enigma estremamente difficile (in questo senso è eloquente una frase di una vecchia soluzione: “E ora fate un bel respiro, perché state per entrare in uno degli enigmi più difficili di Zork III...”). In realtà, l’Enigma Regale richiede solo pazienza, un’accurata pianificazione, e - questo sì - la volontà di ricaricare molte volte: una pressione sbagliata su una parete è di solito sufficiente a rendere l’enigma irrisolvibile. Non è una passeggiata, è vero, ma è sicuramente molto meno sfiancante di certi altri enigmi disseminati per la versione PDP-10 di Zork e per i primi due giochi per PC, che fanno invece interamente affidamento su veri e propri “balzi intuitivi” (per usare un eufemismo). L’Enigma Regale avrebbe una sua dignità perfino come gioco a sé stante, separato cioè dal contesto di Zork. E infatti alcuni al MIT lo consideravano tale, sfidandosi non solo a risolverlo, ma anche a risolverlo nel minor numero possibile di mosse.
 
Con l’Enigma Regale alle nostre spalle, abbiamo adesso esplorato e concluso tutte le stanze inizialmente accessibili della mappa. In una delle scelte di design più discutibili, adesso il gioco ci lascia a vagare per la sua mappa, in cerca di una qualunque cosa nuova da fare. Alla fine entriamo nella Stanza delle Incisioni e ci imbattiamo in un vecchio addormentato, che (in cambio di un tozzo di pane) ci permette di accedere alla parte finale del gioco. Adesso si tratta solo di attraversare una serie lineare di enigmi, presi pari pari dal finale della versione per PDP-10 di Zork, tutti ideati da Dave Lebling. Questi enigmi sono adeguatamente ostici, ma (come l’Enigma Regale) lo sono per i giusti motivi. L’ostacolo principale è una specie di strano veicolo che dobbiamo capire come comandare. Come fa notare Jason Dyer nel suo interessante articolo sulla versione per PDP-10 di Zork, qui ci troviamo a faticare per visualizzare un elaborato marchingegno descritto solamente tramite testo; anzi, descritto con quello che, con ogni probabilità, è il passaggio più lungo di tutta la trilogia.
 
Dentro lo Specchio
Ti trovi in una scatola di legno rettangolare, la cui struttura è piuttosto complicata. Quattro dei suoi lati e il suo soffitto sono rivestiti, mentre il pavimento è aperto.
 
Guardando il lato opposto all’ingresso, due lati corti, alla tua sinistra e alla tua destra, sono fatti di legno intagliato e levigato. Il pannello di sinistra è di mogano, quello di destra è di pino. La parete che hai di fronte è rossa nella sua metà di sinistra e nera nella sua metà di destra. Sul lato dell’ingresso, la parete è bianca (in corrispondenza della parte rossa sulla parete opposta) e gialla (in corrispondenza della parte nera sulla parete opposta). Le pareti dipinte sono lunghe almeno il doppio di quelle non dipinte. Il soffitto è dipinto di blu.
 
Nel pavimento c’è un canale largo quindici centimetri e profondo trenta centimetri. Il canale è orientato in direzione nord-sud. Nel centro esatto della stanza, il canale si allarga, formando una depressione circolare, ampia forse sessanta centimetri. Incisa nella pietra, sulla superficie circolare di quest’area più bassa, c’è una rosa dei venti.
 
Da una parete corta all’altra corre, all’incirca ad altezza della vita, una sbarra di legno, incisa e forata con cura.  Questa sbarra è forata in due punti. Il primo foro si trova nel centro della sbarra (e quindi in corrispondenza del centro della stanza). Il secondo foro è all’estremità sinistra della stanza (sempre per chi guarda il lato opposto all’ingresso). In entrambi i fori corre un palo di legno.
 
Il palo all’estremità sinistra della sbarra è corto, allungandosi per circa trenta centimetri sopra la sbarra, e termina in un’impugnatura. Il palo è stato altresì inserito all’interno di un foro ricavato nel pavimento di pietra.
 
Il palo lungo al centro della sbarra si estende dal soffitto, attraverso la sbarra, fino all’area circolare nel canale di pietra. Questa estremità inferiore del palo ha attaccata sopra una sbarra a T, leggermente più corta di sessanta centimetri, e su tale sbarra a T è incisa una freccia. La freccia e la sbarra a T puntano verso ovest.
 
Dyer descrive questo enigma, in modo corretto, seppur anacronistico, come un enigma “Myst-like”. Ma, ovviamente, gli elaborati meccanismi di Myst vengono visualizzati e manipolati graficamente. E, effettivamente, per quanto meticolosamente descritto, dopo aver letto questo casino si desidererebbe un’immagine da osservare. Qui la Infocom, la principale fautrice mondiale del potere del testo puro, sta già scontrandosi con le sue limitazioni (basti pensare che Bruce Daniels ha scelto di rappresentare l’Enigma Regale con dei semplici diagrammi in ASCII, senza nemmeno provare a descriverli in prosa).
 
Proseguendo oltre, incontriamo finalmente il Dungeon Master. Per fortuna Zork III omette il quiz su Zork, che invece nella versione per PDP-10 era necessario per poter accedere al suo santuario interno, l’ultima area del gioco.
 
“Io sono il Dungeon Master!” tuona, “Ti ho osservato a lungo durante il tuo viaggio per il Grande Impero Sotterraneo. Sì!”, dice, come se stesse pensando a un passato quasi dimenticato, “ci siamo già incontrati, anche se io posso apparire diverso da come ti sono apparso un tempo.” Guardi attentamente il suo viso pieno di rughe e vedi le facce del vecchio della porta segreta, del tuo “amico” della scogliera e della figura incappucciata. “Hai mostrato gentilezza al vecchio, e compassione per l'incappucciato. Ti ho visto dare prova di pazienza durante gli enigmi e di fiducia alla scogliera. Hai dimostrato forza, ingegnosità e valore. Nonostante ciò, ti aspetta un'ultima prova. Ora! Dammi un ordine, e completa la tua missione!”
 
Il Dungeon Master diventa il nostro compagno; dobbiamo dargli comandi per risolvere l'enigma finale. Giocando questo enigma dopo quello, simile, con il robot di Zork II, ci si stupisce principalmente di quanto ora sia più facile e più diretto comunicare con gli altri, grazie al nuovo sistema di conversazione sviluppato da Infocom per Deadline e qui implementato.
 
Data la descrizione del Dungeon Master mostrata più sopra e il fatto che durante il gioco abbiamo collezionato pezzi di equipaggiamento per “diventare” Dungeon Master noi stessi – senza menzionare il tono serio e minaccioso di tutto quel che è avvenuto finora – il colpo di scena che chiude il gioco e la trilogia non sorprende del tutto. Lo stesso, ricoprire il nostro posto come Dungeon Master dà qualche brivido. Siamo arrivati molto oltre alle allegre cacce al tesoro.
 
Su una scrivania in fondo alla stanza possiamo trovare dei certificati che rappresentano un interesse di controllo nella FrobozzCo International, il conglomerato multinazionale e azienda madre della Frobozz Magic Boat Co., etc.
 
Mentre esamini felice le tue nuove ricchezze, il Dungeon Master si materializza accanto a te, e dice, “Ora che hai risolto tutti i misteri del Dungeon, è tempo che tu assuma il posto che ti sei guadagnato nello schema delle cose. Ho aspettato da troppo tempo qualcuno capace di liberarmi dal mio fardello!” Ti tocca leggermente con il suo bastone sulla testa, borbottando un paio di incantesimi ben scelti, e tu senti di star cambiando, di star diventando più anziano, più curvo. Per un momento, ci sono due maghi identici in piedi in mezzo al tesoro, poi la tua controparte diventa nebbia e sparisce, un ghigno sardonico sul viso.
 
Per un momento sei sollevato, tranquillo nella consapevolezza di aver completato la tua missione in ZORK. Cominci a sentire gli immensi poteri e la conoscenza che sono al tuo comando e brami per un'opportunità di usarli.
 
Molto di quello che è appena successo è ancora molto vago, la maggior parte dei dettagli, com'era tipico delle avventure di quest'era, lasciato all'immaginazione. Ma in questo caso, invece di sembrare il prodotto di limiti tecnologici o semplicemente una mancanza di talento nella narrazione, la vaghezza funziona. Si capisce che una spiegazione precisa rovinerebbe tutto. Vista la potenza di questo finale, dobbiamo essere contenti che Infocom abbia deciso di non sminuirlo con uno Zork IV. E, come nota anche Jason Dyer, è difficile non leggere questo finale in senso meta-letterale: “Ecco una nuova forma d'arte, grezza e non raffinata, che ha il potenziale di essere seria e profonda.” L'ultimo paragrafo, che non si trova nella versione originale ma solo in Zork III, aumenta questa impressione. L'ultima frase potrebbe persino riferirsi ai sentimenti della stessa Infocom in quel momento. E avrebbe senso – avevano in serbo un paio di anni memorabili.
 
Questo, quindi, è Zork III. Come hanno notato in molti, a volte con disapprovazione, è molto più corto di entrambi i suoi predecessori, con così pochi enigmi veri e propri che probabilmente li si potrebbe contare con le dita. Però, occupa circa lo stesso spazio dei giochi precedenti sul disco. Al posto di enigmi estesi e “scadenti” come labirinti e indovinelli, Blank ha implementato un numero minore di interazioni, ma più intricate e soddisfacenti. Ha implementato, in altre parole, più in profondità piuttosto che in vastità, dando inizio a una corrente che ha persistito, nell'interactive fiction, fino ai giorni nostri. Questo, combinato con quell'atmosfera riflessiva e tesa che sembra coinvolgere chiunque ci giochi e con il suo sovversivo fulcro tematico, fanno apparire Zork III come un passo avanti, non solo verso un approccio più soddisfacente alle avventure, ma anche verso quella cosa ineffabile chiamata Arte.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
Se anche voi apprezzerete questo interessantissimo blog, non mancate di visitare la pagina ufficiale (in lingua inglese) e di sostenerlo tramite Patreon.
Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Zork III, Parte 1
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Finalmente ci siamo, miei fedeli avventurieri, insieme abbiamo esplorato lugubri caverne ricolme di inquietanti creature e tesori luccicanti, sfidato il folle Mago di Frobozz e le sue stravaganti trappole, ma il nostro lunghissimo viaggio alla scoperta dei segreti del Regno Sotterraneo di Zork, è ormai quasi concluso. Non resta che l'ultimo capitolo della trilogia originale di Infocom, Zork III: The Dungeon Master. E se pensate che il terzo capitolo della saga, non possa eguagliare i primi due, come suggerirebbe l'esperienza in questi casi (qualcuno ha detto "Il Ritorno dello Jedi"?), ebbene, troverete nel prossimo articolo del The Digital Antiquarian parecchi validi argomenti per ricredervi.
Ma non perdete tempo a leggere le farneticazioni di un povero pazzo, asserragliato nella propria magione dalla notte dei tempi (circa un mese o due...), e fiondatevi subito nella lettura della prima parte dell'analisi di
Zork III, una tappa importante nella storia di Infocom e nell'evoluzione delle avventure.
 
 Non prima di aver sbirciato la succulenta lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura e... salutatemi il marinaio!
 
Festuceto
 
Nel Settembre del 1982, la Infocom pubblicò simultaneamente il suo quarto e il suo quinto gioco, rispettivamente il secondo e il terzo di quell’anno. Starcross di Dave Lebling era un’avventura ambientata nello spazio profondo sullo stile di Incontro con Rama di Arthur C. Clarke. Ci arriveremo a breve [mentre i lettori del The Digital Antiquarian in italiano dovranno aspettare un po’ di più, perché dovremo prima recuperare gli articoli saltati per chiudere il ciclo di Zork; ndAncient]. Ma oggi voglio parlarvi di Zork III: The Dungeon Master, il capitolo successivo della serie ammiraglia della Infocom.
 
Anche se il finale e un enigma particolarmente intricato, sono presi in prestito dalla versione per PDP-10 di Zork, il resto di Zork III è un’opera originale realizzata dall’infaticabile Marc Blank, che sto imparando sempre di più a riconoscere come la principale influenza dietro allo “Stile Infocom”. Dopotutto è comunque la stessa persona che ha contribuito all’originale Zork per PDP-10, che ha lavorato senza sosta per rendere il parser migliore, che ha ideato la Z-Machine, e che ha allargato la definizione stessa di gioco d’avventura tramite Deadline [di cui, a questo punto, The Digital Antiquarian aveva già scritto, mentre noi dovremo aspettare ancora un po' per leggerne la versione italiana; ndAncient]. Zork III non è apertamente rivoluzionario come Deadline, ma è comunque un’opera migliore e più matura: migliore di qualunque altra cosa si fosse vista prima, non solo da parte della Infocom, ma anche da parte di chiunque altro. Il che non significa che sia un gioco facile. Anzi, è maledettamente difficile. Ma almeno è difficile per i giusti motivi. Non ci troverete labirinti o inutili difficoltà geografiche, niente indovinelli, nessuna difficoltà particolare con il parser, nessun conto alla rovescia per il cibo o per la durata della fonte di luce, né limiti all’inventario (o, meglio, nessun limite significativo). Niente stronzate. Ci troverete solo una piccola raccolta di enigmi più intricati e stimolanti di qualunque altra cosa si fosse vista fino ad allora, il tutto immerso nella più evocativa delle atmosfere.
 
Come dicevo prima, Zork ha sempre avuto una personalità schizofrenica. La serie non ha mai saputo decidere se voleva essere un’eccentrica commedia leggermente satirica piena degli esuberanti eccessi della famiglia dei Testapiatta, oppure una desolata tragedia che si svolge nella sbiadita grandeur del Grande Impero Sotterraneo che fu. La versione per PDP-10 del gioco e quella per PC del primo capitolo vacillavano ampiamente fra i due estremi, mentre Zork II (in gran parte grazie al lavoro di Dave Lebling) ha giocato alla commedia leggera. A Zork III non manca certo qualche battuta ben assestata sui Testapiatta, ma la sua atmosfera è prevalentemente quella di un’ampollosa austerità, con delle distinte stilettate di tristezza per i gloriosi tempi che furono. Inizia così:
 
Come in un sogno, ti vedi capitombolare giù per una grande scalinata oscura. Tutto intorno a te ci sono immagini confuse di lotte contro avversari fieri e diaboliche trappole. Queste però cedono il passo a un’altra serie di immagini: imponenti figure di pietra, un fresco lago di acque cristalline, e ora un uomo vecchio eppur stranamente giovanile. Si volta lentamente verso di te, con i lunghi capelli d’argento che danzano intorno a lui nella fresca brezza.  “Amico mio, hai raggiunto l’ultima prova! Ti sei dimostrato arguto e potente, ma ancora non basta! Vieni a cercarmi quando ti sentirai degno!” Il sogno intorno a te si dissolve, mentre le sue ultime parole riecheggiano nel vuoto...
 
“La tua vecchia amica, la lanterna d’ottone, è qui ai tuoi piedi”, ci viene presto detto; una frase che pare trasudare tutta la nuova visione espressa da Zork III. E infatti siamo ormai molto lontani dalla celebre casa bianca. Se Zork I (con la sua impostazione “punti in cambio di tesori”) è un po’ il prototipo dei giochi d’avventura, Zork III (un po’ come i giochi di The Prisoner) è tutto incentrato sul sovvertire le nostre aspettative di ciò che è un gioco d’avventura. E il suo traguardo più significativo e peculiare è proprio quello di essere un gioco dannatamente buono all’interno dei confini di quel genere che vuole allegramente sovvertire.
 
Ma andiamo avanti. Questa è una mappa della sua geografia, qualora vi vada di seguirmi nell’esplorazione, o (meglio ancora) vi vada di giocare insieme a me. Farò del mio meglio per non spoilerarvi Zork III in dettaglio, come faccio di solito in queste mie analisi; vale sicuramente la pena  faticarci un po’ su in prima persona. Le mie dritte, unite alla mappa e alla lista di oggetti da scoprire in ogni stanza, dovrebbero smussare un po’ gli angoli delle difficoltà principali, lasciando però intatto il cuore dell’esperienza.
 
 
 
 
Dalla Scalinata Senza Fine dove iniziamo, ci spostiamo a sud verso l’Incrocio. Un’altra vecchia amica, la nostra spada, è qui incastrata nella pietra, ma non riusciamo a estrarla in nessun modo. Questo “enigma” in realtà non è affatto un enigma: la spada verrà a noi, spontaneamente, quando sarà il momento.
 
E così ci spostiamo a ovest. Scendiamo una scogliera per scoprire l’oggetto dei sogni di ogni avventuriero come noi: uno scrigno del tesoro (peccato sia chiuso a chiave). E, mentre ci armeggiamo:
 
Sull’orlo della scogliera, sopra di te, appare un uomo. Ti guarda dall’alto e parla. “Salve, tu costaggiù! Si direbbe che hai un problema. Forse posso aiutarti...” Ride sotto i baffi, in modo un po’ inquietante. “Forse, se leghi codesto scrigno all’estremità della fune, potrei issarlo per te. Poi sarò più che lieto di aiutarti a risalire!” Ride di nuovo.
 
Il nostro istinto ci dice di non fidarci di questo tizio. Zork I e Zork II ci hanno insegnato che praticamente tutti coloro che incontriamo nel Grande Impero Sotterraneo ci sono ostili. Di sicuro questo tipo vuole solo scappare col nostro tesoro. E qual è il succo di un gioco d’avventura se non quello di raccogliere tesori? E ovviamente, se ci proviamo e facciamo come ci chiede, scopriamo che tutti i nostri sospetti erano corretti!
 
L’uomo inizia a issare la corda e in pochi momenti raggiungi la cima della scogliera. L’uomo rimuove gli ultimi oggetti di valore dallo scrigno e si accinge ad andarsene. “Sei stata una persona cortese! Ecco, prendi questo, buon pro ti faccia! A me non dovrebbe servire!” Ti passa un bastone di legno liscio, prelavato dal fondo dello scrigno, e inizia a esaminare i suoi oggetti preziosi.
 
