RiME

Una tempesta in mare aperto, un mantello rosso vola nel vento tra scrosci di pioggia e lampi. Poi, d'un tratto, sole e cielo azzurro, rovine all'orizzonte, una spiaggia tranquilla e un ragazzo disteso, forse il sopravvissuto di un naufragio che è solo intuito, ma non mostrato.

Inizia con poche, semplici scene RiME, l'action adventure creato dagli spagnoli Tequila Works ed edito da Grey Box Games. E se non fossimo stati noi stessi a lanciare il gioco, ci saremmo forse scervellati nel tentativo di capire se non fosse per caso un sequel di ICO, o un fan-remake di Link's Awakening (con i personaggi cambiati per non incorrere nelle ire di Nintendo), o magari di un Journey un po' meno mistico, o, perché no, di un The Witness in terza persona.
RiME infatti non fa nulla per nascondere le sue fonti d'ispirazione, che anzi sfoggia quasi con orgoglio nel suo "salire sulle spalle dei giganti", come diceva il buon vecchio Bernardo di Chartres (poi ripreso da quel mangia-pomi di Isaac Newton. Ne riprende sicuramente i temi principali, come l'esplorazione o la desolazione onirica di un mondo sempre a metà tra realtà e sogno. E anche l'iconografia non si discosta poi molto dai modelli a cui si rifà così strettamente.

RiME è sicuramente un gioco che colpisce, sia nel profondo grazie a un simbolismo dapprima velato, ma poi sempre più evidente, che va a toccare temi profondi: sotto una facciata all'apparenza briosa e piena di vita, si insinuano accenni a temi più oscuri, come la morte e l'espiazione di colpe e peccati.
Anche a un livello più puramente sensoriale, RiME sa come toccare i tasti giusti. La grafica, infatti, pur non essendo dotata di texture all'ultimo grido è stata realizzata seguendo una direzione artistica che valorizza l'insieme più che i dettagli: poligoni scolpiti quanto basta e colori piatti, ma molto saturi e "pieni". Il mantello rosso è una costante, quasi una fiammella accesa ad attirare sempre l'attenzione del giocatore, ma sono memorabili anche l'azzurro del cielo, i caldi arancioni e i toni più scuri delle fasi più avanzate del gioco. E poi grandi strutture in rovina che si stagliano all'orizzonte, che diventano non solo parte del panorama, ma si offrono agli occhi come un obiettivo da raggiungere, sempre seguendo la regola che i Tequila si sono autoimposti, ovvero guidare il giocatore senza (quasi) mai interrompere la sospensione d'incredulità.
Anche la colonna sonora non manca di stupire, con brani molto ben realizzati (tra cui una vera e propria canzone, cantata in spagnolo, lingua madre dei programmatori) e che sembrano quasi seguire il giocatore nel suo incedere: dapprima timidi e appena accennati, poi sempre più presenti e intensi, andando quasi a sopperire al progressivo oscurarsi dei colori.

Vista, mente e udito sono dunque appagati, ma cosa dire del "tatto"? Come si gioca, insomma, questo RiME?
Per agevolare l'immersione del giocatore, l'interfaccia è ridotta a qualche sporadico pop-up dei tasti da premere e l'intero processo di apprendimento è affidato all'osservazione e alla sperimentazione: un tutorial muto, per un gioco in cui non esistono dialoghi, ma tutto è raccontato tramite gestualità, immagini e segni.
Pochi semplici comandi sono usati per interagire con questo mondo misterioso: salto, capovolta, azione e "canto". Quest'ultimo serve per far scattare meccanismi e trabocchetti, diventanto quindi il centro di numerosi puzzle sparsi lungo l'avventura. Tali enigmi sono spesso fisici, dal momento che coinvolgono lo spostamento di parti dello scenario, attivando piattaforme e interruttori; niente di davvero innovativo o complesso, ma un buon modo per spezzare il ritmo tra una lunga fase esplorativa e l'altra.
Più che di esplorazione, bisognerebbe però parlare di avanzamento. RiME si presenta come un open world, ma a ben guardare (e senza sorprendersi troppo) ci si accorge di essere strettamente incanalati lungo un percorso retto che ammette poche deviazioni e di sicuro nessuna scorciatoia. Per mascherare un po' la sensazione di linearità, gli sviluppatori hanno aggiunto molte fasi "action", che hanno il focus principali nelle lunghe arrampicate a cui il protagonista è costretto per raggiungere la "tappa" successiva. È qui che RiME mostra qualche pecca: non solo le scalate sono solo un diverso modo di presentare un procedere di tipo lineare (il gioco guida verso quel percorso e la mancanza di una barra dell'energia non mette alcun tipo di urgenza nelle azioni del giocatore), ma anche i comandi non rispondono come dovrebbero: un certo ritardo nel riconoscere l'input e la non perfetta armonia tra inquadratura e direzione da dare al personaggio portano a quelle che, in un gioco virtualmente senza combattimenti, sono le "morti" più frequenti in RiME: quelle per caduta accidentale.

