“Never Alone” nasce come capostipite di un progetto di Gloria O’Neill, CEO del Cook Inlet Tribal Council, finalizzato a raccontare le tradizioni e le storie dei nativi americani attraverso il medium videoludico. Collaborando con un veterano dell’industria (Sean Vesce, game designer di vecchie perle come “Defender of the Crown” [!] e di “Pitfall: The Mayan Adventure”), fonda una software house - la Upper One Games - in cui riunisce un gruppo di indigeni-sviluppatori con l'ambizioso obiettivo di conservare la genuinità delle opere, al riparo da filtri e stereotipi.
Il primo parto di questa operazione segue le vicende di Nuna, una bambina animata dall’intento di scoprire l’origine della tempesta di neve che si è abbattuta sul suo villaggio. La giovane protagonista incontra sul suo cammino una volpe artica e solo combinando le abilità di entrambe sarà possibile superare i vari enigmi ambientali.
Dal punto di vista ludico si è di fronte a una realizzazione di media qualità. I controlli lenti (con alcune azioni inutilmente difficili da eseguire, come il lancio preciso delle bolas) e una certa ripetitività negli enigmi (soprattutto in seguito all’upgrade della volpe che rende possibile agire sugli spiriti della natura) possono infastidire, ma è la scarsa IA del personaggio che non si adopera in quel momento a pesare maggiormente. Il problema è aggirabile giocando in due sulla stessa macchina, ma si tratta di un’esperienza per pochi.
L’elemento di maggior interesse di “Never Alone” è quindi costituito dai riferimenti alle antiche tradizioni dei nativi americani che compongono la spina dorsale dell’avventura, un tema davvero poco battuto nei videogiochi. Il viaggio fantastico di Nuna riprende infatti le storie e il folclore del popolo Iñupiaq fondendosi perfettamente col gameplay ed evitando quell’effetto di ‘dissonanza’ tipico dei prodotti dagli intenti simili. Il risultato è talmente buono che i vari filmati di approfondimento sbloccabili (in larga parte composti dai racconti dei nativi) diventano parte integrante dell’esperienza e, probabilmente, il punto di forza maggiore dell’opera.
Si può dire che ascoltare le vite degli Iñupiaq (caratterizzate da un rapporto simbiotico con la terra e la natura) e le loro storie tramandate nel corso dei secoli riesca a nobilitare un gioco non certo eccezionale.
Affascinante e spirituale, “Never Alone” rappresenta un ottimo punto di incontro fra divulgazione e divertimento. Un precedente importante.
INTERESSOMETRO: 4 punti su 5
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Interfaccia non pulitissima, diversi bug fastidiosi (anche bloccanti), esplorazione degli ambienti a volte un po’ dispersiva, elemento action dozzinale e ridondante.
Questo era per volere di completezza. Per parlare di “The Fall” in termini contenutistici, infatti, occorre evitare di vivisezionare l’opera in ognuno dei suoi aspetti - in particolar modo quelli tecnici - e andare diritti al suo cuore, pulsante e orgogliosamente indie.
La trama: un misterioso astronauta si ritrova ferito e privo di sensi in seguito a un atterraggio di fortuna (la ‘caduta’ del titolo) in un ambiente alieno e opprimente. Il computer della sua tuta spaziale, un’IA di nome ARID (che il giocatore è chiamato a interpretare), parte quindi per la sua missione che consiste nell’entrare in possesso dell’equipaggiamento medico necessario a curare l’umano all’interno.
Sotto una parvenza da action adventure, il titolo – nato grazie al crowdfunding - nasconde un’anima puramente adventure che costituisce circa l’80% dell’esperienza globale: raccolta di oggetti, lettura di documenti, puzzle ambientali e di inventario, esplorazione minuziosa delle room, dialoghi a scelta multipla, ragionamento laterale e perfino una spruzzata di pixel hunting - c’è praticamente tutto ciò che ci si aspetta di trovare in un’avventura grafica. Riuscire a rispettare tutti gli elementi cardine del genere declinandolo però attraverso una facciata atipica conferisce a “The Fall” un’imprevista freschezza, che resta tale anche grazie alla breve durata dell’esperienza.