La verità (ed è qui che avviene il sovvertimento del genere) è che il tesoro non conta. Tutto quel che ci serve è il bastone.
 
A questo punto abbiamo certamente già notato qualcosa di molto strano di Zork III: il suo sistema di punti sembra fuori fase. Ci sono solo 7 punti da collezionare e non più le centinaia a cui eravamo abituati fin dai tempi delle prime avventure testuali. In più, questi punti vengono assegnati per azioni del tutto anonime, come essere entrati in una certa stanza completamente accessibile, mentre i principali passaggi del gioco passano del tutto inosservati. È possibile avere anche 6 o 7 punti ed essere ancora in alto mare, nemmeno lontanamente vicini alla conclusione del gioco. Ancora una volta ci sembra che Zork III stia giocando con delle regole nuove, che non comprendiamo fino in fondo.
 
Eppure Zork III è un’avventura ben ideata, e non solo un’avventura che sovverte un genere; la prima delle avventure della Infocom priva di scelte di design terribilmente pessime. Questo ci viene ampiamente dimostrato sull’Oceano dei Testapiatta. Se restiamo nei paraggi per un numero casuale di turni, appare un’imbarcazione. A quel punto abbiamo solo un turno per esclamare “Salve, marinaio”, per ricevere così una pozione di invisibilità. Quello di “Hello, sailor” è una battuta che ci ha accompagnati per tutti e due i primi Zork; per questo appare qui, dove finalmente serve a qualcosa. Per i veri veterani, qui c’è addirittura della meta-meta-ironia in gioco: alla fine dell’originale Zork per PDP-10 c’era un quiz su Zork stesso. Una delle possibili domande era: “In quale stanza è utile ‘Hello, sailor’?” In quel gioco la risposta giusta era: “In nessuna”.
 
Meta-ironia a parte, questa faccenda sull’Oceano dei Testapiatta è un enigma sconvolgentemente orrendo. Per prima cosa dobbiamo magicamente predire che ciò che dobbiamo fare è aspettare in una location che all’apparenza è del tutto priva di interesse (il che è vagamente reminiscente della forcina di Caterina la Grande in Time Zone) [un altro gioco di cui il The Digital Antiquarian a questo punto aveva già trattato e che noi abbiamo momentaneamente saltato per lasciare spazio a questo speciale su Zork; ndAncient]; e poi dobbiamo digitare esattamente quell’unica frase giusta! Nessuna di queste due cose avrebbe, ovviamente, fermato la On-line (e forse neppure le precedenti incarnazioni della Infocom) dal ficcarcelo comunque e tirare dritto. È, del resto, esattamente il tipo di enigma che i primissimi programmatori di avventure adoravano: facile da programmare e in grado di estendere tantissimo il tempo di gioco in virtù della sua assoluta ottusità. Quello che accade qui, però, è che tale enigma non è necessario. La pozione è utile solo come soluzione alternativa a un enigma nella parte finale del gioco. Così l’enigma diventa in realtà un Easter egg per i giocatori più hardcore, che adorano esplorare ogni anfratto di ogni segreto. Non riesco a immaginare nessun esempio migliore della sensibilità, in rapida evoluzione, dei game designer della Infocom, della decisione di non rendere necessaria, per finire il gioco, la risoluzione di questo pessimo enigma.
 
Ma ci sono anche altri esempi positivi, invece che negativi, di tale sensibilità. Ad ovest del lago troviamo quello che probabilmente è il mio enigma preferito del gioco; un enigma che è tutto quello che non è l’arbitrario enigma della spiaggia. Un portale magico può trasportarci momentaneamente non solo in un’altra stanza all’interno di questo gioco, ma anche in alcune location di Zork I e Zork II. Qui si tratta di pianificare la fase successiva delle nostre esplorazioni, utilizzando il portale per lasciare una fonte di luce in una location critica. Questo è iniquo, almeno secondo certi criteri, perché quello che dobbiamo fare qui lo possiamo apprendere solo morendo un po’ più avanti nel gioco. Ma, al tempo stesso, è anche un enigma complesso, che ha le sue radici proprio nel genere di storyworld, credibile e intricato, che all’epoca solo la Infocom sapeva creare. Enigmi come questo ci paiono incredibilmente moderni, tanto più se paragonati a quelli ideati dagli autori contemporanei della Infocom.
 
È interessante notare che questo portale ci può anche trasportare in un quarto gioco di Zork, un’anteprima/pubblicità per un’opera che evidentemente Blank stava già covando nella sua mente. Zork IV come sappiamo non è mai apparso (almeno non con quel titolo). Quindi per me è stata una sorpresa realizzare che Zork su PC non è mai stato concepito dalla Infocom come una trilogia, cosa che sembra un po’ in contrasto con l’aria di triste fatalità che si fa sempre più forte mano a mano che ci addentriamo in Zork III. Ma in questa fase la Infocom considerava ancora Zork, la propria serie ammiraglia nonché gallina dalle uova d’oro, una serie che avrebbe potuto andare avanti in modo indefinito. Di certo qualche giocatore si sarà chiesto in che direzione stava però evolvendo la serie, visto che la scena di Zork IV a cui assistiamo è una delle più violente e inquietanti di tutto il canone della Infocom.
 
Altare Sacrificale
Questo è l’interno di un gigantesco tempio di fattura primitiva. Alcune torce tremolanti illuminano in modo vacuo l’altare, ancora zuppo del sangue di sacrifici umani. Dietro l’altare c’è l’enorme statua di un demone che sembra allungarsi verso di te con zanne bavose e artigli affilati come rasoi. Un debole rumore si avverte dietro di te e ti volti, per scoprire centinaia di ricurve figure pelose. Dalle loro gole emerge un cantico gutturale. Il cantico cresce di intensità, mano a mano che una figura ammantata si avvicina all’altare. La grande sagoma ti vede e ti si avvicina minacciosa. Dal mantello estrae un grande coltello luminoso. Ti spinge sull’altare e, con un mormorio di approvazione da parte delle folla, ti squarta l’addome.
 
**** Sei morto ****
 
Questa scena finirà, inalterata nella violenza, nel successivo gioco di Blank, dove cozzerà con il resto del gioco in modo ancor più drammatico di quanto non facesse qui. Tuttavia quel gioco, che effettivamente era iniziato come Zork IV, sarebbe poi stato saggiamente intitolato Enchanter, un’entità autonoma nonché primo capitolo di una nuova trilogia fantasy.
 
Zork III non è nemmeno lontanamente dinamico come Deadline. Nel rispetto della tradizione di così tanti giochi d’avventura, anche moderni, il suo mondo è in gran parte vuoto e statico. C’è però un’eccezione: in un momento casuale, all’incirca fra i 100 e i 150 turni, un terremoto fa franare l’Alto Arco sopra l’Acquedotto. Menziono adesso questa cosa, perché la nostra possibilità di scappare dall’area a sud del lago dipende dal fatto che questo arco sia ancora intatto (oltre che dall’aver opportunamente collocato la fonte di luce di cui ho parlato prima). In ogni caso, per quanto sia relativamente statico, Zork III richiede non meno programmazione e non meno tentativi falliti di Deadline. Ma, prima di venir accusato di un eccesso di lodi, lasciatemi segnalare che la zona dell’acquedotto contiene uno dei pochi inciampi di questo gioco altrimenti scritto tanto elegantemente, quando Blank ci dice come dobbiamo sentirci invece che lasciare che sia lo scenario a parlare per sé: “Avverti un senso di perdita e di tristezza mentre rifletti su questa struttura un tempo fiera, e sul fallimento dell’Impero che creo questa e altre meraviglie architettoniche.”
 
A questo punto non ci resta da esplorare che un’ultima area a ovest dell’Incrocio: la Terra dell’Ombra. Proprio come il marinaio dell’Oceano dei Testapiatta ha tutta l’aria di un enigma su cui Blank ha cambiato idea (per trasformarlo in una sorta di Easter egg e in una soluzione alternativa a un altro enigma), la Terra dell’Ombra nasce probabilmente come labirinto. Al suo interno troviamo una strana figura, apparentemente ostile. La spada, che avevamo visto conficcata nella pietra, di colpo ci appare in mano e, per l’ultima volta nel canone della Infocom, dobbiamo affrontare il combattimento casuale che Dave Lebling aveva sviluppato all’epoca per la versione PDP-10 di Zork. Tuttavia la parola d’ordine resta quella di sovvertire il genere e quindi in realtà non è possibile morire per davvero. Né noi vogliamo davvero uccidere. Giocare la situazione nel modo giusto produce una scena snervante, che ci ricorda (fra le varie cose) il momento climatico della serie TV de Il Prigioniero.
 
>prendi cappuccio
Lentamente rimuovi il cappuccio dal volto del tuo avversario gravemente ferito e ti ritrai con orrore alla vista della tua stessa faccia, stanca e ferita. Un debole sorriso appare sulle sue labbra e poi il volto inizia a cambiare, molto lentamente, in quello di un vecchio uomo rugoso. L’immagine svanisce e con essa il corpo del tuo avversario incappucciato. Per terra rimane il suo mantello.
 
Quel che sta succedendo qui sarà più chiaro (almeno in parte) in seguito. Ma per oggi ci fermiamo su questa nota nefasta. La prossima volta affronteremo l’area a est dell’Incrocio e la parte finale del gioco.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Esplorando Zork, Parte 2
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)



Bentrovati prodi avventurieri! Lo so, siete già tutti in trincea pronti per il tragico cenone della Vigilia, ma non è il momento di gozzovigliare... scintillanti tesori vi attendono nei perigliosi labirinti del magico Regno Sotterraneo di Zork. E a guidarci sarà, come sempre, il sapiente Antiquario Digitale. 
Armatevi di coraggio compagni, entriamo finalmente nel vivo dell'esplorazione di Zork!
 
Ma prima la lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
Esplorando Zork, Parte 2
– Esplorando Zork, Parte 3
– Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Posate la forchetta e afferrate la lanterna... inizia la discesa!
 
Festuceto
Oggi andremo al sodo del Grande Impero Sotterraneo di Zork, mostrato nella mappa qui sotto.
 
 
Esplorare a sud della cantina, dove eravamo rimasti, ci permette di trovare il secondo tesoro e la prima uscita dal sottosuolo; attraverso il camino del soggiorno della casa bianca possiamo trasportare esattamente due oggetti (ma non possiamo usarlo per tornare indietro: "SOLO BABBO NATALE SCENDE DAI CAMINI", ci dice il gioco, nella tipica logica dei giochi d’avventura). Nelle nostre esplorazioni troveremo altre vie d’uscita e d’ingresso, sempre più comode. E alla fine perfino l’ignoto antipatico, che continua a chiuderci la botola alle spalle, la smetterà.
 
A sud della cantina troviamo anche una seconda nota (o, meglio, un MANUALE DELL’UTENTE), che ci informa delle meraviglie di questo piccolo mondo costruito dalla Infocom.
 
>EXAMINE PAPER
 
CONGRATULATIONS!
YOU ARE THE PRIVILEGED OWNER OF A
GENUINE ZORK GREAT UNDERGROUND EMPIRE
(PART I), A SELF CONTAINED AND SELF
MAINTAINING UNIVERSE. IF USED AND
MAINTAINED IN ACCORDANCE WITH NORMAL
OPERATING PRACTICES FOR SMALL UNIVERSES,
ZORK WILL PROVIDE MANY MONTHS OF
TROUBLE-FREE OPERATION. PLEASE CHECK
WITH YOUR DEALER FOR PART II AND OTHER
ALTERNATE UNIVERSES.
 
Come la schermata del titolo che vi ho mostrato nel mio post precedente, anche questa nota ci dimostra che la Infocom a questo punto stava già progettando quantomeno uno Zork 2, anche se probabilmente doveva ancora perfezionarne il titolo. Ma, cosa ancora più interessante, ci dimostra che avevano già in mente di mettere a frutto lo ZIL e la Z-Machine su tutta una nuova linea di giochi originali. Inserendo una pubblicità di altri giochi all’interno di Zork, la Infocom ha seguito l’esempio di Scott Adams, che trovava sempre lo spazio (perfino nelle sue minuscole creazioni da 16 K) per infilare uno o due riferimenti ai suoi giochi attuali o in uscita.
 
Procedendo a nord della cantina, ci imbattiamo in una specie di tempesta perfetta.
 
>N
THE TROLL ROOM
THIS IS A SMALL ROOM WITH PASSAGES TO
THE EAST AND SOUTH AND A FORBIDDING HOLE
LEADING WEST. BLOODSTAINS AND DEEP
SCRATCHES (PERHAPS MADE BY AN AXE) MAR
THE WALLS.
A NASTY-LOOKING TROLL, BRANDISHING A
BLOODY AXE, BLOCKS ALL PASSAGES OUT OF
THE ROOM.
A SEEDY-LOOKING INDIVIDUAL WITH A LARGE
BAG JUST WANDERED THROUGH THE ROOM. ON
THE WAY THROUGH, HE QUIETLY ABSTRACTED
ALL VALUABLES FROM THE ROOM AND FROM
YOUR POSSESSION, MUMBLING SOMETHING
ABOUT "DOING UNTO OTHERS BEFORE.."
THE TROLL'S MIGHTY BLOW DROPS YOU TO
YOUR KNEES.
THE THIEF SLOWLY APPROACHES, STRIKES
LIKE A SNAKE, AND LEAVES YOU WOUNDED.
>KILL TROLL WITH SWORD
I CAN'T SEE ANY SWORD HERE.
>KILL TROLL WITH KNIFE
A GOOD STROKE, BUT IT'S TOO SLOW, THE
TROLL DODGES.
THE TROLL'S AXE REMOVES YOUR HEAD.
IT APPEARS THAT THAT LAST BLOW WAS TOO
MUCH FOR YOU. I'M AFRAID YOU ARE DEAD.
 
**** YOU HAVE DIED ****
 
Qui è accaduto che abbiamo incontrato contemporaneamente due degli abitanti del sottosuolo: il troll e il ladro. Il primo staziona sempre in questa stanza, mentre il secondo è la risposta di Zork al pirata e ai nani di Adventure; è insomma un "mostro errante" in pieno stile Dungeons and Dragons. Vaga per il sottosuolo e non solo a volte ci punzecchia con il suo stiletto, ma (peggio) si impossessa di oggetti che potremmo aver lasciato in giro pensando di metterli al sicuro, per poi disseminarli a caso. Peggio ancora, si prende i tesori per sé, nascondendoli (ma su questo ritornerà più avanti). E, peggio di ogni altra cosa, è anche ben lieto di rubarvi le cose che state trasportando. Sciagura per quell’avventuriero che egli lascerà al buio senza la sua fedele lampada! Nel caso qui sopra, il ladro ci ha rubato la nostra spada proprio quando ci serviva per combattere contro di lui e contro il troll, lasciandoci con il ben meno efficace coltello. Potete immaginare come sia finita.
 
Il merito (o il demerito) per il sistema di combattimento va a Lebling:
 
Dave, giocatore di Dungeons and Dragons di lunga data, non apprezzava il modo completamente prevedibile con cui si uccidevano le creature. Nel gioco originale, per esempio, si poteva uccidere il troll semplicemente lanciandogli il coltello: lui lo raccoglieva e lo mangiava di gusto (come qualunque altra cosa che gli viene tirata), ma in conseguenza di ciò moriva di emorragia. In sostanza, Dave aggiunse tutta la complessità di un combattimento in stile D&D, con efficacie diverse per le armi, con le ferite, con gli stati di incoscienza e la morte. Ogni creatura ha i suoi messaggi e quindi un combattimento con il ladro (che usa uno stiletto) risulta molto diverso da un combattimento contro il troll e la sua ascia.
 
Il pericolo di tutto questo dinamismo e di questi comportamenti emergenti, è che possono condurre a situazioni simili a quella che ci è accaduta qui, dove il giocatore viene ucciso in modo capriccioso, senza aver mai avuto una vera possibilità di farcela. I giocatori di Eamon non sembrano aver mai avuto problemi con questa impostazione, ma è una cosa che poco si addice alla Infocom. E infatti nei giochi successivi si terranno ben alla larga dal combattimento casuale, una tendenza che sarà poi presa a cuore anche dalla moderna community dell’interactive fiction. Il simbolo principale di questa strada, poi abbandonata dal canone della Infocom, è il verbo "DIAGNOSE", introdotto in Zork per dare al giocatore un veloce resoconto delle sue attuali ferite e che è rimasto anche nei giochi successivi come una stranezza inutile, che solitamente restituiva risposte generiche. Vale la pena aggiungere infatti che "DIAGNOSE" è anche l’unico verbo standard del sistema della Infocom che non è stato adottato nei moderni linguaggi di interactive fiction, come Inform e TADS.
 
In ogni caso, ricarichiamo un paio di volte, facciamo girare la fortuna con i nostri tiri di dado, uccidiamo il troll, ed evitiamo il ladro, e ci spostiamo nell’area del bacino idrico e, da lì, alla Flood Control Dam #3, uno dei luoghi storici più memorabili di Zork. Le descrizioni piuttosto sobrie del maestoso edificio abbandonato sono in netto contrasto con la stupidità del manuale di istruzioni che troviamo all’interno.
 