Comandi imprecisi, linearità e poca originalità non sono però difetti in grado di affossare le qualità che comunque RiME così chiaramente offre al giocatore. La cosa che ci va più vicina è invece una delle scelte più incomprensibili messe in pratica dagli sviluppatori: l'oscurità che caratterizza buona parte del gioco. Dopo un inizio brillante (sia come luminosità che come meccaniche), RiME diventa sempre più buio, al punto che l'intero schermo, protagonista a parte, è completamente nero. Ciò significa che tutto il lavoro fatto per ricreare quel bel mondo visto nelle prime fasi, svanisce di colpo. E al suo posto subentra la frustrazione di non avere idea di dove ci si trovi o del percorso da seguire. È una sensazione così fastidiosa che la pulsione a gettar via il controller è talmente forte da far dimenticare tutte le buone cose che questo titolo porta con sé. E aumentare la luminosità dello schermo non è servito a nulla.

È dunque con non pochi dubbi che ci si ritrova a dover dare un giudizio a questo magnum opus dei giovani programmatori spagnoli. Da una parte si vorrebbe lodare l'insieme, l'idea e l'aver creato un'opera che sa colpire. Dall'altra si vedono i troppi richiami a giochi celeberrimi, ci si accorge dei comandi poco precisi, ci si infuria per le aree buie. Alla fine, tuttavia, si è deciso di premiare i Tequila Works per essere stati in grado di creare un titolo di sicuro pregio e che può diventare, nonostante i suoi difetti, uno di quei giochi che si ricordano con piacere anche a distanza di anni (soprattutto per chi si avvicina solo adesso al mondo dei VG).
Il voto massimo che OGI assegna a RiME non è forse quello che ne identifica meglio la qualità, ma vuole comunque essere un incoraggiamento per gli sviluppatori a continuare su questa strada.

 

Shadow of the Colossus

Vita. Morte. Amore. Luce. Oscurità. Shadow of the Colossus è questo e molto di più. Shadow of the Colossus è poesia, è un’opera immensa, è un’esperienza da vivere, è (cosa molto rara di questi tempi) emozione. Ma facciamo un passo indietro.

Uscito nel 2005 in Nord America e in Giappone, e nel 2006 in Europa, Shadow of the Colossus (da ora in poi SOTC) è il parto della mente di Fumito Ueda, game designer che, con solo due giochi all’attivo e uno annunciato nel 2009 ma ancora in via di sviluppo, è riuscito a guadagnarsi una schiera di fan che lo adorano e lo venerano come pochi altri. Il primo gioco, quello che lo ha fatto conoscere al mondo nel 2001, si chiama ICO (recensito su questo sito) e SOTC, contrariamente a quanto si pensi, ne costituisce un prequel, dettaglio rivelato solamente alla fine del gioco da un particolare evento, che non svelerò per non fare spoiler.