Dal concept pesantemente asimoviano, il racconto è però senza dubbio la caratteristica più interessante della produzione. Facendo leva su un’ottima scrittura tanto nei dialoghi che nella ‘regia’, il gioco propone diverse soluzioni visive ben integrate (a cominciare dal menu) ed enigmi inventivi, la cui risoluzione si sposa perfettamente col sottotesto narrativo. Ed è proprio su questo fronte che l’avventura scocca le sue frecce migliori, fra cui spicca l’incontro/scontro fra due modi diversi di interpretare un’IA: entrambe – a loro modo - fedeli alla programmazione; ma una diretta, granitica ed essenziale, l’altra - imitando il linguaggio umano - più informale, malleabile e amichevole.
“The Fall” affronta argomenti come fede, libero arbitrio e istinto di sopravvivenza con estrema grazia, delineando un percorso evolutivo della protagonista tanto affascinante quanto credibile, il cui stadio finale della sua consapevolezza come essere vivente coincide con la bellissima conclusione, quadrata e ‘giusta’: perfetta. To be continued, ma va benissimo anche così.
Spettrale, intelligente, profondo. Forse non molto divertente, ma che importa?
INTERESSOMETRO: 4 punti su 5.
L’alternativa malata del god game? Impersonare un demone malefico dalle enormi manie di grandezza impegnato a devastare un’idilliaca regione, torturando e uccidendo gli incauti eroi che si avventurano nel suo dungeon e spronando i patetici succubi a lavorare più velocemente a suon di manrovesci.
Concettualmente non così diverso dal contemporaneo “Theme Hospital”, l’idea alla base di “Dungeon Keeper” è quella di esaltare e parodiare gli stereotipi del genere e poi riproporli in chiave umoristica, rappresentando cioè il Male in maniera tanto eccessiva da provocare immediata simpatia. La divinità diabolica di “Dungeon Keeper”, infatti, non ha bisogno di motivazioni plausibili per giustificare la distruzione del mondo, ma semplicemente tale atteggiamento rappresenta la sua natura: una genuinità spiazzante ma tenera che all’istante ci fa parteggiare per i ‘cattivi’. Allo stesso modo, gli eroi mandati ad affrontarci appaiono ridicolmente ottusi, appesantiti dalla classica armatura scintillante e ovviamente biondi: insomma, perfetta carne da macello per il nostro fetido esercito composto da demoni, scheletri, vampiri, ragni e troll.
Il gioco richiede un approccio strategico che riesce a rendere il gameplay interessante quanto basta (nonostante un’IA decisamente non sopraffina), ma è il concept stesso (e il suo brillante sviluppo) a fare di “Dungeon Keeper” la piccola perla che ancora oggi si lascia provare col sorriso sulle labbra.
Per esempio, una missione tipica richiede di accaparrarci in fretta le gemme preziose in modo da riempire costantemente i forzieri del nostro reame, utili a costruire tane molto capienti e sale di addestramento più efficaci: lo scopo è naturalmente quello di ottenere degli abilissimi servi malefici da scagliare con successo contro i noiosissimi ‘buoni’, magari incenerendoli nel contempo con saette lanciate dall’alto della nostra potenza.
Le numerose trovate non danno tregua. La sala delle torture con la quale ‘convertire’ i nemici, la micidiale possessione delle creature (che attiva una soggettiva diversa a seconda del tipo di essere che si controlla), il tempio all’interno del quale si sacrificano i sudditi per compiacere gli dèi, le battute ‘eroiche’ dei cavalieri mandati a sfidare il male, l’avatar di “Ultima” come boss finale: “Dungeon Keeper” può forse peccare nella varietà delle missioni ma di certo non manca di inventiva.
Controllare e sottomettere le legioni demoniache è il guilty pleasure per eccellenza, e non a caso il lavoro del team della Bullfrog (per l’ultima volta capeggiato da Peter Molyneux) ha ispirato molti titoli futuri (incluso il suo snaturante remake per dispositivi mobile). L’Interessometro vibra euforicamente, ma forse siamo troppo occupati ad annientare l’ultima piantina del reame incantato e a sfoggiare la classica risatina diabolica mentre l’ultimo eroe viene spedito all’inferno per accorgercene.
INTERESSOMETRO: 4 punti su 5.