>EXAMINE GUIDEBOOK
"FLOOD CONTROL DAM #3
FCD#3 WAS CONSTRUCTED IN YEAR 783 OF
THE GREAT UNDERGROUND EMPIRE TO HARNESS
THE MIGHTY FRIGID RIVER. THIS WORK WAS
SUPPORTED BY A GRANT OF 37 MILLION
ZORKMIDS FROM YOUR OMNIPOTENT LOCAL
TYRANT LORD DIMWIT FLATHEAD THE
EXCESSIVE. THIS IMPRESSIVE STRUCTURE IS
COMPOSED OF 370,000 CUBIC FEET OF
CONCRETE, IS 256 FEET TALL AT THE
CENTER, AND 193 FEET WIDE AT THE TOP.
THE LAKE CREATED BEHIND THE DAM HAS A
VOLUME OF 1.7 BILLION CUBIC FEET, AN
AREA OF 12 MILLION SQUARE FEET, AND A
SHORE LINE OF 36 THOUSAND FEET.
WE WILL NOW POINT OUT SOME OF THE MORE
INTERESTING FEATURES OF FCD#3 AS WE
CONDUCT YOU ON A GUIDED TOUR OF THE
FACILITIES:
1) YOU START YOUR TOUR HERE IN
THE DAM LOBBY. YOU WILL NOTICE ON
YOUR RIGHT THAT .........
 
Gran parte del valore letterario di Zork, che emerge piuttosto distintamente nonostante il numero relativamente limitato di parole (quelle che ho citato qui sono in sostanza le descrizioni più lunghe del gioco), deriva proprio dalla contrapposizione fra una melanconica gloria sbiadita e una certa impudente stupidità. Lascio a voi stabilire se si tratta di una precisa scelta estetica o del risultato accidentale dell’avere troppi cuochi (scrittori) in cucina. In ogni caso, troviamo un altro esempio lampante di questa stupidità già nella stanza di manutenzione della diga.
 
>N
MAINTENANCE ROOM
THIS IS WHAT APPEARS TO HAVE BEEN THE
MAINTENANCE ROOM FOR FLOOD CONTROL DAM
#3. APPARENTLY, THIS ROOM HAS BEEN
RANSACKED RECENTLY, FOR MOST OF THE
VALUABLE EQUIPMENT IS GONE. ON THE WALL
IN FRONT OF YOU IS A GROUP OF BUTTONS,
WHICH ARE LABELLED IN EBCDIC. HOWEVER,
THEY ARE OF DIFFERENT COLORS: BLUE,
YELLOW, BROWN, AND RED. THE DOORS TO
THIS ROOM ARE IN THE WEST AND SOUTH
ENDS.
THERE IS A GROUP OF TOOL CHESTS HERE.
THERE IS A WRENCH HERE.
THERE IS AN OBJECT WHICH LOOKS LIKE A
TUBE OF TOOTHPASTE HERE.
THERE IS A SCREWDRIVER HERE.
 
Il riferimento "all'EBCDIC" è umorismo da hacker che, a seconda del vostro background, potrebbe richiedere una spiegazione. All’inizio degli anni ‘60 la maggior parte dei costruttori di computer trovò un accordo su una cosa chiamata ASCII ("American Standard Code for Information Interchange"), da utilizzare come sistema per codificare i caratteri testuali su computer. Poiché, stringi stringi, i computer comprendono solo numeri, l’ASCII è essenzialmente una tabella che il computer usa per sapere che, quando incontra ad esempio il numero 65 in un file testuale, al suo posto, deve visualizzare il carattere "A". Uno standard era necessario per far sì che i computer di marche e modelli diversi potessero scambiarsi fra di loro con facilità delle informazioni testuali. Proprio quando tutti si erano accordati sull’ASCII, risolvendo così una questione piuttosto annosa, la IBM decise di colpo di abbandonare tale standard sui propri mainframe in favore di una cosa chiamata EBCDIC ("Extended Binary-Coded Decimal Interchange Code"). La ragione per cui lo fecero (almeno secondo gli hacker della DEC), fu un tentativo deliberato di rendere le proprie macchine incapaci di scambiare dati con le macchine di altri produttori, credendo così di inchiodare i consumatori ai prodotti IBM per qualunque loro necessità. A peggiorare ancora le cose c’era il fatto che l’EBCDIC era semplicemente peggiore dell’ASCII. In ASCII la "A" precede numericamente la "B", la quale precede la "C", e così via; nell’EBCDIC ad ogni lettera è assegnato un numero a casaccio, senza nessuna apparente ragione logica. Questo fa sì che fare un looping dell’alfabeto (uno scenario che capita abbastanza spesso in programmazione) sia molto più difficile di quanto non dovrebbe. E poi c’era l’abitudine della IBM di ritoccare costantemente l’EBCDIC, rendendolo perfino incompatibile con sé stesso nelle varie versioni. Nonostante questo, sopravvive ancora oggi sui grandi mainframe. Fra gli hacker, l’EBCDIC è diventato il simbolo di un linguaggio incomprensibile o privo di senso, l’equivalente per gli hacker di dire (con le mie scuse per chi parla cinese): "Per me è cinese!". Quindi, per far breve una spiegazione già abbastanza lunga, è questa la ragione per cui i bottoni della diga sono in EBCDIC.
 
Alla diga risolviamo un enigma piuttosto arguto per regolare il livello dell’acqua sui due lati, aprendo così all’esplorazione il fiume e la parte settentrionale del sottosuolo. Prima di farlo, però, daremo un’occhiata al tempio a sudest. Rinveniamo una torcia d’avorio che, oltre ad essere uno dei tesori, funge anche da fonte di luce inesauribile. Questo gesto di clemenza è persino più apprezzato delle batterie extra che troviamo in Adventure, tanto più che usarla non ci costa dei punti. Dobbiamo solo assicurarci di conservare la lanterna quanto basta per attraversare la miniera di carbone, di cui parlerò meglio tra poco.  
 
Lo scettro, un tesoro che troviamo sotto il tempio, nella "STANZA EGIZIANA", è il cuore del primo enigma davvero cattivo del gioco. Il gioco si aspetta che lo portiamo all’arcobaleno all’esterno e lo agitiamo per rivelare il classico calderone d’oro.
 
>WAVE SCEPTRE
SUDDENLY, THE RAINBOW APPEARS TO BECOME
SOLID AND, I VENTURE, WALKABLE (I THINK
THE GIVEAWAY WAS THE STAIRS AND
BANNISTER).
>E
ON THE RAINBOW
YOU ARE ON TOP OF A RAINBOW (I BET YOU
NEVER THOUGHT YOU WOULD WALK ON A
RAINBOW), WITH A MAGNIFICENT VIEW OF THE
FALLS. THE RAINBOW TRAVELS EAST-WEST
HERE.
 
Se avete giocato qualche avventura testuale, già vi aspettavate di poter camminare su quell’arcobaleno. La vera domanda è come avreste potuto fare a intuire che il modo giusto per farlo era proprio quello. L’unico vero indizio è esterno al gioco: in Adventure c’era una verga che si poteva agitare per attraversare un simile precipizio (seppur senza arcobaleno). Ecco che abbiamo un altro punto in cui Zork sembra semplicemente presupporre una precedente conoscenza di Adventure, per quanto (pur avendo una tale conoscenza) risolvere questo enigma richiedeva comunque una bella intuizione.  
 
Dopo aver esplorato la zona al di là dell’arcobaleno, torniamo sottoterra e dopo un po’ ci ritroviamo… nell’Ade.
 
>D
ENTRANCE TO HADES
YOU ARE OUTSIDE A LARGE GATEWAY, ON
WHICH IS INSCRIBED
"ABANDON EVERY HOPE, ALL YE WHO
ENTER HERE."
THE GATE IS OPEN; THROUGH IT YOU CAN SEE
A DESOLATION, WITH A PILE OF MANGLED
BODIES IN ONE CORNER. THOUSANDS OF
VOICES, LAMENTING SOME HIDEOUS FATE, CAN
BE HEARD.
THE WAY THROUGH THE GATE IS BARRED BY
EVIL SPIRITS, WHO JEER AT YOUR ATTEMPTS
TO PASS.
 
Quella sensazione "di tutto un po'" che caratterizzava l’originale Zork per PDP-10 appare anche qui. Accanto alla mitologia originale che ritroviamo in Lord Dimwit Flathead, negli zorkmid, e nella Flood Control Dam #3, abbiamo l’Ade della Mitologia Greca, con tanto di parafrasi dantesca (ma a dire il vero nel complesso sembra più l’inferno cristiano che l’Ade della mitologia; e il suo tono cupo è l’ennesimo contrasto con altre sezioni più scherzose). Presto incontreremo anche una miniera di carbone americana del diciannovesimo secolo e dei ciclopi terrorizzati da Ulisse. E abbiamo già visitato (e saccheggiato) la tomba di Ramses II! Ovviamente nell’Ade c’è anche un enigma da risolvere, ma quello lo lascio a voi. Dopodiché torneremo nei pressi della diga, per un’escursione lungo il fiume.
 
Tutta la sezione del Fiume Frigido è opera di  Marc Blank, che l’aggiunse all’inizio dello sviluppo di Zork. Al centro di questa sezione del gioco c’è l’imbarcazione gonfiabile che usiamo per navigarlo. Questa implementazione di un veicolo è indiscutibilmente il primo punto dove i creatori di Zork hanno davvero mostrato la volontà di andare oltre l’ispirazione di Adventure, creando uno "storyworld" molto più complesso e credibile. Ed è stata anche l’occasione per apprendere alcune dure lezioni di game designing. Tim Anderson:
 
Nel gioco originale c’erano delle stanze, degli oggetti, e un giocatore; il giocatore esisteva sempre all’interno di una stanza. I veicoli erano degli oggetti che, a tutti gli effetti, erano delle stanze mobili. Questo richiese dei cambiamenti nelle interazioni (sempre delicatissime) fra i verbi, gli oggetti, e le stanze (dovevamo infatti trovare un modo per far fare a "cammina" qualcosa di accettabile mentre il giocatore era nella barca). In più, gli intraprendenti giocatori di Zork provarono a usare la barca in tutti i posti dove credevano di poterlo fare. Il codice della barca non era però pensato per funzionare al di fuori della sezione del fiume, ma non c’era niente che impediva al giocatore di trasportare l’imbarcazione gonfiabile fino alla riserva idrica per tentare di attraversarla. Alla fine si consentì di usare la barca nella riserva idrica, ma restava il problema generale: tutto quel che cambia il mondo che si sta modellando, in pratica, cambia anche tutto ciò che si trova all’interno del mondo che si sta modellando.
 
Anche se Zork allora aveva solo un mese di vita, riusciva già a sorprendere i suoi autori. L’imbarcazione, per come era stata implementata, si trasformò in una sorta di "borsa conservante": in pratica i giocatori potevano metterci dentro di tutto e portarselo in giro, anche se il peso degli oggetti ivi contenuti eccedeva di molto la capacità del giocatore di trasportarli. La barca era due oggetti distinti: l’oggetto "barca gonfia" conteneva gli oggetti, ma il giocatore trasportava con sé l’oggetto “barca sgonfia”. Noi eravamo all’oscuro di questo aspetto, finché qualcuno alla fine non lo segnalò come bug. Per quanto ne so, il bug c’è ancora.
 
Personalmente non sono riuscito a riprodurre questo bug nella prima implementazione per Apple II.  Ma quello che mi dispiace ancora di più è che una borsa conservante mi sarebbe stata davvero utile in questo gioco.
(Aggiornamento: Sembrerebbe che il bug ci sia ancora. Sono io a non essere stato abbastanza scaltro da saperlo sfruttare. Leggete il commento di Nathan per i dettagli.)
 
[riportiamo di seguito la traduzione del commento dell'utente Nathan sul bug della barca; ndFestuceto]
 
Sono riuscito a riprodurre senza problemi il bug della "borsa conservante" nella release 15. Si deve raggruppare una serie di cose tutte insieme in un unico posto, più di quelle che si possono trasportare contemporaneamente. Poi se ne mette un po’ nella zattera, si sgonfia, quindi si raccoglie l’ammasso di plastica e il resto della propria roba. Ricordatevi però di non mettere per sbaglio la pompa nella zattera; a me è successo la prima volta! Se ricordo bene, si deve anche evitare di metterci dentro qualcosa che possa forare la zattera, come la spada o la torcia.
 
Dopo il Fiume Frigido, che scopriamo essere connesso con le location antistanti le Cascate Aragain, esploriamo la zona a nord della riserva. La miniera di carbone nasce come conseguenza della richiesta degli altri membri del team di Zork che avevano chiesto a Bruce Daniels una "sezione particolarmente cattiva”. La sua risposta inizialmente prevedeva un gigantesco labirinto simile all’altro gigantesco labirinto di Zork (di cui vi parlerò nel prossimo post). Il team però decise che, quando è troppo è troppo, e lo ridusse al numero ben più gestibile di sole quattro stanze. Nonostante questo, Tim Anderson lo citerà in seguito ugualmente come un "esempio di come si possono rendere le cose difficili, rendendole noiose". Nonostante questo, la miniera di carbone nella sua conformazione definitiva non è poi così "cattiva". Ha degli enigmi un po’ subdoli ma risolvibili, purché non si sia così stupidi da portare al suo interno una fiamma viva (es. la torcia). Una delle cose che si ottengono alla fine è un diamante (in un’altra delle interviste selezionate per Get LampDavid Welbourn osserva che in tutte le miniere di carbone dei giochi d’avventura sembra esserci un diamante. Se solo fosse così anche nella vita reale...)
 
Se escludiamo l’area del labirinto a ovest, adesso abbiamo esplorato tutta la zona sotterranea e ne abbiamo risolto tutti gli enigmi, escluso uno. Dobbiamo ancora occuparci della "LOUD ROOM".
 
>D
LOUD ROOM
THIS IS A LARGE ROOM WITH A CEILING
WHICH CANNOT BE DETECTED FROM THE
GROUND. THERE IS A NARROW PASSAGE FROM
EAST TO WEST AND A STONE STAIRWAY
LEADING UPWARD. THE ROOM IS DEAFENINGLY
LOUD WITH AN UNDETERMINED RUSHING SOUND.
THE SOUND SEEMS TO REVERBERATE FROM ALL
OF THE WALLS, MAKING IT DIFFICULT EVEN
TO THINK.
ON THE GROUND IS A LARGE PLATINUM BAR.
>GET BAR
BAR BAR ...
>BAR BAR
BAR BAR ...
>GET BAR BAR
BAR BAR ...
>L
L L ...
>LOOK
LOOK LOOK ...
 
Questa stanza sembra una sorta di ritorno al passato, a giochi più primitivi che erano costretti, dai parser a due parole e dai modelli limitati di mondo, a rimpiazzare degli enigmi ambientali relativamente sofisticati con un gameplay basato sull’indovinare la parola giusta. Il team di Zork invece voleva esplicitamente fin dall’inizio evitare le trappole dei primi parser, con la loro frustrante non specificità. Blank, parlando di Adventure: "Ci infastidiva davvero che se dicevi ‘prendi uccello’, il gioco metteva l’uccello nella gabbia al posto tuo; era un po’ come se facesse le cose alle nostre spalle." È per questa ragione che questo enigma e la sua soluzione ("ECO") appare un po’ come il tradimento di una specie di ideale.  
 
Ma le frustrazioni generate da questo enigma sono niente rispetto a quelle del labirinto, uno dei più vasti e difficili del suo genere nella storia delle avventure testuali. Nel prossimo post affronteremo questo mostro e andremo a finire il gioco.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
Se anche voi apprezzerete questo interessantissimo blog, non mancate di visitare la pagina ufficiale (in lingua inglese) e di sostenerlo tramite Patreon.

Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


Consulta l'indice per leggere gli articoli precedenti

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Discutiamone insieme sul forum di OldGamesItalia!

 

Come Vendettero Zork
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)



Rieccoci fedeli lettori al nostro appuntamento settimanale con l'Avventura (con la "A" maiuscola). E dopo aver esplorato gli aspetti tecnici dello sviluppo di Zork e della sua incredibile conversione per le umili piattaforme casalinghe dell'epoca, il sapiente Antiquario ci racconterà di quando la neonata Infocom impegnò tutte le risorse di cui disponeva per presentare la propria creatura al grande pubblico.
Nel 1980 il mercato videoludico era praticamente agli albori
 e le avventure testuali in circolazione erano, più o meno, quelle di Scott Adams pubblicate dalla Adventure International e poco altro...niente a che vedere con Zork!
 
Ma prima, l'imperdibile lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
– Come Vendettero Zork
– Giochi col Parser
– Esplorando Zork, Parte 1
– Esplorando Zork, Parte 2
– Esplorando Zork, Parte 3
– Infocom: Come Cavarsela da Soli
– Zork II, Parte 1
– Zork II, Parte 2
– Lo Zork User Group
– Zork III, Parte 1
– Zork III, Parte 2
 
Buona lettura avventurieri... e raccogliete tanti zorkmid!
 
Festuceto
 
Quando ci siamo lasciati, era la fine dell'estate del 1979 e sette dei nove soci della Infocom vivevano a Boston, ognuno col proprio lavoro a tempo pieno, discutendo -quando il tempo lo permetteva- di quello che avrebbe dovuto fare la loro società nuova di zecca. Nel frattempo gli altri due soci, Marc Blank e Joel Berez vivevano a Pittsburgh e stavano affrontando il problema in modo più pratico, progettando (per ora interamente su carta) un sistema che permettesse di convertire Zork (o almeno una buona metà di Zork) dal PDP-10 ai microcomputer. Mentre Blank e Berez continuavano il proprio lavoro in quell'autunno, si convincevano sempre di più che, sì, la loro idea avrebbe potuto funzionare e così iniziarono a fare pressioni sugli altri di Boston per fare in modo che Zork diventasse il primo progetto della Infocom. Il loro piano era così allettante che alla fine persino il riluttante Al Vezza accettò.
 
In quel periodo Berez era stato ammesso a un programma di economia post-laurea alla Sloan School of Management del MIT; così quel Novembre rientrò a Boston per frequentare – e per assumere la carica di Presidente di una Infocom ancora esistente principalmente sulla carta. Dinanzi alla prospettiva di restare intrappolato da solo a Pittsburgh mentre i suoi amici implementavano il suo progetto, Blank prese la decisione -importantissima sul piano personale- di lasciare l’internato medico e trasferirsi a Boston. Così, all’alba dell’anno 1980, la proverbiale banda era di nuovo riunita e i lavori sul nuovo Zork procedevano di buona lena.
 