Protagonista del gioco è un ragazzo di nome Wander (cambiato erroneamente in Wanda nella versione europea, facendone così perdere il significato) che vediamo all’inizio in sella al suo cavallo Agro recarsi verso un enorme santuario. Porta con sé il corpo senza vita di una fanciulla, nella speranza di poterla resuscitare. Una volta posato il suo cadavere su di un altare, una voce proveniente da un buco circolare sul soffitto comincia a parlare. Si tratta di Dormin, un’entità che sembra essere sia maschile che femminile allo stesso tempo e a cui Wander chiede di poter far tornare in vita la ragazza. Dormin accetta, a patto che lui distrugga tutte e sedici le statue che adornano la sala in cui si trova, e l’unico modo per farlo è uccidere i colossi che vi sono rappresentati. Wander parte così alla ricerca dei colossi, con l’obiettivo di distruggere queste enormi creature.

Dopo questa introduzione ci ritroviamo finalmente a controllare il nostro personaggio in quello che sarà un viaggio disperato all’interno di una terra desolata e senza speranza. Il nostro unico equipaggiamento sarà un arco, una spada e il nostro fidato cavallo Agro. La nostra spada è uno degli elementi fondamentali del gioco. Chiamata ‘l’antica spada’ da Dormin, se alzata in una zona illuminata dal sole ci mostrerà, attraverso un raggio di luce, la direzione in cui si trova il colosso che dobbiamo andare a uccidere, mentre, dinanzi al colosso stesso, ce ne mostrerà i punti vitali che dovremo trafiggere per poterlo abbattere. Altro elemento fondamentale è il nostro cavallo. I colossi sono sparsi qua e là per tutta la mappa, che è davvero enorme, e per raggiungerli avremo un estremo bisogno del nostro compagno di viaggio, che ci seguirà se andiamo a piedi, ci raggiungerà se lo chiamiamo e ci sarà molto utile contro determinati colossi. Particolarità di questa meccanica è che, una volta saliti in groppa, a differenza di titoli come Assassin’s Creed o Red Dead Redemption, non controlleremo il cavallo, ma controlleremo Wander che controlla il cavallo. Questo ci permetterà, oltre a comandare le redini, di alzarci in piedi sulla groppa di Agro, sporgerci da una parte o dall’altra o saltare durante il galoppo, cosa che ci farà arrivare molto più in alto che con un normale salto.

Finora ho parlato molto di questi colossi, ma cosa sono veramente? Sono le uniche creature che incontreremo durante il nostro viaggio. Negli open world di oggi siamo abituati a incontrare qualsiasi genere di cose/persone: amici, nemici, passanti, animali, edifici e chi più ne ha più ne metta. Il mondo di SOTC invece è completamente vuoto, a parte questi enormi colossi (e dei piccoli animali come lucertole e tartarughe). Essi sono allo stesso tempo i boss e i livelli di gioco in cui questi boss si trovano. Sono dei veri e propri rompicapo, delle sfide da superare usando l’ingegno, non la forza, nonostante la loro mole spaventosa e minacciosa. Per poterli abbattere, bisogna innanzitutto trovare i loro punti deboli utilizzando il raggio della spada quando possibile (alcuni infatti sono rinchiusi in zone in cui la luce solare non è presente), in seguito dobbiamo riuscire a trovare un modo per poterli scalare e poter così raggiungere questi punti che bisogna infine trafiggere con la spada. Ogni colosso è diverso dall’altro, quindi ogni volta dovremo ripartire da zero e affrontare il boss di turno come se fosse il primo. Non esiste un modo facile o veloce, né un modo sicuro. Solo il nostro acume e il nostro intuito potranno aiutarci.