Con i loro rapporti al MIT e alla DEC, del tempo su un PDP-10 non era poi difficile da recuperare, anche se tutti quelli della Infocom avevano ormai ufficialmente lasciato il MIT. Nonostante il loro scopo finale fosse quello di vendere Zork sui microcomputer, in questa fase la Infocom continuava a lavorare interamente sul PDP-10; probabilmente il vecchio motto “Noi odiamo i micro!” non era ancora  completamente passato di moda. Blank e Lebling scrissero sul PDP-10 l’intero sistema di sviluppo ZIL, incluso il compilatore, nonché (per poter fare delle prove) la prima versione funzionante della macchina virtuale Z-Machine. Sorprendentemente, il progetto astratto che Blank e Berez avevano ideato su dei tovagliolini e su dei pezzi di carta usata, si rivelò perfettamente funzionante nella realtà. Come dicevo nel mio ultimo post, implementare di nuovo il gioco in ZIL diede loro l’opportunità di migliorare ancora da diversi punti di vista l’originale Zork.
 
Perfino quando arrivò il momento di abbandonare il PDP-10, le preferenze della Infocom restarono evidenti: la seconda implementazione della Z-Machine non era né per la macchina della Radio Shack, né per quella della Apple, bensì per un DEC PDP-11. Se il PDP-10 era l’ammiraglia della DEC (tanto grande e potente che forse si meriterebbe di essere etichettato come mainframe piuttosto che come minicomputer), il PDP-11 era un modello più piccolo, più economico, pensato per “portare il pane a casa”. Si stima che la DEC ne avesse venduti più di 170.000 nei soli anni ‘70. Relativamente trasportabile (se la possibilità di trasportare un computer con un singolo camioncino lo rende “trasportabile”) e senza che necessiti di un pavimento sopraelevato o di altre macchinazioni da "data-center", i PDP-11 erano ovunque: nelle fabbriche, nei laboratori, nei centri di controllo del traffico aereo, e… nella camera da letto di Joel Berez (!!!). In un certo senso il PDP-11 aveva già il suo Zork, essendo stata la prima piattaforma su cui fu creato il porting in FORTRAN di Dungeon, ma ciò non fermò la Infocom dal rendere lo Zork per PDP-11 il suo primo prodotto commerciale. Nonostante la diffusione del PDP-11, il suo mercato non era esattamente una roccaforte del gaming: è riportato che Zork su quella piattaforma vendette meno di 100 copie (una delle quali di recente è apparsa su eBay: sul sito di "Get Lamp" di Jason Scott trovate una scansione del suo manuale, sorprendentemente completa, seppur battuta a macchina e ciclostilata [Il link originale è stato rimosso, ma potete trovare una copia del manuale qui, ndFestuceto]). Era del tutto evidente che la Infocom doveva convertire Zork per i microcomputer.
 
In questo spirito, la Infocom comprò un sistema TRS-80 e Scott Cutler (uno dei pochi soci che avesse avuto una qualche esperienza con i microcomputer) si mise al lavoro, con l’aiuto di Blank, per  costruire un’ apposita Z-Machine. Il momento della verità era arrivato:
 
Scott e Marc dimostrarono che Zork I poteva vivere al suo interno, avviando il gioco e riuscendo a fare dei punti con l’incantamento “N.E.OPEN.IN.” (che di certo non sono meno memorabili del “Come here, Mr. Watson; I want you!” di Alexander Graham Bell). 
 
È sempre un momento teso quando un progetto finalmente prende vita e mostra qualcosa di concreto. Ricordo ancora quanto fossi eccitato quando il mio personalissimo interprete di Z-Machine, Filfre, visualizzò il testo d’apertura del primo gioco con cui avevo deciso di provarlo, Infidel. Posso solo immaginare l’eccitazione di Blank e Cutler, quando tutto questo era così nuovo e la posta in gioco era così tanto più alta. Quel che conta però è che l’idea della Z-Machine funzionò. Quando il giocò fu completamente giocabile, la Infocom (erede di una lunga tradizione di informatica istituzionale che faceva le cose come dovevano essere fatte) fece qualcosa di virtualmente senza precedenti per un gioco per microcomputer: sottopose il proprio gioco a una fase di betatesting rigorosa e ripetuta. Il suo tester principale fu uno studente del MIT chiamato Mike Dornbrook, che si era innamorato del gioco al punto di diventarne oltremodo ossessionato, tracciando delle bellissime mappe dettagliate della sua geografia e lavorando sodo per affinare non solo i problemi tecnici ma anche gli enigmi peggiori e le difficoltà del parser (se solo in quei primi tempi la On-Line Systems, Scott Adams, e gli altri sviluppatori avessero avuto una pazienza simile e altrettanta dedizione alla qualità...)
 
Se si esclude il betatest che era ancora in corso, la Infocom a quel punto aveva un vero prodotto da commercializzare. Ora dovevano solo decidere come lo avrebbero venduto. Un’opzione era quella di fare ciò che Ken Williams stava decidendo di fare più o meno proprio in quel periodo: provarci da soli. Tuttavia, data la poca esperienza e la scarsa conoscenza della giovane industria dei microcomputer, ciò sembrò rischioso e nessuno dei soci era poi così eccitato all’idea di inventarsi un packaging e di duplicare migliaia (questa, almeno, era la speranza) di dischi. Iniziarono quindi a proporre Zork a vari publisher. Un tentativo con Microsoft fu respinto dal dipartimento di marketing: avevano già la loro avventura testuale (niente di meno che Adventure in persona) e evidentemente credevano che una fosse più che sufficiente per un singolo publisher. In seguito Bill Gates (che era stato un fan di Zork sul PDP-10) seppe dell’offerta e provò a riaprire la trattativa, ma a quel punto la Infocom stava già trattando con Dan Fylstra della Personal Software, facendo dello Zork della Microsoft un qualcosa di affascinante che sarebbe potuto essere ma non è mai stato.
 
Personal Software oggi è stata quasi completamente dimenticata, ma all’epoca era la stella più luminosa della giovane industria, in grado di eclissare facilmente anche la Microsoft. Fondata da  Peter R. Jennings e Dan Fylstra, fondatori della seminale rivista Byte, la Personal Software trovò la sua miniera d’oro nel 1979, quando raggiunse un accordo con Dan Bricklin e Bob Frankston per la pubblicazione del loro VisiCalc per l’Apple II. Col supporto di un’intelligente campagna promozionale da parte della Personal Software (che enfatizzava opportunamente la natura rivoluzionaria di questo prodotto autenticamente rivoluzionario), al tempo in cui la Infocom si presentò a bussare alla porta del publisher, VisiCalc era sulla bocca di tutto il mondo degli affari, diventando la hit della giovane industria dei microcomputer e arrivando così a vendere centinaia di migliaia di copie. VisiCalc non solo fece della Personal Software il più grande publisher del pianeta, nonché l’oggetto di articoli su riviste come il Time, ma gli conferì anche un enorme potere all’interno del settore. Questo potere si estendeva perfino sulla Apple stessa: un numero infinito di clienti metteva il carro davanti ai buoi, e comprava gli Apple II solo per avere un computer su cui far girare la loro nuova copia di VisiCalc. Fu, insomma, la prima “killer application” dell’era dei PC, e come tale vendette tutti gli Apple II che ciò comportava. Con così tanti soldi e con un tale potere, la Personal Software non sembrò alla Infocom una brutta strada per far uscire il loro nuovo gioco. Fylstra aveva frequentato la scuola di economia al MIT, dove aveva conosciuto sia Vezza che la versione PDP-10 del gioco. Non fu quindi troppo difficile per Berez e Vezza chiudere la trattativa, che incluse anche un anticipo sulle future royalty, aspetto questo per loro assolutamente indispensabile, giacché la Infocom aveva sostanzialmente già speso i suoi 11.500 $ iniziali in hardware, betatester, e tempo sul PDP-10.
 
Nel mezzo dei rispettivi compiti, gli altri soci scrissero anche un paio di articoli per le riviste, che servissero per stimolare un po’ l’attenzione. “Come far entrare un programma grande in una macchina piccola”, una spiegazione un po’ evanescente dei concetti di virtual machine e di virtual memory, apparso nel numero di Luglio di Creative Computing; e “Zork e il futuro delle simulazioni fantasy su computer”, un articolo più teorico sulla nascente arte delle avventure testuali, apparso nel grande numero dedicato alle avventure di Byte di dicembre. Non avendo ancora adottato l’elegante nome di “interactive fiction”, in questo secondo articolo Lebling affibbiò a Zork e ai suoi simili l’etichetta (alquanto scomoda) di “computerized fantasy simulations” (“CFS”). La versione per TRS-80 di Zork stava ormai per sbarcare sul mercato sotto l’ombrello della Personal Software.
 
Le vendite iniziali non furono eccezionali: la versione TRS-80 vendette circa 1.500 copie nei suoi primi nove mesi. Questi numeri possono forse essere in parte spiegati con il marketing poco convinto e privo di immaginazione della Personal Software, che (alla luce del colosso VisiCalc) era sempre meno convinta di voler essere coinvolta nel mercato videoludico. È altresì vero che il mercato del software per TRS-80 non ha mai prosperato nel modo che ci si potrebbe aspettare se lo paragoniamo alle vendite del rispettivo hardware. Uno dei colpevoli principali era da ricercarsi nelle politiche di Radio Shack. Radio Shack insisteva infatti nel voler vendere nei propri negozi solo il software pubblicato sotto la propria etichetta. E al tempo stesso offriva agli sviluppatori delle royalty davvero modeste se confrontate col resto dell’industria, rifiutandosi perfino di attribuirgli adeguatamente la paternità del prodotto sul software stesso, preferendo promuovere l’immagine di una caritatevole Tandy Corporation che apparentemente generava immacolate creazioni software direttamente dal suo didietro. Nel frattempo i proprietari dei negozi di computer (come quelli di ComputerLand, che stavano esplodendo in tutta la nazione) lasciarono Radio Shack da sola a vendere e a occuparsi delle proprie macchine, concentrandosi piuttosto su altre piattaforme. È probabile che lo Zork per TRS-80 fosse finito, almeno in parte, in questa specie di buco nero distributivo, che stava già trasformando il TRS-80 in uno sconfitto, in contrasto con il nuovo gioiellino dell’industria dei microcomputer, l’Apple II. Infatti, quello stesso dicembre la Apple si quotò in borsa, facendo seduta stante dei suoi fondatori e di altre 300 persone, dei miliardari: la prima grande Offerta Pubblica Iniziale del mercato tech, il segno che presto “l’industria dei microcomputer” sarebbe diventata semplicemente “l’industria dei computer”.
 
A proposito dell’Apple II, Bruce Daniels (l’unico membro del team originale di Zork che all’epoca non si era associato alla Infocom) aveva accettato un posto alla Apple, trasferendosi in California dopo la laurea. Accettò di creare sotto contratto la Z-Machine per l’Apple II. Lo Zork dell’Apple II fu così pubblicato nel Febbraio del 1981 e fece molto meglio della versione per TRS-80, vendendo costantemente circa 1.000 copie al mese. Adesso la Infocom aveva finalmente un flusso costante di introiti, oltre all’infrastruttura tecnologica di base (lo ZIL e la Z-Machine) che avrebbe caratterizzato la società per il resto della sua vita. Le cose iniziavano ad andare per il verso giusto, ma dei risvolti imprevisti erano già all’orizzonte.
 
Ve ne parlerò molto presto, ma la prossima volta voglio lasciare da parte la realtà storica in favore di quella virtuale. Ebbene sì, faremo un piccolo viaggio nel Grande Impero Sotterraneo di Zork.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
Se anche voi apprezzerete questo interessantissimo blog, non mancate di visitare la pagina ufficiale (in lingua inglese) e di sostenerlo tramite Patreon.
Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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ZIL e la Z-Machine
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)


Bentrovati fedeli lettori di OldGamesItalia e del Digital Antiquarian, vi siete mai chiesti come sia possibile giocare a Zork sui moderni computer e tablet? Nulla di più semplice: per prima cosa, come ogni avventuriero che si rispetti, munitevi di foglio e matita, poi scaricate la nostra epica traduzione di Zork, infine procuratevi un interprete di Z-Machine.
La Z-Machine, ecco, è solo grazie alla mitica "Macchina Z" se Zork e la sua ricca eredità sono stati convertiti per una moltitudine di piattaforme e giocati da milioni di persone per decenni fino ai giorni nostri, un'impresa che nel 1979 era quasi impossibile... ma non per Joel Berez e Marc Blank
L'Antiquario ci trasporta in quel delicato momento della storia di Infocom.
 
La rassicurante lista degli articoli del ciclo Infocom:
 
 
Lo ZIL e la Z-Machine
Come Vendettero Zork
Giochi col Parser
Esplorando Zork, Parte 1
Esplorando Zork, Parte 2
Esplorando Zork, Parte 3
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura avventurieri... e non perdete la bussola!
 
Festuceto
 
Quando ci siamo lasciati l’ultima volta, Marc Blank e Joel Berez stavano valutando come portare Zork sui microcomputer. In realtà stavano cercando di risolvere tre problemi interconnessi. A costo di risultare pedante, lasciate che ve li riassuma:
 
1. Come portare Zork (un gioco enorme, che consumava 1 MB di memoria sul PDP-10) sui microcomputer di fascia più bassa che avevano selezionato: Apple II o TRS-80 con 32 K di RAM e un singolo floppy-disk.
 
2. Come farlo in modo che fosse facilmente convertibile per altre piattaforme, affinché fosse il più indolore possibile trasportare Zork non solo sull’Apple II e sul TRS-80, ma anche (se tutto fosse andato bene) sulle molte altre piattaforme incompatibili, presenti e future.
 
3. Come usare il codice sorgente esistente di Zork in MDL come base per una nuova versione per microcomputer, piuttosto che dover ripartire da zero e implementare da capo il gioco su un qualche nuovo ambiente di programmazione.
 
Volendo potete considerare questo elenco come una classifica di problemi in ordine di importanza, da “assolutamente essenziale” fino a “non sarebbe male”. Ma non è strettamente necessario, perché -come vedremo di qui a poco- Blank e Berez (col successivo aiuto degli altri) riuscirono a risolverli tutti in modo assolutamente brillante. Vorrei potermi occupare singolarmente di ognuno di questi problemi, ma (come sa chiunque si sia cimentato con delle complicate mansioni di programmazione) le soluzioni tendono a intrecciarsi l’una con l’altra. Quindi mi limiterò a chiedervi di tenere a mente questi tre obbiettivi, mentre io vi spiegherò come funzionava nel suo insieme il progetto di Blank e Berez.
 
Quando ci troviamo davanti a un gioco troppo grande per essere accomodato in un nuovo ambiente, la soluzione più ovvia sarebbe quella di rendere semplicemente il gioco più piccolo, rimuovendo dei contenuti. E questa è appunto una di quelle cose che la Infocom fece con Zork. Stu Galley:
 
Dave esaminò la sua mappa completa di Zork e tracciò un confine intorno a una porzione della stessa che includeva circa 100 location: tutte le stanze all’aperto e un’ampia sezione intorno alla Round Room. Lo scopo era quello di creare uno Zork più piccolo, che rientrasse nei limiti fissati dal progetto di Joel e Marc. Tutto quello che restava fuori sarebbe stato messo da parte per un altro gioco, da realizzare in un altro momento.
 
Dimezzando il mondo di Zork, la Infocom potette ridurre drasticamente le dimensioni del gioco. 191 stanze divennero 110; 211 oggetti divennero 117; 911 parole conosciute dal parser divennero 617. Non era la soluzione definitiva ai loro problemi, ma di certo aiutava, lasciandoli comunque con in mano un gioco enorme, delle dimensioni approssimative simili a quelle dell’originale Adventure come numero di stanze, ma capace comunque di annichilirlo in termini di oggetti e di parole, e che era comunque più grande di ogni altro gioco d’avventura per microcomputer. E, come spiega Galley qui sopra, li lasciava comunque in possesso di abbondante materiale con cui costruire un possibile seguito.
 
Altri risparmi potevano essere conseguiti spostando l’attenzione sul compilatore per MDL. Essendo un linguaggio progettato per eseguire molti compiti di computazione generici, molte delle capacità dell’MDL risultavano ovviamente inutilizzate in un gioco d’avventura come Zork. Ma, anche se inutilizzate, esse consumavano comunque memoria preziosa. La Infocom dette un paio di sforbiciate all’MDL, proprio come avevano fatto con il mondo di Zork, eliminando le librerie e la sintassi superflua, e tenendo solo ciò che era strettamente necessario per implementare un gioco d’avventura. Chiamarono il nuovo linguaggio ZIL (Zork Implementation Language [“Linguaggio per l’Implementazione di Zork”; ndAncient]), mentre il compilatore che attivava il linguaggio (che girava ancora su un PDP-1) lo chiamarono Zilch. Lo ZIL restò abbastanza simile, come sintassi e impostazione di base, all’MDL, tanto è vero che convertire Zork verso lo ZIL fu piuttosto indolore, ma nonostante ciò il nuovo linguaggio non solo produceva degli eseguibili più compatti e più veloci, ma era anche molto più pulito sintatticamente. Infatti lo ZIL incoraggiò la Infocom non solo a convertire Zork per il nuovo linguaggio, ma anche a migliorarlo da molti punti di vista; in particolare fu il parser che, implementato nel più congeniale ZIL, divenne ancora migliore.
 
Questa è la lanterna di Zork in MDL:
 
<OBJECT ["LAMP" "LANTE" "LIGHT"]
["BRASS"]
"lamp"
<+ ,OVISON ,TAKEBIT ,LIGHTBIT>
LANTERN
()
(ODESCO "A battery-powered brass lantern is on the trophy case."
ODESC1 "There is a brass lantern (battery-powered) here."
OSIZE 15
OLINT [0 >])>
 
E questo è il medesimo oggetto in ZIL:
 
<OBJECT LANTERN
                (LOC LIVING-ROOM)
                (SYNONYM LAMP LANTERN LIGHT)
                (ADJECTIVE BRASS)
                (DESC "brass lantern")
                (FLAGS TAKEBIT LIGHTBIT)
                (ACTION LANTERN-F)
                (FDESC "A battery-powered lantern is on the trophy
               case.")
                (LDESC "There is a brass lantern (battery-powered)
               here.")
                (SIZE 15)>
 
Per i posteri darò una veloce spiegazione del codice ZIL mostrato qui sopra. La prima linea semplicemente ci dice che quel che segue descriverà un oggetto chiamato “lanterna”. La linea successiva ci dice che esso si trova nel soggiorno della casa bianca. Poi vediamo che il giocatore si può riferire a esso anche con i termini “lamp,” “lantern,” or “light,”, con l’aggettivo opzionale di “d’ottone” (che del resto può rivelarsi utile per distinguerla dalla lanterna rotta che si trova in un’altra zona del gioco). Quella che viene chiamata descrizione breve (e cioè, con maggior precisione, il nome col quale appare nell’inventario e in altri punti dove deve essere inserito nel testo) è “lanterna d’ottone”. Il flag TAKEBIT indica che è un oggetto che il giocatore può raccogliere e portare in giro con sé; il flag LIGHTBIT significa che proietta luce, illuminando qualunque stanza buia in cui viene lasciato o trasportato.  LANTERN-F è la speciale routine d’azione della lanterna: un pezzo di codice che ci permette di scrivere delle “regole” speciali per la lanterna, che valgono solo per essa, come ad esempio le routine che permettono al giocatore di accenderla e di spegnerla (come ho spiegato in precedenza, questo livello di programmabilità e il conseguente approccio “orientato agli oggetti” era ciò che davvero contraddistingueva l’MDL -e di conseguenza lo ZIL- da tutti gli altri sistemi di sviluppo di avventure testuali dell’epoca). FDESC è la descrizione della lanterna che appare prima che essa sia spostata, e quindi come parte della descrizione della stanza del soggiorno; LDESC invece appare dopo che l’oggetto è stato spostato e depositato altrove. Per finire, SIZE determina le dimensioni e il peso della lanterna ai fini di stabilire quanto il personaggio possa trasportare con sé in un certo momento. Vi lascerò come esercizio quello di tradurre il più caotico codice per MDL...
 
E così a questo punto la Infocom aveva in gran parte risolto il problema n° 3 e aveva fatto dei grandi passi in avanti con il problema n° 1. Il che però li lasciava ancora con in mano il problema n° 2. Probabilmente state pensando che fosse abbastanza facile progettare un’accoppiata engine/database simile a quella ideata da Scott Adams. La verità però è che era assai problematico. Vi ricorderete infatti che una delle cose che rendevano unico l’ambiente di sviluppo di Zork (che fosse l’MDL o lo ZIL) era la sua programmabilità. Passare a una soluzione simile a quella di Adams avrebbe significato sacrificare proprio questo e, nel mezzo, anche lo ZIL. Perché lo ZIL funzionasse doveva poter eseguire del codice che gli consentisse di gestire le interazioni speciali (come, appunto, l’accensione e lo spegnimento della lanterna); doveva, in altre parole, essere un vero linguaggio di programmazione “Turing-complete” e non un mero sistema di inserimento dati. Ma come riuscirci senza rinunciare ad avere un sistema che fosse anche portabile da macchina a macchina (incompatibile)? La risposta: avrebbero ideato una macchina virtuale, un computer immaginario ottimizzato proprio per giocare alle avventure testuali (proprio come lo ZIL era ottimizzato per scriverle) e poi avrebbero scritto il codice di un interprete che avrebbe simulato quel computer su ogni piattaforma per cui avrebbero voluto pubblicare Zork.
 
Oggi le macchine virtuali sono ovunque. Le app del vostro smartphone Android in realtà girano dentro una virtual machine. Potete utilizzare qualcosa tipo VMWare sul vostro computer per utilizzare Linux dentro Windows, o viceversa. I grandi mainframe e, sempre di più, anche i server di fascia alta hanno sistemi operativi tipo Linux che funzionano all’interno di macchine virtuali astratte dal sottostante hardware; ciò, fra i vari benefici, permette anche di suddividere un unico gigantesco mainframe in tanti mainframe più piccoli. A parte gli scenari di questo tipo, le virtual machine sono così interessanti essenzialmente per due motivi; e virtualmente (ah!) chiunque decida di usarle lo fa per un motivo o per l’altro, o per entrambi. Innanzitutto sono molto più sicure. Se un codice malevolo (come un virus) viene introdotto in una macchina virtuale, rimane al suo interno, anziché infettare l’intero sistema che la ospita, e il codice che manda in crash la virtual machine (che lo faccia intenzionalmente o accidentalmente) in realtà manda in crash solo la virtual machine stessa, e non tutto il sistema che la ospita. La seconda cosa è che una virtual machine consente di eseguire lo stesso programma su macchine che sarebbero altrimenti incompatibili. È un caso di “scrivilo una volta e poi gira ovunque”, come erano soliti ripetere i sostenitori di Java. Nel loro caso, ogni piattaforma su cui doveva girare il programma in questione doveva solo essere dotata di un’implementazione aggiornata della virtual machine di Java (non necessariamente il linguaggio, anche solo la virtual machine). Le macchine virtuali hanno però anche un grosso svantaggio: poiché la piattaforma che le ospita sta emulando un altro computer, tendono a essere molto più lente dello stesso codice sorgente eseguito direttamente sulla propria piattaforma (lo so, tecnologie come la compilazione just-in-time possono fare molto per alleviare questo difetto, ma qui non è il caso di addentrarsi ulteriormente nell’argomento). Tuttavia oggi il potere computazionale è poco costoso e molto diffuso, e quindi questo in genere non è un grande problema. E infatti la situazione attuale può diventare a tratti anche abbastanza ridicola: la mia versione per Kindle di The King of Shreds and Patches è costruita su una virtual machine (Glulx) che viene eseguita dentro un’altra virtual machine (quella di Java), il tutto eseguito su un minuscolo lettore portatile... e nonostante questo le performance restano accettabili.
 
Già nel 1979 le virtual machine non erano un’idea nuova. Fra il 1965 e il 1967 un team dell’IBM aveva lavorato in stretto contatto con il Lincoln Laboratory del MIT per creare un sistema operativo chiamato CP-40, nel quale fino a 14 utenti potevano loggarsi all'interno di un proprio computer mono-utente, interamente simulato da un software eseguito su un grande mainframe della IBM. In seguito il CP-40 divenne la base del sistema operativo opportunamente chiamato VM, pubblicato per la prima volta dalla IBM nel 1972 e ancora oggi largamente usato sui mainframe odierni. Nel 1978 un’implementazione in Pascal, nota come UCSD Pascal introdusse la P-Machine, una macchina virtuale portatile che consentiva ai programmi scritti in UCSD Pascal di girare su molte macchine diverse, incluso perfino l’Apple II (in seguito alla pubblicazione dell’Apple Pascal nell’agosto del 1979). Proprio la P-Machine ebbe una grande influenza sulla virtual machine della Infocom, la Z-Machine.
 
Nell’optare per una virtual machine, dovettero ovviamente pagare (come con ogni altra virtual machine) la penalità in termini di performance, ma essa non era troppo severa come invece ci si aspetterebbe. Proprio come avevano ottimizzato lo ZIL, Blank e Berez resero infatti la Z-Machine il più leggera ed efficiente possibile, includendovi solo quelle caratteristiche davvero utili per eseguire un’avventura testuale. E poi avrebbero implementato l’interprete di ogni piattaforma solo in un linguaggio assembly altamente ottimizzato, col risultato che Zork (pur girando all’interno di una virtual machine) girava comunque molto, molto più velocemente delle tipiche avventure scritte in BASIC di quegli anni. E infatti il potere computazionale dei microcomputer, per quanto limitato, non era mai stato la loro preoccupazione principale durante la conversione di Zork: il vero collo di bottiglia era la memoria. Sì, avrebbero dovuto sacrificare della memoria aggiuntiva per l’interprete, ma ne avrebbero risparmiata ancora di più lavorando sull’efficienza della Z-Machine. Per esempio, una speciale codifica gli permetteva di immagazzinare la maggior parte dei caratteri in 5 bit invece che in 8 bit, e gli permetteva di rimpiazzare le parole più comunemente usate con delle loro abbreviazioni. Una tale compressione del testo era molto rilevante, specie se consideriamo che, dopotutto, è il testo che compone la maggior parte di un'avventura testuale. Con tali tecniche di compressione, insieme alle sforbiciate al gioco stesso e al linguaggio ZIL, finirono per avere un gioco di soli 77 K di dimensioni, senza ovviamente considerare l’interprete della macchina virtuale che era necessario per eseguirlo; quest’ultimo fu chiamato Zip (da non confondersi ovviamente con il formato di compressione dei file). Il file del gioco da 77 K, che la Infocom iniziò a chiamare “story file” [“file della storia”; ndAncient] è sostanzialmente uno "snapshot" della memoria della virtual machine.
 
Quando parliamo di capacità di immagazzinamento di un computer, in realtà stiamo parlando (confondendo così genitori e nonni di tutto il mondo) di due quantità separate: la capacità su disco e la capacità di memoria (RAM). Un Apple II poteva contenere 140 K su un singolo dischetto, mentre il TRS-80 in realtà faceva un po’ meglio con i suoi 180 K. E così ora la Infocom aveva un gioco che poteva essere comodamente alloggiato, insieme al suo necessario interprete, su un singolo dischetto. Il problema era la RAM: anche dimenticandoci il necessario interprete, 77 K non entrano in 32 K, per quanto ci si sforzi di ficcarceli. Oppure sì?
 
Non era la prima volta nemmeno in quegli anni che si sentiva usare il disco come una sorta di memoria secondaria, leggendo dei pezzetti di dati e trasferendoli nella RAM, per poi scartarli quando non erano più necessari. La Microsoft aveva usato proprio questa tecnica per infilare Adventure nei 32 K del TRS-80: ogni pezzo di testo, tutti immagazzinati in un file esterno al gioco stesso proprio come nel progetto originale di Crowther e Woods, veniva letto dal disco solo quando doveva andare a schermo. Tuttavia il sofisticato sistema orientato agli oggetti della Infocom mischiava necessariamente testo e codice, rendendo quantomeno poco pratico un tale approccio. Per questo Blank e Berez si spinsero un passo oltre: avendo già progettato una virtual machine, vi aggiunsero un’implementazione della memoria virtuale.
 
Anche il concetto di memoria virtuale non era nuovo, in generale, nel mondo dell’informatica. E infatti la memoria virtuale risale ancora più indietro nel tempo delle virtual machine, fino a uno dei primi supercomputer, sviluppato dalla University of Manchester e chiamato Atlas, che era stato ufficialmente commissionato nel 1962. In un sistema con memoria virtuale, ogni programma non ha un punto di vista “onesto” sulla memoria fisica del computer host. In sostanza gli viene data una mappa “idealizzata” della memoria, che potrebbe avere ben poco a che fare con il vero layout della RAM fisica del computer che lo ospita. Quando legge e scrive dei pezzi di questa mappa, l’host automaticamente traduce gli indirizzi virtuali in indirizzi reali dentro la sua memoria fisica, in modo trasparente. Ma perché mai fare una cosa del genere, specialmente se consideriamo che produce necessariamente uno spreco di risorse? Anche stavolta per due principali ragioni, entrambe le quali di solito si considerano applicabili solo a sistemi operativi multitasking (che ovviamente erano poco più di un sogno per i microcomputer del 1979 o del 1980). Per prima cosa, isolando la memoria di ciascun programma da quella di ogni altro (oltre che da quella del sistema operativo) la memoria virtuale si assicura che un programma non possa (per malizia o semplicemente a causa di bug) corrompersi e danneggiare altri programmi, se non addirittura far crashare l’intero sistema. Per seconda cosa, la memoria virtuale fornisce al computer una specie di “seconda spiaggia”, un’alternativa al semplice fallimento di sistema, qualora un programma (o più programmi) in esecuzione chiedessero più memoria fisica di quella concretamente disponibile. Quando ciò accade, il sistema operativo cerca nella propria memoria dei pezzi che non vengono usati spesso. A quel punto li archivia nella cache su disco, facendo così spazio nella RAM fisica per allocare la nuova richiesta. Quando si deve accedere nuovamente alle aree così archiviate nella cache, esse devono essere riportate nella RAM, possibilmente scambiandole con altri chunk, se la memoria è scarsa. Tutto ciò avviene in modo trasparente rispetto al programma (o ai programmi) in questione, che continuano a vivere all’interno del loro punto di vista idealizzato sulla memoria, gioiosamente ignari di quanto il sistema sottostante stia in realtà ansimando per tenere tutto in piedi. La memoria virtuale ormai è con noi da molti anni nel mondo dei PC desktop. In uno schema del genere c’è inevitabilmente un punto in cui il gioco non vale più la candela: se avete provato ad aprire tantissime finestre o programmi su un vecchio PC, avrete notato che tutto diventava terribilmente lento, mentre l’hard disk lavorava come un mulino; ecco, adesso sapete quello che stava succedendo dietro le quinte (sempre che non lo sapeste già; qui al The Digital Antiquarian non presupponiamo nessun livello di conoscenze tecniche nei nostri lettori).
 
Per la Z-Machine, Berez e Blank adoperarono una versione molto più semplice della memoria virtuale rispetto a quella che oggi troviamo in sistemi operativi come Windows, Linux, o OS X. E se certe importanti informazioni dinamiche (come la posizione attuale di oggetti all’interno del mondo di gioco) deve essere sempre tracciata e aggiornata dinamicamente, la gran parte dei dati che compongono un gioco come Zork è in realtà statica e non cambia nel tempo: tanto, tanto testo, ovviamente, mischiato a un bel po’ di codice. Berez e Blank riuscirono a progettare il compilatore ZIL in modo tale che esso collocasse tutta la roba che poteva realisticamente cambiare (e che noi chiameremo “dati dinamici”) all’inizio dello story file. Tutto il resto (che noi chiameremo “dati statici”) veniva dopo. Ebbene, dei 77 K dello story file di Zork, solo 18 K erano di dati dinamici. Ecco quello che fecero, quindi...
 
I dati dinamici (cioè la memoria in cui la virtual machine avrebbe scritto, oltre che letto) è sempre immagazzinata nella RAM del computer host. I dati statici tuttavia sono caricati e scaricati dalla RAM ad opera dell'interprete, secondo il bisogno, in blocchi di 1 K chiamati “page” [“pagine”; ndAncient]. In altre parole: dal punto di vista del gioco, esso ha 77 K di memoria con cui lavorare. L’interprete nel frattempo scambia freneticamente blocchi di memoria dentro e fuori dalla molto più limitata RAM fisica, per mantenere in piedi questa illusione. Come la virtual machine, anche la memoria virtuale porta ovviamente con sé un rallentamento, ma è un male necessario. Su un sistema a 32 K, con 18 K riservati ai dati dinamici, la Infocom aveva ancora 14 K liberi per ospitare al loro interno l’interprete della macchina virtuale, un piccolo “stack” (cioè un’area dove i programmi immagazzinano le informazioni temporanee di cui hanno bisogno per il “moment-to-moment processing”) e una “page” o due di memoria virtuale. Certo alle volte poteva rallentare vistosamente, ma funzionava. E, quando veniva avviato su un sistema con, ad esempio, 48 K, l’interprete se ne accorgeva automaticamente e usava questa memoria addizionale per tenere più dati statici nella RAM fisica, velocizzando così il tutto e ripagando l’utente per il suo investimento nell’hardware.
 
Con l’impianto ZIL / Z-Machine, la Infocom aveva creato un sistema, robusto e riutilizzabile, che avrebbe potuto godere di vita propria ben al di là del compito specifico di infilare Zork sul TRS-80 e sull’Apple II. Sono certo di non spoilerare niente a nessuno, se vi svelo già adesso che ciò è esattamente ciò che accadde.
 
Forti di tali fondamenta tecniche, la prossima volta osserveremo il percorso che portò infine Zork sul mercato.  

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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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La Nascita di Infocom
The Digital Antiquarian (la traduzione ufficiale italiana)

Ormai persino i lettori più distratti avranno capito cosa bolle in pentola, quale segreto si annida tra le pagine polverose di OldGamesItalia. Dopo la gloriosa traduzione di Zork I - The Great Undreground Empire, è in cantiere la localizzazione del secondo capitolo della fortunata trilogia di Infocom.
E quale modo migliore di celebrarne la pubblicazione che pubblicare gli articoli del nostro Antiquario Digitale dedicati proprio alla genesi di Zork e di Infocom? Ed è per l'appunto dell'effettiva nascita di questa mitica azienda di videogiochi, agli albori dell'era dei microcomputer, che tratterà l'articolo di oggi.
 
Ma prima, l'immancabile indice degli articoli del ciclo Infocom:
 
La Nascita della Infocom
ZIL e la Z-Machine
Come Vendemmo Zork
Giochi a Parser
Esplorando Zork, Parte 1
Esplorando Zork, Parte 2
Esplorando Zork, Parte 3
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
Lo Zork User Group
Zork III, Parte 1
Zork III, Parte 2
 
Buona lettura avventurieri... e portate le lanterne!
 