Arrampicarsi su per questi colossi è, visivamente parlando, qualcosa di straordinario. Ancora oggi, a distanza di quasi dieci anni, si rimane a bocca aperta nel vedere Wander aggrapparsi a qualsiasi appiglio che riesce a trovare (molto tempo prima di Assassin’s Creed). Pelo, spuntoni di roccia, parti del corpo, tutto è utile per arrivare in cima, nei punti in cui il colosso è più debole. Le animazioni superano di gran lunga quelle di molti giochi della nuova generazione dando un tocco molto realistico al tutto. Quando i colossi si scuoteranno per cercare di farci cadere, il nostro personaggio barcollerà, cadrà, cercherà di rialzarsi, cadrà ancora, si aggrapperà quando potrà e noi saremo così presi dal realismo creato dai ragazzi del Team ICO che ci verrà l’istinto di stringere più forte il controller per cercare di mantenere salda la nostra presa sul colosso stesso. Una volta abbattuto il boss di turno, non verrà mostrato un filmato in cui si esalta la vittoria, non c’è nessun motivetto trionfale ad accompagnare il nostro successo. Al contrario, una breve sequenza ci farà assistere in maniera alquanto brutale alla morte della povera creatura, alla sua caduta e alla sua disfatta, per poi venire trasportati nuovamente al santuario dopo essere stati colpiti da degli strani raggi oscuri provenienti dal cadavere del colosso.

Tutto questo ha sempre suscitato in me dei sentimenti contrastanti. Da una parte c’è la gioia per la vittoria e per l’avvicinarsi della nostra meta, c’è la soddisfazione di essere riuscito a scalare l’ennesima montagna e aver capito come sconfiggerla. Dall’altra però c’è la sensazione, che raramente ho provato in altri videogiochi, di essere io il villain. Cosa hanno fatto i colossi? Niente. Perché li vogliamo uccidere? Per un nostro tornaconto personale. Se ne stanno tranquilli a farsi i fatti loro, in alcuni casi se non li attacchiamo noi per primi neanche se ne accorgono che ci siamo avvicinati. Noi li cerchiamo, li cacciamo, li uccidiamo solo perché così ci è stato detto, senza fare domande, senza pensare che quelle povere creature magari non hanno mai fatto niente di male a nessuno e vivevano la loro vita in tutta tranquillità. Sedici esseri sacrificati per poterne riportare in vita soltanto uno. Se questo non vi fa venire dei rimorsi di coscienza, allora siete degli insensibili.

Come già detto in precedenza, per raggiungere il nostro obiettivo dobbiamo attraversare in lungo e in largo le terre proibite. Queste costituiscono un mondo di gioco vasto e vario. Si passa da lande desertiche a foreste, da antiche costruzioni a enormi specchi d’acqua, da verdi prati a zone rocciose, il tutto con una continuità e una naturalezza da poter essere scambiate per una zona realmente esistente nel nostro mondo. Ogni tanto si incontreranno dei piccoli templi che permetteranno al giocatore, tramite la preghiera, di salvare i dati di gioco, cosa molto utile se si sta cercando di raggiungere un colosso molto lontano dal santuario. Lo ripeto, il mondo di SOTC è completamente vuoto, ma non per questo è un mondo noioso, che necessita solo di essere attraversato il più in fretta possibile. Questo mondo vuoto riesce a catturare l’attenzione del giocatore con la sua cura maniacale per i particolari, con il suo realismo, con la sua naturale bellezza. Per la prima volta in vita mia, mi sono ritrovato a percorrere un intero mondo di gioco solo per il gusto di farlo, per vedere cosa altro si nascondesse, cosa erano riusciti a cerare gli sviluppatori, per cercarne i segreti, o solo per ammirare Agro galoppare con la criniera e le nostre vesti che si muovono nel vento.

In conclusione, SOTC è quella che tranquillamente possiamo definire un’opera, un must che tutti i possessori di PlayStation possono tranquillamente recuperare per PS3 sullo store Sony. È uno dei pochi titoli degli ultimi anni capace di far vivere al giocatore un’esperienza che ricorderanno per molto tempo. È un’avventura che vi saprà rapire e trascinare fino al sorprendente e inquietante finale. Fate però attenzione. Se vi piacciono i giochi frenetici il cui unico scopo è uccidere più nemici possibile per salire di punteggio e aumentare di livello, allora SOTC non fa per voi. Se invece cercate qualcosa di più da un videogioco, se cercate la sfida, la riflessione, l’epicità degli scontri, l’esplorazione, l’ammirazione, l’emozione, allora non potete farvelo sfuggire.