Festuceto
 
Mentre il Dynamic Modeling Group completava gli ultimi ritocchi su Zork e finalmente se ne congedava, al MIT si iniziava ad avvertire la fine di un’era. Marc Blank stava per laurearsi in medicina e stava per iniziare il suo internato a Pittsburgh, cosa che avrebbe reso impossibile continuare la sua opera di "hackeraggio" intensivo al MIT, nonostante le sue capacità apparentemente sovrumane. Altri ancora stavano ultimando i loro programmi di laurea al MIT, oppure (a forza di attardarsi all'università) stavano esaurendo le giustificazioni per ritardare ancora l'inizio delle loro “vere” carriere, con dei veri stipendi. Stava insomma per iniziare un esodo generazionale, non solo dal Dynamic Modeling Group ma proprio dal Laboratory for Computer e dall'AI Lab del MIT in generale. Le pressioni del mondo esterno avevano infine fatto breccia nell'utopia hacker del MIT, pressioni che negli anni immediatamente successivi, l'avrebbero cambiato per sempre. Gran parte di questo cambiamento originò però dall'invenzione dei microcomputer.
 
La maggior parte di coloro che frequentava gli ambienti dell’hacking istituzionale, tipo il MIT, all’inizio non era particolarmente entusiasta di quella che veniva chiamata la rivoluzione dei PC. Il che non deve sorprenderci. Quei primi microcomputer erano delle macchine con limiti assurdi. Gli “hacker casalinghi” che le comprarono (spesso costruendosele da soli) erano eccitati dalla semplice idea di avere accesso illimitato a un qualcosa che, almeno lontanamente, rispondesse alla definizione di “computer”. Invece i privilegiati che occupavano un posto in un’istituzione tipo il MIT, non solo avevano accesso illimitato (o quasi) ai suoi sistemi, ma tali sistemi erano anche abbastanza potenti da poter farci davvero qualcosa. Che fascino poteva avere un Altair o anche un TRS-80 in confronto ai sofisticati sistemi operativi come il TOPS-10 o il TOPS-20 o l’Incompatible Timesharing System, con linguaggi di programmazione ben strutturati come il LISP e l’MDL, con ricerche nei campi dell’intelligenza artificiale e del linguaggio naturale, e che avevano perfino dei giochi in rete come Maze, Trivia [il gioco a quiz di cui abbiamo già parlato; ndAncient] e, ovviamente, Zork? Il mondo dei microcomputer ai loro occhi doveva sembrare irrimediabilmente privo di cultura e di educazione, privo di quella vera tradizione di hacking che ormai affondava le sue radici in oltre venti anni di esperienza. Come si poteva pensare di scrivere dei programmi complessi usando il BASIC? Quando molti degli hacker istituzionali si degnarono di accorgersi delle nuove macchine, fu con atteggiamento sprezzante; Stu Galley decretò che il motto non ufficiale del Dynamic Modeling Group diventasse: “Noi odiamo i micro!”. Consideravano i microcomputer come poco più che dei giocattoli, che del resto era grossomodo la reazione avuta da gran parte della popolazione.
 
Già nella primavera del 1979, tuttavia, stava diventando via via più chiaro, a tutti coloro che volevano vederlo, che quelle piccole macchine avevano i loro usi. WordStar, il primo word processor per microcomputer davvero utilizzabile, era disponibile già da un anno, e stava portando sempre più macchine basate sul CP/M negli uffici e perfino negli studi degli scrittori. Alla West Coast Computer Faire di quel maggio, Dan Bricklin mostrò pubblicamente per la prima volta VisiCalc, il primo foglio elettronico del mondo, che avrebbe rivoluzionato la contabilità e la progettazione finanziaria. “Come hai potuto fare senza?”, chiedeva la prima pubblicità che ne anticipava la pubblicazione, con un'iperbole che (fu subito chiaro) si sarebbe rivelata assai preveggente; qualche anno più tardi, milioni di persone si chiederanno esattamente la stessa cosa. A differenza di WordStar e perfino di AdventureLand di Scott Adams, VisiCalc non era una versione più limitata di un concept sviluppato sui computer istituzionali e poi implementato sull’hardware dei microcomputer. Esso era stato concepito, progettato, e implementato interamente sull’Apple II; la prima idea autenticamente nuova nata su un microcomputer, il simbolo di un imminente cambio della guardia.
 
I microcomputer portarono molti, molti più utenti nel mondo dei computer di quanti non ce ne fossero mai stati. Il che portò molti più investimenti privati nel settore, guidati da una nuova realtà: con questa roba si potevano fare soldi veri. E questa consapevolezza portò dei grandi cambiamenti al MIT e nelle altre istituzioni di hacking “puro”. È (tristemente) famosa la spaccatura in due che avvenne durante l’inverno e la primavera del 1979 all’interno dell’AI Lab in seguito alla disputa fra Richard Greenblatt (che sostanzialmente all’interno del MIT era il decano della tradizionale etica degli hacker) e un più pragmatico amministratore di nome Russell Noftsker. Insieme a un piccolo team di altri hacker e di ingegneri informatici, Greenblatt aveva sviluppato un piccolo computer a utente singolo, una sorta di “boutique micro”, il primo di quelle che sarebbero poi state chiamate “workstation”, ottimizzato per far girare il LISP. Credendo che il progetto potesse avere un vero potenziale commerciale, Noftsker avvicinò Greenblatt con la proposta di creare una società che lo producesse. Greenblatt inizialmente si disse d’accordo, ma ben presto si dimostrò (almeno dal punto di vista di Noftsker)  indisponibile a sacrificare anche il più piccolo dei principi degli hacker dinanzi alla realtà degli affari. I due si lasciarono in malo modo, con Noftsker che portò con sé gran parte dell’AI Lab per implementare il concept originale di Greenblatt attraverso la Symbolics, Inc. Sentendosi disilluso e tradito, alla fine anche Greenblatt se ne andò, per formare una sua società, di minor successo, la Lisp Machines.
 
Non è che nessuno del MIT, prima di allora, avesse mai fondato una società, né che il commercio non si sia mai mischiato con l’idealismo di quegli hacker. Gli stessi fondatori della DEC, Ken Olson e Harlan Anderson, erano stati due allievi del MIT, che nella metà degli anni ‘50 si erano occupati, come studenti, del progetto di base di quella che sarebbe poi diventata la prima macchina della DEC, il PDP-1. Da allora il MIT ha sempre mantenuto una relazione privilegiata con la DEC, testando il loro hardware e, cosa ancora più importante, sviluppando del software estremamente essenziale per le macchine della società; una relazione che era (a seconda di come la si guarda) o una miniera d’oro per gli hacker che dava loro continuo accesso alle ultime tecnologie, oppure un brillante piano della DEC per mettere al proprio servizio alcune delle menti migliori dell’informatica di quella generazione senza pagare loro un centesimo. Nonostante questo, ciò che stava accadendo al MIT nel 1979 sembrava qualitativamente diverso. Questi hacker erano quasi tutti programmatori di software, dopotutto, e il mercato dei microcomputer stava dimostrando che adesso era possibile vendere autonomamente il software, in opere preconfezionate, proprio come avviene con un disco o con un libro. Un uomo saggio una volta ha detto: “il denaro cambia tutto”. Molti hacker del MIT erano eccitati all’idea del possibile lucro, come risulta evidente dal fatto che i più scelsero di seguire Noftsker fuori dall’università, piuttosto che l’idealistico Greenblatt. Solo una manciata di loro, come Marvin Minsky e il cocciutissimo Richard Stallman, restarono indietro e continuarono a seguire fedelmente la vecchia etica degli hacker.
 
I fondatori della Infocom non erano fra gli irriducibili. Come si intuisce già dal loro gesto di aggiungere una protezione (oggi suona quasi ridicolo scriverlo) all’Incompatible Timesharing System per proteggere il codice sorgente del loro Zork (una cosa che avrebbe fatto innalzare le urla di protesta di Stallman almeno su due diversi livelli), la loro devozione all’etica degli hacker era quantomeno negoziabile. E infatti Al Vezza e il Dynamic Modeling Group stavano rimuginando su possibili applicazioni commerciali per le creazioni del gruppo già dal 1976. Alla fine del semestre primaverile del 1979, tuttavia, sembrò palese che se questa versione del Dynamic Modeling Group (sul punto di sparpagliarsi ai proverbiali quattro venti) voleva fare qualcosa di commerciale, quello era il momento giusto per iniziare. E del resto molti altri al MIT stavano facendo la stessa identica cosa, no? Non aveva senso restare da soli in un laboratorio vuoto, come accadde letteralmente al povero Richard Stallman. In ogni caso, era così che Al Vezza vedeva la situazione e i colleghi da lui diretti (ansiosi di restare connessi e tutt’altro che contrari all’idea di aumentare i propri modesti stipendi universitari) accettarono di buon grado.
 
E così la Infocom venne ufficialmente fondata il 22 Giugno 1979, con dieci azionisti. Fra questi c’erano tre dei quattro hacker che avevano lavorato a Zork:  Tim Anderson, Dave Lebling, e Marc Blank (appena diventato dottore e già pendolare dal suo internato medico a Pittsburgh). Insieme a loro c’erano anche altri cinque membri (attuali o passati) del Dynamic Modeling Group: Mike Broos, Scott Cutler, Stu Galley, Joel Berez, Chris Reeve. E poi c’era lo stesso Vezza e anche Licklider, che accettò di unirsi al gruppo in una sorta di ruolo di consigliere, lo stesso che aveva rivestito al Dynamic Modeling Group del MIT. Oguno di loro raggranellò ogni finanziamento che poteva ottenere, da 400 $ fino a 2.000 $, e in cambio ricevette una proporzionale quota di azioni della nuova società. I fondi iniziali ammontavano a 11.500 $. Il nome della società era inevitabilmente vago, tanto più se consideriamo che nessuno sapeva cosa avrebbe prodotto quella società (se mai avesse prodotto qualcosa). Le parole composte da due termini troncati e vagamente futuristici erano estremamente in voga fra le società tecnologiche dell’epoca (Microsoft, CompuWare, EduWare) e la Infocom seguì la tendenza, scegliendo il nome su cui “tutti avevano meno obiezioni”.
 
 
Come dovrebbe essere chiaro da quanto sopra, non si può certo dire che la Infocom iniziò sotto i migliori auspici. La definirei una “startup da garage”, se non fosse che loro non avevano nemmeno un garage. Per alcuni mesi la Infocom esistette più come una società astratta sospesa in un limbo, che come una vera impresa in affari. Non ebbe nemmeno il suo primo indirizzo postale (una cassetta postale) fino al Marzo del 1980. Inutile dire che nei mesi successivi nessuno dei soci stava lasciando il proprio lavoro, mentre, di tanto in tanto, si incontravano per discutere il da farsi. Ad agosto, Mike Broos si era già stancato dell’andazzo e uscì dal progetto, lasciando quindi nove soci. Tutti furono concordi sul fatto che avevano bisogno di qualcosa da pubblicare in modo relativamente veloce, per far decollare la società. Solo allora sarebbero potuti seguire dei progetti più ambiziosi. Il problema era cosa avrebbero potuto fare per quel loro primo progetto.
 
Gli hacker passarono in rassegna i loro vecchi progetti del MIT, in cerca di idee. Continuavano a tornare sui giochi. C’era quel gioco a quiz, ma sarebbe stato difficile inserire abbastanza domande su un singolo floppy disk per dare un senso alla cosa. Più intrigante era il gioco chiamato Maze. I giochi arcade erano esplosi in quegli anni. Se la Infocom avesse potuto creare una versione di Maze per i cabinati, avrebbero avuto un qualcosa di unico, senza precedenti. Per farlo però sarebbe stato necessario un progetto ingegneristico enorme, sul lato hardware oltre che su quello software. I soci della Infocom erano tutti in gamba, ma erano tutti hacker di software e non di hardware, e di soldi ce n’erano ben pochi. E poi, ovviamente, c’era Zork… ma non c’era nessun modo di infilare un gioco d’avventura da 1 MB in un microcomputer da 32 K o 48 K. E poi ad Al Vezza non piaceva affatto l’idea di entrare nel settore dei giochi, perché temeva che ciò avrebbe potuto compromettere il nome della compagnia, anche se si fosse trattato solo di accumulare dei fondi iniziali per avviare le attività. E così ci furono abbondanti discussioni su altre idee, più legate al mondo degli affari, sempre tratte dalla storia dei progetti del Dynamic Modeling Group: un sistema di indicizzazione dei documenti, un sistema di email, un sistema di elaborazione testi.
 
Nel frattempo, Blank viveva a Pittsburgh ed era piuttosto scontento di ritrovarsi tagliato fuori dai vecchi tempi dell’hacking al MIT. Per fortuna aveva almeno una vecchia connessione con il MIT: Joel Berez, che prima della laurea nel 1977 aveva lavorato al Dynamic Modeling Group. Egli aveva trascorso gli ultimi due anni a Pittsburgh, lavorando nella ditta di famiglia (esperienza che forse convinse gli altri a nominarlo Presidente della Infocom nel 1979). Blank e Berez presero l’abitudine di ritrovarsi insieme per mangiare cinese (alimento alla base della dieta di ogni hacker) e per rimembrare i vecchi tempi. E tutte quelle loro conversazioni continuavano a ritornare su Zork. Era davvero impossibile immaginarsi di portare il gioco su microcomputer? In poco tempo le conversazioni passarono dal nostalgico al tecnico. Ma, come iniziarono a parlare delle questioni tecniche, si affacciarono altre sfide, anche al di là della mera capacità computazionale dei microcomputer.
 
Se anche avessero potuto in qualche modo portare Zork su microcomputer, quale avrebbero scelto? Il TRS-80 era di gran lunga quello più venduto, ma l’Apple II (la Cadillac della trinità del 1977) stava iniziando a guadagnare terreno, grazie all’aiuto del nuovo modello II Plus e di VisiCalc. Ma l’anno prossimo, e quello dopo ancora… chi poteva dirlo? E poi tutte queste macchine erano irrimediabilmente incompatibili l’una con le altre, il che significava che per raggiungere le diverse piattaforme sarebbe stato necessario implementare Zork (e ogni altro futuro gioco d’avventura si decidesse di sviluppare) di nuovo, ogni volta, su ciascuna di tali macchine. Blank e Berez si misero alla ricerca di un linguaggio di alto livello, che fosse abbastanza portabile e adeguato per implementare un nuovo Zork, ma non ne trovarono. Il BASIC era... beh, era il BASIC, e non era nemmeno particolarmente uniforme da microcomputer a microcomputer. All’orizzonte c’era una nuova, promettente implementazione di un più portabile Pascal per Apple II, ma non si parlava di nulla di simile per le altre piattaforme.
 
E così, se volevano essere in grado di vendere il proprio gioco a tutto il mercato dei microcomputer, anziché solo a una fetta dello stesso, si sarebbero dovuti inventare un sistema di gestione dei dati che fosse facilmente portabile, che potesse essere fatto funzionare su differenti microcomputer attraverso un interprete appositamente scritto per ogni modello. Ovviamente creare ogni singolo interprete sarebbe stato impegnativo, ma sarebbe comunque stato uno sforzo più modesto e, qualora la Infocom avesse deciso di fare altri giochi dopo Zork, il risparmio di energie sarebbe rapidamente diventato estremamente significativo. Nel giungere a questa conclusione, avevano sostanzialmente seguito una linea di pensiero già abbondantemente battuta da Scott Adams e dalla Automated Simulations.
 
Ma c’era un altro problema ancora: attualmente Zork esisteva solo su MDL, un linguaggio che ovviamente non era implementato sui microcomputer. Se non volevano riscrivere da zero l’intero gioco (del resto l’obbiettivo di tutto questo non era esattamente quello di tirar fuori un prodotto rapidamente e con una certa facilità?), dovevano anche trovare un modo per far girare quel codice sui microcomputer.
 
Quelli che avevano fra le mani erano un bel po’ di problemi. La prossima volta vedremo come li risolsero (in modo assolutamente brillante).

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Le Radici della Infocom
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

 
Dopo una prolungata pausa estiva riprende la traduzione ufficiale del nostro "Antiquario" preferito e - come avranno intuito i lettori più scaltri - i prossimi articoli riguarderanno un argomento molto caro agli avventurieri e per certi versi di grande attualità, il perché vi sarà chiaro nei mesi a venire...
L'articolo del The Digital Antiquarian (versione italiana) che vi presentiamo inaugura il ciclo dedicato alla nascita della Infocom e ai primi due capitoli della serie di Zork.
 
Il percorso di lettura includerà i seguenti articoli:
 
Le Radici della Infocom
Zork sul PDP-10
La Nascita della Infocom
ZIL e la Z-Machine
Come Vendemmo Zork
Giochi a Parser
Esplorando Zork, Parte 1
Esplorando Zork, Parte 2
Esplorando Zork, Parte 3
Infocom: Come Cavarsela da Soli
Zork II, Parte 1
Zork II, Parte 2
 
Buona Lettura!
 
Festuceto
 
 
Zork
by Personal Software
 
Zork è un fantasy digitale di sfida definitiva. Creature immonde sono a guardia di tesori inimmaginabili. Labirinti ingarbuglieranno la tua quest. Quindi affila il tuo ingegno e scegli attentamente il tuo percorso attraverso il Grande Impero Sotterraneo. L’oggetto più improbabile potrebbe essere il solo in grado di salvarti la vita.
Nonostante tutto, potresti farcela. Scopri i 20 tesori di Zork, riportali nell’Armadietto dei Trofei, e vattene con la tua vita. Ma porta con te tutta l’astuzia e il coraggio che possiedi, perché in Zork… non si fanno prigionieri!
 
Zork, Il Grande Impero Sotterraneo è stato creato dalla Infocom inc. ed è disponibile per Apple II 32K e II Plus e S-80 32 K Model I Level II.
$39.95
 
Nel novembre del 1980, la Personal Software iniziò a pubblicizzare l’annuncio di cui sopra sulle riviste di computer, per promuovere un nuovo gioco disponibile su TRS-80 e (qualche mese più tardi) sull'Apple II. Non si può definire esattamente un capolavoro del marketing: l'artwork pacchiano e dilettantesco può essere difeso solo perché in linea con le altre pubblicità dell'epoca, e il testo riesce a non spiegare assolutamente niente di cosa contraddistingua Zork dalle altre avventure testuali simili. Come non perdonare un avventuriero scafato che abbia voltato distrattamente pagina alla lettura dei “labirinti che ingarbuglieranno la tua quest” e dei “20 tesori” che devono essere riposti “nell'Armadietto dei Trofei”. Perfino Scott Adams (che non era esattamente il paladino della sperimentazione) aveva ritenuto opportuno spingersi oltre le semplicistiche cacce al tesoro fantasy. Senza considerare poi che Zork non offriva nemmeno le belle immagini dei primi giochi della On-Line Systems (per quanto questi fossero punitivi fin quasi al punto di risultare ingiocabili).
 
Nonostante ciò, Zork rappresenta una vera svolta nel genere della avventure testuali, anzi... un’intera collezione di svolte, a partire dal suo parser che mostrava davvero un barlume di uso corretto della lingua inglese (invece del solito semplicissimo schema ripetitivo del testo in-game), tale da far pensare per la prima volta che dietro vi fossero degli autori davvero interessati alla qualità della loro prosa, che non ritenevano la grammatica e l’ortografia delle inutili distrazioni.
In una delle mie parti preferite del documentario Get Lamp di Jason Scott, diversi intervistati riflettono su quanto formidabile fosse Zork nel mondo dell’informatica del 1980-1981. Tutti concordano nell’affermare che, per un breve lasso di tempo, esso sia stato il dischetto più impressionante da tirar fuori per mostrare ciò di cui erano capaci i nuovi TRS-80 e Apple II.
 
Zork giocava su un livello completamente diverso da qualunque altro gioco d’avventura, cosa che del resto non sorprende più di tanto, considerando il suo pedigree. Di certo non si può dedurlo dalla pubblicità qui sopra, ma Zork nasce nell’area più leggendaria della più importante università della storia dell’ingegneria informatica: il MIT. A ben vedere il pedigree di Zork è così impressionante che è difficile sapere da dove iniziare a descriverlo e ancor più difficile sapere dove smettere, e altrettanto difficile evitare di venir risucchiati in un'interminabile versione informatica del “Numero di Bacon”. Per gestire la cosa, cercherò il più possibile di limitarmi alle persone coinvolte direttamente con Zork o con la Infocom, la società che lo ha sviluppato. Iniziamo quindi con Joseph Carl Robnett Licklider, un tizio che per sua ammissione ebbe un ruolo più marginale che diretto nella storia della Infocom, ma che ci serve come esempio della “rarefatta aria di ingegneria informatica” che si respirava alla Infocom.
 
Nato nel 1915 a Saint Louis, Licklider era uno psicologo di mestiere, ma aveva quell’intelletto irrequieto di cui Joseph Weizenbaum avrebbe lamentato la scomparsa (apparente) nelle successive generazioni di studenti del MIT. Conseguì un triplice bachelor's degree in fisica, matematica, e psicologia alla Washington University in Saint Louis all’età di 22 anni, avendo anche “flirtato”, lungo il percorso, con la chimica e le belle arti. Si fermò un attimo per concentrarsi sulla psicologia per il suo Master's degree e per il suo dottorato di ricerca, pur restando costantemente interessato a connettere la scienza “soft” della psicologia con le scienze “hard” e con la tecnologia. E così, studiando la componente psicologica dell’udito, apprese la conformazione fisica del sistema nervoso uditivo dell’uomo e degli animali più di quanto non facciano molti medici specialisti (una volta lo ebbe a definire “il prodotto di un superbo architetto e di un approssimativo operaio”). Durante la Seconda Guerra Mondiale le ricerche sugli effetti dell’altitudine sugli equipaggi dei bombardieri lo portarono ad essere altrettanto coinvolto nella ricerca sulla tecnologia radio utilizzata per le comunicazioni tra i membri dell'equipaggio e con gli altri aerei.
 
Dopo alcuni brevi periodi in varie università, Licklider arrivò al MIT nel 1950, inizialmente per continuare i suoi studi sull’acustica e sull’udito. Tuttavia l’anno seguente il complesso militare-industriale americano si rivolse al MIT in cerca di aiuto per create un network di allerta precoce per i bombardieri sovietici, che ci si immaginava avrebbero potuto calare sull'America dal Circolo Polare Artico. Licklider si unì all’istituzione che fu creata per portare avanti il progetto (il Lincoln Laboratory) in qualità di capo del gruppo di “human-engineering”, ed ebbe un ruolo nella creazione del Semi-Automatic Ground Environment (SAGE), di gran lunga la più ambiziosa applicazione di tecnologia informatica concepita fino ad allora e per molti anni a venire. Creato dal Lincoln Lab del MIT insieme alla IBM e altri partner, il cuore del SAGE era un insieme di mainframe IBM AN/FSQ-7, fisicamente i computer più grandi mai costruiti (un record che probabilmente deterranno per sempre). Il sistema compilava i dati provenienti da molte stazioni radar, per permettere agli operatori di tracciare in tempo reale un ipotetico attacco. Potevano far decollare in allarme e guidare aerei americani per intercettare i bombardieri, con una visuale a volo d’uccello sulla battaglia risultante. Le versioni successive di SAGE consentivano perfino di prendere il momentaneo controllo di aerei alleati, guidandoli verso il punto di intercettazione attraverso un collegamento ai loro sistemi di auto-pilota. SAGE è rimasto operativo dal 1959 al 1983, costando più di quel Manhattan Project, che per primo aveva scoperchiato il vaso di Pandora del conflitto nucleare, e produsse giganteschi passi avanti nell’informatica, in particolare nelle aree del networking e del time-sharing interattivo. D’altro canto, però, se consideriamo che, quando esso divenne operativo, la minaccia rappresentata dai bombardieri nucleari (che il SAGE avrebbe dovuto fronteggiare) era stata già abbondantemente surclassata da quella dei Missili Balistici Intercontinentali, la sua utilità da un punto di vista militare è quantomeno discutibile.
 
 
Negli anni '50 la maggior parte delle persone, fra cui anche molti degli ingegneri e dei primi programmatori che ci lavoravano, vedevano i computer essenzialmente come dei giganteschi calcolatori. Mettevi dei numeri in un'estremità e ne ottenevi altri dall'altra, che si trattasse della giusta traiettoria di un pezzo di artiglieria destinato a colpire un qualunque bersaglio, o che si trattasse dei conti correnti dei milioni di clienti di una banca. Tuttavia, osservando i primi tester di SAGE mentre tracciavano in tempo reale delle minacce simulate, Licklider ebbe una visione radicalmente nuova dall'informatica, in cui l'uomo e il computer potevano collaborare attivamente insieme, in modo interattivo, per risolvere problemi, generare idee, e magari anche divertirsi. E lui si portò dietro queste idee quando nel 1953 lasciò il nascente progetto SAGE per galleggiare fra vari ruoli diversi all'interno del MIT, allontanandosi lentamente sempre di più dalla psicologia tradizionale a favore dell'informatica. Nel 1957 iniziò a dedicarsi all'informatica a tempo pieno, quando (seppur solo temporaneamente) lasciò il MIT per la società di consulenze Bolt Beranek and Newman, una società che giocherà un ruolo enorme nello sviluppo dei network informatici e di quella che oggi conosciamo come internet (i lettori più fedeli di questo blog si ricorderanno che la BBN è anche il luogo dove era impiegato Will Crowther quando creò la versione originale di Adventure come svago dalla sua attività principale di programmazione del codice di gestione dei primi router per network informatici).
 
Licklider, che voleva che tutti (perfino i suoi studenti universitari) lo chiamassero semplicemente “Lick”, era una persona brillante quanto umile. Con la parlata lenta e strascicata del Missouri che poteva oscurare il genio di alcune delle sue idee, non ha mai pensato alla carriera o alla fama personale, e non ha mai fatto uso di inganni o di scaltrezze per avere più successo. Quando uno dei suoi colleghi più ambiziosi rubava una sua idea, Lick si limitava a scrollare le spalle, dicendo: “Non importa che si prenderà il merito; quel che conta è che il risultato sia raggiunto.” Tutti lo adoravano. Gran parte del suo lavoro sarà anche stato finanziato dalla realpolitik dell'industria militare, ma Lick era di indole idealista. Si era convinto che i computer avrebbero potuto plasmare una società migliore e più giusta, in cui gli uomini avrebbero potuto creare ed esplorare il proprio potenziale affiancati dai computer, che si sarebbero assunti tutti i compiti noiosi e ripetitivi. Anticipando in modo sorprendente il World Wide Web, si era immaginato un mondo di “plance di home computer” connesse a un network più ampio che avrebbe portato il mondo dentro casa, in modo interattivo (invece che nel modo passivo e dominato dalle grandi società, come avveniva nella televisione). Tutte queste idee le mise anche nero su bianco in uno studio del 1960 (“Man-Computer Symbiosis” [“Simbiosi Uomo-Computer”]), inserendo il suo pensiero nella lunga schiera degli utopisti informatici, che giocheranno un ruolo essenziale nello sviluppare tecnologie più amichevoli per l'uomo comune, come il linguaggio di programmazione BASIC e i microcomputer veri e propri.  
 
Nel 1958 il governo degli Stati Uniti d'America creò l'Advanced Research Projects Agency in risposta alla presunta superiorità tecnologica e scientifica dell'Unione Sovietica alla luce del lancio dello Sputnik (il primo satellite del mondo) avvenuto l'anno precedente. L'ARPA sarebbe dovuta essere un qualcosa di “visionario”, che metteva insieme scienziati e ingegneri per ricercare idee e tecnologie che sarebbero anche potute non essere di immediata applicabilità nei programmi militari in corso, ma che si sarebbero potute dimostrare utili in futuro. Fu il passo successivo di Lick dopo la BBN: nel 1962 assunse il ruolo di capo del loro “Information Processing Techniques Office”. Rimase all'ARPA per soli due anni, ma in molti gli riconoscono il merito di aver profondamente cambiato il modo di pensare dell'agenzia. Prima di lui l'ARPA era concentrata su monolitici mainframe, usati come gigantesche “macchine per risposte”, che operavano in batch-processing. Da Where Wizards Stay Up Late:
 
Avrebbero immesso nel computer informazioni segrete provenienti da varie fonti umane, quali pettegolezzi da feste od osservazioni alle parate militari del Primo Maggio, per cercare di delineare uno scenario probabile delle prossime mosse dei Sovietici. “L'idea consisteva nell'immettere in un potente calcolatore informazioni qualitative del tipo: 'Il comandante dell'aviazione ha bevuto due Martini' oppure ' Khrushchev non legge la Pravda il lunedì', ricorda Ruina. 'E il computer avrebbe recitato la parte di Sherlock Holmes, e ne avrebbe concluso che i russi stavano costruendo un missile MX-72, o qualcosa del genere.”
 
“Robe da asini” tipo queste erano il motore di gran parte delle riflessioni sui computer di quei giorni, perfino in università prestigiose come il MIT. Tuttavia Lick virò ARPANET in una direzione più gestibile e fruttifera, verso delle reti di computer che gestissero applicazioni interattive in connubio con gli umani: dei fatti e dei numeri se ne sarebbe occupato il computer, mentre delle conclusioni e del processo decisionale se ne sarebbe occupato l'uomo. Questo cambiamento di rotta condusse, nel giro di una decade, alla creazione di ARPANET. E, come tutti oggi ben sanno, ARPANET alla fine divenne Internet (dite quel che volete della Guerra Fredda, ma non che non abbia portato dei giganteschi passi in avanti nell’informatica). La visione umanistica dell’informatica, di cui Lick era paladino, resta percorribile e allettante ancora oggi, mentre restiamo in attesa che i fautori dell’intelligenza artificiale ci producano il primo HAL.
 
 
Lick tornò al MIT nel 1968, stavolta come direttore del leggendario Project MAC. Creato nel 1963 col fine di condurre ricerche per ARPA, la sigla MAC stava (a seconda della persona con cui stiamo parlando) per "Multiple Access Computing" o per "Machine Aided Cognition". Questi due nomi definiscono anche l’oggetto principale delle prime ricerche che vi venivano condotte: sistemi in "time-sharing" che permettessero a utenti multipli di condividere risorse e usare programmi interattivi su una singola macchina; e intelligenza artificiale, sotto la guida di due dei più famosi sostenitori dell’IA: John McCarthy (che ne ha anche coniato il termine) e Marvin Minsky. Potrei scrivere con facilità altri post (se non addirittura dozzine di post) sulla carriera e sulle idee di questi due uomini, affascinanti, problematici, e a volte un po’ inquietanti. E potrei dire lo stesso di molti altri dei luminari dell’informatica del MIT con cui Lick fu in stretto contatto, tipo Ivan Sutherland, l’inventore del primo programma di disegno nonché sostanzialmente di tutto il campo della ricerca nella computer grafica, oltre che suo successore alla guida di ARPA. Invece mi limiterò (ancora una volta) a segnalarvi Hackers di Steven Levy, un libro di facile lettura ma necessariamente incompleto, che descrive il fermento intellettuale del MIT degli anni ‘60, e poi Where Wizards Stay Up Late di Matthew Lyon e Katie Hafner, per approfondire i primi anni della carriera di Lick, ma anche la BBN, il MIT, e il nostro vecchio amico Will Crowther.
 
Il Project MAC si divise in due nel 1970, diventando il MIT AI Laboratory e il Laboratory for Computer Science (LCS). Lick rimase con quest’ultimo nel ruolo di una sorta di figura paterna per la nuova generazione di giovani hacker che alla fine degli anni ‘70 stavano lentamente rimpiazzando la vecchia guardia, di cui parla il libro di Levy. La sua era una mente accorta, sempre pronta a raccogliere le loro idee, e lui riusciva sempre (grazie anche alla sua rete di connessioni col governo e con l’industria) a trovare i fondi per portarle avanti.
 
L’LCS era formato da una serie di gruppi di lavoro più piccoli, uno dei quali era noto come il Dynamic Modeling Group. È stranamente difficile abbinare questi gruppi a uno scopo univoco. A ben vedere non è possibile farlo nemmeno con gli stessi AI Lab e LCS. Molte ricerche che si sarebbero potute facilmente considerate inerenti all’IA si svolgevano all’LCS, e molte che invece non rientravano tanto comodamente sotto quell’ombrello si svolgevano all’AI Lab (per esempio Richard Stallman sviluppò il text editor definitivo per gli hacker, l'EMACS, al AI Lab – un progetto indiscutibilmente meritevole, ma che ha davvero poco a che fare con l’intelligenza artificiale). I gruppi e gli individui al loro interno avevano un’immensa libertà di "hackerare" su qualunque progetto giustificabile di loro interesse (con i progetti non giustificabili che venivano rimandati al dopolavoro), aspetto questo che fece dell’LCS e dell’AI Lab l'amatissima casa degli hacker. E molti di loro arrivarono a ritardare la propria laurea, o addirittura non ci persero proprio tempo, tanto era intellettualmente fertile l’atmosfera nel MIT in contrasto con ciò che avrebbero trovato in una “normale” carriera nell’industria privata.
 
 
Il direttore del Dynamic Modeling Group era un tizio chiamato Albert (Al) Vezza, che ricopriva anche il ruolo di direttore aggiunto dell’LCS. E qui dobbiamo prestare attenzione. Se sapete già qualcosa della storia della Infocom, probabilmente vi ricorderete di Vezza come dell'imprenditore severo e cattivo, che non riusciva a vedere la magia nel nuovo medium della narrativa interattiva che il resto della società voleva perseguire, e che insisteva nel voler ridurre il lavoro della divisione ludica a una mera fonte di introiti per finanziare le applicazioni professionali più “serie”, e che alla fine condusse la società alla rovina per colpa delle sue errate priorità. È però anche vero che non c’è nemmeno mai stato un vero scontro diretto fra gli ex studenti universitari della Infocom e Vezza. Un’intervista con Mike Dornbrook per un progetto di uno studente del MIT impegnato a studiare la storia della Infocom, ci fornisce la seguente immagine di Vezza al MIT:
 
Se Licklider era carismatico e veniva affettuosamente chiamato “Lick” dai suoi studenti, Vezza non parlava quasi mai con i membri dell’LCS e di solito la mattina passava dall’ascensore al suo ufficio senza una minima deviazione, chiudendosi la porta alle spalle, per poi non vedere più nessuno per tutto il giorno. All’LCS c’era chi era scontento del suo stile dirigenziale, affermando che fosse freddo e che “non parlava mai con le altre persone se non vi era costretto, perfino con quelle che lavoravano all'interno del Lab.”
 
D’altro canto Lyon e Hafner hanno però questo da dire al riguardo:
 
Vezza faceva sempre una buona impressione. Era affabile ed eloquente in modo impeccabile; aveva un’arguta mente scientifica e istinti amministrativi di primissimo livello.
 
Al di là dei suoi difetti, Vezza era molto più di un vuoto colletto bianco privo di immaginazione. Ha infatti avuto una lunga e brillante carriera, spesa in gran parte a portare avanti le idee inizialmente proposte dallo stesso Lick; per esempio, appare nel libro di Lyon e Hafner perché ebbe un ruolo chiave nell’organizzazione della prima dimostrazione pubblica delle capacità della nascente ARPANET. Anche dopo gli anni alla Infocom, la sua restò una voce importante nel World Wide Web Consortium, l’ente che sviluppò molti degli standard che ancora oggi guidano internet. Di certo non rende onore a Vezza il fatto che la sua pagina di Wikipedia consista quasi esclusivamente nel suo inglorioso mandato alla Infocom, un periodo che probabilmente lui considera poco più che una sgradevole parentesi della sua carriera. Anche noi però siamo principalmente interessati a tale parentesi, benché per adesso ci accontentiamo di tracciare il ritratto di un uomo che era più un amministratore o un burocrate che un hacker, e che era più pragmatico che idealista; un uomo che, in conseguenza di ciò, aveva problemi a relazionarsi con le persone che avrebbe dovuto dirigere.
 