Vita. Morte. Amore. Luce. Oscurità. Shadow of the Colossus è questo e molto di più. Shadow of the Colossus è poesia, è un’opera immensa, è un’esperienza da vivere, è (cosa molto rara di questi tempi) emozione.

La gioia nevrotica del giocare
Titolo originale: The Neurotic Joy of Gaming

Vi proponiamo oggi la traduzione di un pezzo scritto da Chris "Artful Gamer", autore di un blog dove potete trovare diversi spunti di riflessione interessanti e che siamo sicuri potrà diventare uno dei vostri punti di riferimento nel prossimo futuro qualora amiate leggere qualcosa che vada aldilà di semplici recensioni o soluzioni.

In "La gioia nevrotica del giocare", sapientamente tradotto da The Ancient One, analizzeremo infatti il cosa e il perchè ci spinge a giocare, a prendere in mano giorno dopo giorno quegli strumenti fondanti della nostra passione.

Curiosi di conoscere la risposta? Non vi resta che proseguire nella lettura..




Teniamolo d'occhio: Journey

Un deserto sconfinato, rovine ancestrali e un viaggiatore solitario... tutto questo è Journey, l'imminente gioco per PS3 prodotto da thatgamecompany, la software house già famosa per flOw e Flower. Si tratta di un titolo per molti versi misterioso, e proprio questo mistero sembra alla base del suo fascino: chi è il viaggiatore? cosa rappresentano il deserto e le rovine? Chissà se Journey darà risposta a queste domande o lascerà che sia il giocatore (magari affiancato da un compagno incontrato casualmente tra le dune) a crearsi il proprio viaggio esteriore ed interiore...

Sia come sia, l'interesse per un gioco che sembra discostarsi dai canoni e le cui atmosfere ricordano vagamente quelle di Shadow of the Colossus è ormai alle stelle. Le uniche perplessità? Il sistema di controllo basato sui sensori di movimento (ormai un segno distintivo di questa SH) e la data d'uscita, ancora fin troppo vaga (2011). Per la prima, andrà a gusti. Per la seconda c'è poco da fare, visto che l'annunciata beta online sarà riservata solo a pochi eletti.

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Ico

Poesia Digitale.
Ico è una favola, una poesia.
Ico è un bambino che la sorte ha dotato, per sua sfortuna, di un paio di corna in testa.
Un evento che la profezia descriveva come nefasto, ed evitabile solo chiudendo il piccolo nella Fortezza, l’enorme castello a picco sul mare, a morire di stenti chiuso in un sarcofago di pietra come gli altri cornuti prima di lui.
E a giudicare dal numero di sarcofagi che troverete nella stanza, molti vi hanno preceduto in questa triste sorte…
Ma proprio il destino ha in serbo qualcosa di diverso per Ico, e così una scossa di terremoto lo libera da quella che sarebbe stata la sua tomba, solo per proiettarlo in una prigione mastodontica, enorme, che sarà il vero (ma non unico) nemico da affrontare durante il gioco.

Ico è infatti un’avventura nel senso più letterale del termine, un viaggio attraverso i bastioni, le stanze ed i corridoi di questo immenso e bellissimo avversario alla ricerca di un modo per tornare alla libertà.


Uno scorcio della fortezza-prigione...


In due si esplora meglio...
Per sua fortuna il piccolo non resterà solo per molto, infatti scoprirà che la Fortezza racchiude altre presenze, la prima che incontrerete delle quali sarà la pallida ed eterea Yorda, una bambina che parla un linguaggio incomprensibile ma che si rivelerà essenziale per proseguire nell’esplorazione.

E proprio il “rapporto” tra Ico e Yorda è il perno su cui il gioco si fonda; Yorda infatti è “la chiave” delle porte della fortezza, ma è anche il principale obbiettivo delle ombre che si aggirano fra le stanze del castello, creature nere che cercheranno di rapirla coinvolgendovi nel contempo in disperati scontri che vi vedranno quasi sempre in minoranza numerica; la vostra “chiave” sarà quindi anche il vostro principale punto debole, da proteggere, cercare e salvare prima che venga inghiottita dalle voragini da cui le ombre provengono.