Molte di queste persone avevano nomi che i fan della Infocom hanno imparato a conoscere bene: Dave Lebling, Marc Blank, Stu Galley, Joel Berez, Tim Anderson, ecc. ecc. Come Lick, molte di queste persone erano diventate hacker passando per vie traverse. Lebling, per esempio, aveva conseguito un diploma in scienze politiche prima di venir risucchiato nell’LCS, mentre Blank faceva la spola fra Boston e New York, dove in qualche modo riuscì a completare i suoi studi di medicina pur "hackerando" come un pazzo al MIT. Una cosa però accomuna tutte queste persone: erano in gamba. Del resto all’LCS i cretini erano mal sopportati – anzi, non erano sopportati per niente.
 
Uno dei primi lavori del Dynamic Modeling Group fu la creazione di un nuovo linguaggio di programmazione da utilizzare nei suoi progetti, che (con la tipica impudenza degli hacker) fu chiamato “Muddle” [“bordello”]. Il Muddle divenne rapidamente l’MDL (MIT Design Language) in risposta a qualcuno (Vezza?) che non apprezzava lo humour del Dynamic Modeling Group. Si trattava, in sostanza, di una versione migliorata di un vecchio linguaggio di programmazione sviluppato al MIT da John McCarthy, che era (e resta ancora oggi) il linguaggio favorito dai ricercatori nel campo dell’intelligenza artificiale: il LISP.
 
Forti del MDL, il Dynamic Modeling Group si lanciò in una serie di progetti, individuali o cooperativi. Alcuni di questi progetti avevano anche delle vere applicazioni militari che dovevano strizzare l'occhio a quelle persone che, in ultima analisi, pagavano per tenere in piedi tutta la baracca; Lebling, per esempio, passò un bel po’ di tempo su dei sistemi informatizzati di riconoscimento del codice morse. Ma c’erano anche molti giochi, in alcuni dei quali anche Lebling partecipava, incluso quello più ricordato di tutti, Maze. Maze funzionava in rete, con fino a 8 Imlac PDS-1 (dei microcomputer molto semplici, dotati di primitive capacità grafiche) che fungevano da “client” connessi ad un singolo “server” DEC PDP-10. I giocatori sui PDS-1 potevano navigare attraverso un ambiente condiviso, sparandosi contro; una sorta di antenato di giochi moderni tipo Counter-Strike. Maze divenne un grande successo, nonché un serio problema per i burocrati tipo Vezza; non solo un vero gioco da 8 giocatori spingeva il server PDP-10 ai suoi limiti, ma aveva anche la tendenza a far crashare del tutto questa macchina, che altri dovevano usare per lavorare davvero. Vezza chiese più e più volte che venisse rimosso dai sistemi, ma cercare di imbrigliare il caos del Dynamic Modeling Group era una causa persa in partenza. Fra gli altri progetti “divertenti”, Lebling creò anche un quiz, che permetteva agli utenti di ARPANET di inviare le domande scritte da loro e che alla fine poteva contare su un database di migliaia di domande.
 
E poi, nella primavera del 1977, Adventure arrivò al MIT. Come nei dipartimenti di informatica di tutta la nazione, anche qui il lavoro sostanzialmente si fermò mentre tutti cercavano di risolverlo; alla fine i membri del Dynamic Modeling Group conquistarono quel “last lousy point” [cioè “quell’ultimo disgustoso punto”; ndAncient] con l’aiuto di uno strumento di debugging. Forti di questo risultato, iniziarono (come molti altri hacker, in molti altri luoghi) a pensare a come avrebbero potuto creare un Adventure migliore. A differenza di altri, però, il  Dynamic Modeling Group aveva degli strumenti a portata di mano che lo metteva in una posizione più che unica per riuscirci.

The Digital Antiquarian è un blog, scritto da Jimmy Maher, che si occupa di storia e di cultura del videogioco partendo dall'analisi di singoli videogiochi. OldGamesItalia è lieta di presentarvi la traduzione italiana, autorizzata dall'autore!
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Traduzione a cura di: The Ancient One
Editing a cura di: Festuceto


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Un 1980 Indaffarato
The Digital Antiquarian (traduzione ufficiale italiana)

Abbiamo lasciato Scott Adams alla fine del 1979, impegnato a spingere tutta questa cosa delle avventure al proverbiale “livello successivo”, con un solido catalogo di titoli già disponibili per numerose piattaforme, con il nome più noto di tutta la nascente industria dei giochi per computer, e con una società nuova di zecca (la Adventure International), pronta a pubblicare le opere sue, e quelle di altri, sotto il suo marchio editoriale. L’anno successivo lo vide quindi impegnato a mettere a frutto tutto quel potenziale, e anche di più, per andare così ad occupare un posto di primissimo piano nella nascente industria.
 
La Adventure International negli anni successivi crebbe a passi da gigante, pur restando (come del resto ogni altra cosa toccata da Adams) indelebilmente marchiata dalla personalità del suo fondatore. I suoi cataloghi erano pieni di un’accozzaglia di software di ogni genere. La Adventure International in un certo senso era i Grandi Magazzini dell’industria del software. Oltre alle prevedibili avventure testuali scritte da Adams e da altri (e molte di queste usavano comunque l’engine di Adams), c’erano dei cloni dei titoli da sala giochi (“di gran lunga superiore a ogni altro gioco per il TRS-80 ispirato a Space Invader pubblicato fin qui”, recitava una pubblicità di Invaders Plus, facendo sfoggio più di onestà che di saggezza legale), giochi di strategia spaziale (Galactic Empire e Galactic Trader), programmi di scacchi (“anche se è disponibile una scacchiera visualizzata su schermo, per giocare si consiglia di munirsi di una vera scacchiera.”), adattamenti di giochi da tavolo (Micropoly, anche lui talmente avventato da pubblicizzarsi come un clone del Monopoli già dal testo promozionale), e perfino TRS-80 Opera, che consentiva di ascoltare la ouverture del Guglielmo Tell di Rossini attraverso una radio a transistor posizionata i prossimità del lettore di cassette della macchina (la mancanza di un’adeguata protezione dalle interferenze radio sul TRS-80 non era poi sempre così negativa, dunque…). E, per quando il tempo dello svago era finito, c’erano anche programmi di matematica, spooler di stampa, strumenti per programmare, programmi di disegno, e software educativo (quest’ultimo ovviamente presentava la solita passione per gli Stati e le loro capitali, così comune fra i primi programmatori). Tutto questo software era relativamente poco costoso (solitamente era prezzato $9.95 o $14.95) e di qualità… variabile. E, pur tuttavia, era emozionante camminare per le corsie virtuali dei cataloghi della Adventure International, osservando gli espositori stracolmi dei prodotti di una nuova industria in espansione e chiedendosi quali altre idee pazze (per non dire bislacche) avremmo trovato nella corsia successiva. E, ad aleggiare su tutta questa scena, c’era sempre la personalità straripante di Adams, che sarebbe rimasto per tutta la vita breve ma intensa della Adventure International un capo d’azienda insolitamente visibile (e infatti -leggendo le scritte legali in piccolo sui suoi prodotti- si scopre che la Adventure International in realtà era solo “una divisione della Scott Adams Inc.”).
 
Il 1980 rappresenta un momento cruciale per l’industria del software d’intrattenimento. A parte un paio di eccezioni tipo Microsoft e Automated Simulations, i giochi per computer fino ad allora erano stati distribuiti come prodotti secondari, per mano di soggetti non professionisti che si limitavano ad appendere le loro Ziploc nei negozi di computer locali e che al massimo aderivano ai servizi di distribuzione per hobbisti (tipo quelli delle riviste SoftSide e Creative Computing). Ora invece le compagnie come la Adventure International, e altre che iniziavano ad apparire più o meno contemporaneamente, iniziarono a rendere più professionale il settore. Nel giro di pochi anni i sacchetti Ziploc sarebbero stati sostituiti da dei massicci cartonati colorati, pieni di manuali patinati e altri gadget, e quei “soggetti non professionisti” con gli uffici in camera o in casa sarebbero stati sostituiti da veri studi di sviluppo i cui membri facevano quello di lavoro. I giochi per computer stavano diventando un business vero e proprio, attirando sulla scena più risorse, che presto avrebbero permesso creazioni più grandi e ambiziose di qualunque cosa si fosse vista fino ad allora, ma che al tempo stesso avrebbero complicato le cose e avrebbero inevitabilmente condotto a quella tipica perdita di innocenza che sempre consegue alla monetizzazione di una passione.
 
Alla luce della crescita esplosiva della sua compagnia, non sorprende che la creazione di nuove avventure da parte di Adams avesse subito un drammatico rallentamento. Una parte delle sue energie furono assorbite -e nemmeno questa sarebbe stata l’ultima volta che ciò sarebbe avvenuto!- con la ripubblicazione dei suoi giochi già esistenti. Tutti ricevettero delle illustrazioni di copertina fatte a penna e acquerello grazie a un artista noto solo come “Peppy”, il cui stile colorato, seppur poco rifinito, si adattava perfettamente al folle entusiasmo della prosa di Adams.
 

Nel 1980 la Adventure International pubblico solo due nuove avventure scritte da Adams: la parodia western chiamata Ghost Town a primavera e Savage Island Part One (prima parte di due) a Natale, un'avventura che fu pubblicizzata come abbastanza difficile da risultare impegnativa anche per i giocatori più hardcore fra i giocatori hardcore.
Ho ritenuto di dare un’occhiata più approfondita alla prima di queste due, per vedere quali progressi avesse fatto l’arte di Adams dopo The Count. La risposta, triste ma semplice, è: nessun progresso, davvero. Anzi, ci sono state delle involuzioni da molti punti di vista. L’ambientazione western era evidentemente solo l’ennesima in una lista di generi che Adams intendeva coprire, visto che essa contribuisce ben poco a dare forma all’esperienza di gioco. Ghost Town è una caccia al tesoro senza trama, proprio come Adventureland; come se The Count non ci fosse mai stato: “DROP TRESURES”, e poi “SCORE.” Sigh.
 

 
“LASCIA TESORO e poi PUNTEGGIO”
 
Derubiamo il saloon degli incassi semplicemente perché ci sono.
Doppio-sigh.
 

 
———-> Cosa devo fare?
“VAI AL BANCONE”
OK
“Sono dietro al bancone. Oggetti visibili
Cartello - ‘Suona il campanello per il servizio in camera’
 
———-> Cosa devo fare?
“PRENDI CASSETTA DEI SOLDI”
OK
 
———-> Cosa devo fare?
“GUARDA CASSETTA DEI SOLDI”
OK
Vedo
Niente di speciale
 
Quel che è peggio è che anche come caccia al tesoro Ghost Town non è né divertente, né soddisfacente. Se si escludono un paio di battute (tipo la risposta a VAI SPECCHIO - “Non sono Alice!”), Ghost Town ha perso un po’ di quel calore amichevole che un po’ ci faceva perdonare le incertezze dei primi giochi. L’utile comando HELP, con i suoi velati suggerimenti, è sparito del tutto, mentre gli enigmi sono involuti in una variegata raccolta di peccati di design. Adams ha lentamente fatto impennare la difficoltà dei suoi giochi con ogni titolo successivo che ha scritto, come se si aspettasse che il giocatore li affrontasse in sequenza e arrivasse quindi ben preparato a Ghost Town. Presumo che in astratto possa anche essere un approccio ragionevole, ma nella realtà nessuna preparazione è possibile per gli enigmi di Ghost Town. Perfino quelli meno discutibili richiedono comunque una notevole dose di conoscenze esterne, tipo la composizione della polvere da sparo o la capacità di tradurre il codice morse.
 

 
Sono in un ufficio del telegrafo. Oggetti visibili:
Chiave del telegrafo, filo sbucciato. Grossa cassaforte.
Uscite evidenti: SUD
 
———-> Cosa devo fare? SCRIVI
Non so come “SCRIVERE”.
 
———-> Cosa devo fare? PREMI TASTO
Click
SPARK! * * * *
… …. .- -.- - - --- .--. .--. . .--.
 
Inutile dire che nel 1980, quando ancora Wikipedia non era a un click di distanza da noi, questo genere di cose poteva richiedere una spedizione in biblioteca. Altri enigmi invece ci richiedono di visualizzare la stanza in questione esattamente come Adams se l’era raffigurata, nonostante le sue celeberrime descrizioni minimali, solitamente limitate all'elenco degli oggetti all’interno.
Altri ancora ricompensano invece la cieca caparbietà del giocatore, piuttosto che le sue intuizioni, come quello che ci costringe a trascinarci un badile per tutta la mappa, provando a scavare in ogni singola stanza sperando che sbuchi fuori qualcosa. E poi ancora -forse il peggiore di tutti-  vanno menzionate le infinite battaglie con il parser. Non voglio nemmeno pensare a quanto tempo potrebbe servire al giocatore medio per intuire che per far muovere il cavallo deve dire GIDYUP. Né voglio pensare a quante volte siano stati mischiati inutilmente insieme carbone, zolfo, e nitrato di potassio prima di aver finalmente scritto FAI POLVERE DA SPARO. A volte il parser sembra non solo tecnicamente limitato, ma anche volutamente crudele!
 
 
Sono in una merceria. Oggetti visibili:
Ferro di cavallo. Grande campanella. *PROIETTILE D'ARGENTO* *DERRINGER D'ORO* Cartello. *SPERONI D'ARGENTO*. Cappello da Cowboy. Chiave piccola. Barilotto di polvere da sparo. Chiodi. Martello.
Uscite evidenti: NORD
 
———-> Cosa devo fare? RIEMPI BARILOTTO
OK
con cosa?
 
———-> Cosa devo fare? CON POLVERE DA SPARO
 
Scrivere solo POLVERE DA SPARO, invece che CON POLVERE DA SPARO al prompt di cui sopra restituisce un messaggio d'errore generico.
La mia esperienza con Ghost Town rafforza sempre di più in me l'idea che questi primissimi giochi erano semplicemente troppo limitati tecnologicamente per poter supportare degli enigmi complessi che fossero al tempo stesso anche equi e affrontabili con la logica, col risultato che -volendone aumentare la difficoltà oltre una certa soglia molto bassa- si ricadeva inevitabilmente in assurdità, che infatti abbondano in Ghost Town e nel finale di Adventure.
 
È forte la tentazione di concludere che Adams semplicemente non avesse quella visione che sarebbe stata necessaria per poter spingere ancora oltre le avventure testuali. È una tentazione, ma probabilmente non sarebbe corretto. Per un paio di anni Adams tenne una rubrica sulla rivista SoftSide. Nel novembre del 1980 annunciò che aveva in progetto un nuovo sistema per avventure testuali chiamato Odyssey, che si sarebbe avvantaggiato dei sistemi dotati di floppy drive nello stesso modo utilizzato da Microsoft Adventure, e cioè utilizzando lo spazio sui dischetti come memoria ausiliare. I suoi progetti erano a dir poco ambiziosi:
 
“1. A ogni 'Odyssey' potranno partecipare più giocatori contemporaneamente. E ogni giocatore potrà aiutare o ostacolare, come meglio crede!
2. Frasi complete, invece del solito "linguaggio da bambini". Ad esempio: "Metti gli zoccoli al cavallo con il ferro da cavallo e il martello e i chiodi."
3. Messaggi di risposta più lunghi.
4. Effetti sonori
5. Trame più ampie.
Per sviluppare questo sistema in realtà ho dovuto prima sviluppare un nuovo linguaggio per computer che ho chiamato OIL ('Odyssey Interpretive Language'), che viene implementato da uno speciale assembler Odyssey, che  genera il codice macchina per Odyssey. Questo codice macchina viene poi implementato su ognuno dei diversi microcomputer (es. Apple, TRS-80, ecc.) attraverso uno speciale emulatore host che simula il mio (inesistente) computer Odyssey.
Attualmente (scrivo dal Washington Computer Show, ed è il Settembre del 1980) il sistema è nelle fasi finali di implementazione dell'emulatore host su un TRS-80 32 K a dischetti, e sto già scrivendo la prima 'Odyssey' (che ho già abbozzato e che è provvisoriamente intitolata Martian Odyssey) in OIL proprio per tale emulatore. Spero che quando voi starete leggendo queste righe, Odyssey Number One sia già disponibile nel vostro negozio di fiducia o nel catalogo del vostro servizio di acquisti per posta preferito."
 
Il concetto tecnico dietro Odyssey è incredibilmente simile a quello che sarebbe stato utilizzato di lì a poco da una minuscola startup del Massachusetts chiamata Infocom. È però interessante notare che Marc Blank e Stu Galley della Infocom avevano già delineato in astratto le basi della loro virtual machine, la  “Z-Machine”, in un articolo su Creative Computing [Il link non è più attivo, pertanto non è stato possibile recuperare l'articolo] giusto un paio di mesi prima che Adams scrivesse queste righe. Che sia stato ispirato proprio da quell'articolo?
 
Quale che sia la risposta, Martian Odyssey non ha mai fatto la sua apparizione sulle scene e -per quanto ne so- Adams non ha mai più parlato del suo sistema Odyssey. Nel bene o (decisamente) nel male, Adams scelse di restare fedele a ciò che lo aveva portato fin lì: cacce al tesoro giocabili su computer di fascia bassa a 16 K equipaggiati solo con lettori di cassette.
Tale strategia rimase profittevole per qualche altro anno ancora, ma è difficile oggi non chiedersi dove lo avrebbe portato la strada che scelsce di non intraprendere, il territorio che cedette senza combattere alla Infocom e agli altri. Dal 1980 in poi, Adams è più interessante come uomo d'affari e come facilitatore delle opere altrui, che come artista di software vero e proprio. Al riguardo, la prossima volta vi voglio parlare un po' di qualche altra creazione interessante che affiancava le avventure di Adams nel guazzabuglio del catalogo della Adventure International.
 
Se volete provare Ghost Town, ecco qui una versione [Il link non è più attivo, per cui non è attualmente possibile reperire il file] che potete caricare nell'emulatore MESS utilizzando la funzione “Devices -> Quickload”.

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