Il vento sibila tra i bastioni, e la libertà si scorge oltre le mura.


I.A. di una bambina.
Questo sarebbe potuto essere fonte di noia e frustrazione per il giocatore, invece l’azione in-game rivela un bilanciamento fuori dal comune.
Infatti, pur se il numero di presenze ostili sarà sempre sbilanciato rispetto alla poca attitudine di Ico al combattimento, l’I.A. di Yorda è perfettamente calibrata per proteggersi: nei suoi limiti la bambina cercherà sempre di mantenervi fra lei e gli avversari, e se sarà sul punto di sparire nelle ombre non esiterà a chiamarvi.
Anche le dinamiche delle fasi esplorative sono arricchite dalla presenza della piccola: normalmente vi accompagnerete mano nella mano, ma non di rado sarete costretti a separarvi per cercare (o creare) un passaggio di cui anche lei possa usufruire; potrete chiamarla a voi in qualunque momento e lei farà di tutto per raggiungervi, o si lamenterà se questo le risultasse impossibile e tutto questo contribuirà ad aumentare l’enorme carica emotiva del gioco: il continuo contatto e rapporto con Yorda vi spingerà presto a stabilire un legame ben più profondo della mèra utilità funzionale, e comincerete a preoccuparvi per lei ogni volta che la vostra mano non stringerà la sua.


Puzzle solving alle luci del pomeriggio...


Guardare, ascoltare, muoversi in un sogno.
Dal punto di vista grafico Ico impressiona e stupisce: l’imponente fortezza è rappresentata in tutta la sua maestosa solitudine con giochi di luce e scorci veramente suggestivi;
La “fragilità” dei personaggi principali non fa che accrescere la sensazione di solidità delle strutture che vi circondano; fragilità che le animazioni di Ico e Yorda, frutto di un sapiente utilizzo della cinematica inversa, non fanno che accentuare, in un continuo strattonarsi, correre e issarsi vicendevolmente che lascia trasparire una cura impressionante nel voler mostrare la flebile “fisicità” dei due protagonisti.
Il tutto è poi circondato da un'atmosfera onirica che spande le sue luci in paesaggi commoventi nella loro bellezza.

Il sonoro in-game, minimale ma studiatissimo (la stupenda colonna sonora è di Michiru Oshima, ndBeren), non fa che amplificare la sensazione di abbandono, con echi nelle enormi sale interne e folate di vento mentre si passano i camminatoi che circondano il castello, e una stupenda collezione di effetti naturali caratterizza i tratti di giardino e gli ambienti aperti.
I titoli di testa e di coda del gioco sono invece accompagnati da un bellissimo tema ascoltabile nella home page giapponese del gioco.

I controlli sono semplici ed assolutamente intuitivi, e comincerete immediatamente a muovervi ed interagire con Yorda con naturalezza; i comandi in combattimento non sono molti, ma non è certo questo il fulcro del gioco.
Ico dal canto suo corre, si arrampica, salta, scala esattamente come farebbe un bambino della sua età, rendendo l’esplorazione piacevole e affascinante anche nei passaggi più complessi.

Lo ricorderemo per...
...essere riuscito a far sospirare e commuovere tutti i detrattori del videogioco come forma d'arte.

In breve...
Ico è un sogno, una fiaba in cui perdersi, capace di far provare emozioni vere quali solitudine, abbandono e affetto come nessun altro gioco aveva fatto finora;
Vi garantisco che, nonostante purtroppo non duri molto (anche se, nell’edizione PAL la rigiocabilità è stata aumentata permettendo, una volta finito il gioco, di rigiocarlo in due, il primo ai comandi di Ico ed il secondo con Yorda, il cui linguaggio sarà finalmente comprensibile…), vederne la fine vi lascerà con un malinconico sorriso impresso sul volto ma soprattutto nel cuore.