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IntrOGI: L'introduzione di Dungeon Keeper
Il sottoscritto ammette le sue carenze culturali affermando di non conoscere in maniera approfondita l’universo dei jrpg (giochi di ruolo alla giapponese), genere in cui “Kingdom Hearts” può essere ascritto, sebbene sfoggi alcune caratteristiche (fra cui la deriva action) che lo discostano leggermente dagli esempi più classici.
Chiunque riesca a giungere alla schermata ‘The End’, dopo oltre 30 ore di gioco e un lungo e impegnativo finale, viene inevitabilmente pervaso da una serie di emozioni: terminare “Kingdom Hearts” genera un malinconico ma piacevole appagamento e la sensazione di aver vissuto un’esperienza, in definitiva, soddisfacente. Il dolce sentimento di avventura (comune a molti titoli dalla forte longevità) influenza il giocatore e annebbia in parte il suo giudizio critico e la personale analisi sul ‘peso’ dei difetti, i quali passano prepotentemente in secondo piano.
Il lato più interessante del progetto consiste certamente nella tanto attesa – e temuta – unione dell’universo narrativo Disney con quello di “Final Fantasy”, integrazione resa possibile perchè… accade e basta. Non esiste infatti un vero lavoro volto a giustificare la convivenza dei due mondi: gli autori gettano nel calderone un po’ di tutto e, a parte alcuni piccoli accorgimenti nel character design volti a uniformare stilisticamente i vari personaggi, si limitano semplicemente a fondere senza un vero criterio mondi e protagonisti, conservando efficacemente mood e caratterizzazioni.
Si ha quindi a che fare con una sorta di universo parallelo in cui i background d’ispirazione (Disney e Square) sono raccolti in maniera semi casuale e gettati nella mischia senza troppi fronzoli, creando un ambiente narrativo del tutto nuovo che, pur non incasellandosi nella cronologia delle trame originali, racchiude in sé storie, scenari e personaggi già noti. Uno strano mix che, supportato anche dal grande sforzo degli animatori e dalle prestazioni dei doppiatori (una sfilza di pezzi grossi, tra cui spiccano le voci originali utilizzate nelle produzioni disneyane), si può dire riuscito.
Purtroppo la Square non riesce a scrollarsi da dosso gli stilemi del genere – o, probabilmente, non vuole farlo – e propone un gioco estremamente dilatato e pieno zeppo di ridondanze. Circa l’80% del tempo è infatti occupato da azioni ripetute o superflue come i viaggi sulla Gummiship (realizzati male e inutilmente lunghi), le fasi platform (rese frustranti dalla cattiva gestione della telecamera) o le gare sull’Olimpo (decine di mischie di difficoltà crescente).
Nonostante siano poi stati aboliti i combattimenti a turni in favore di un sistema più action, gran parte dell’avventura è costituita dagli onnipresenti scontri casuali, i quali non costituiscono alcuna vera sfida ma sono indispensabili per potenziare il personaggio in vista dei più impegnativi duelli con i boss.
Inoltre esigenze del gameplay conducono ad alcune forzature narrative, rendendo per esempio Paperino e Pippo degli improbabili e letali guerrieri che si affiancano al giovane protagonista, l’eroico e (troppo?) sensibile Sora.
Il restante 20% si trascorre in modo più vario e stimolante, e la bellezza di ambientazioni e personaggi possono facilmente convincere il giocatore a proseguire, a dispetto di una scrittura un po’ prevedibile che fa leva su una trama costruita per i più giovani con il relativo, ingombrante e banale sottotesto.
I tempi dilatati, provocati quindi da una serie di azioni reiterate e spesso noiose, assolvono però il compito di incrementare la longevità: paradossalmente i difetti risultano perciò utili a originare quel senso d’avventura citato in apertura che spinge al completamento del gioco svelando quello che è, con ogni probabilità, il suo pregio migliore. La conseguenza è che chi riesce a sopportare le varie magagne, le tante lungaggini e uno stile di gioco che dimostra i suoi anni (in realtà, già ai tempi dell’uscita), va incontro a una lenta ma progressiva ‘desensibilizzazione’ nei confronti delle varie pecche, grazie anche all’introduzione graduale di piccoli elementi che via via semplificano la vita del giocatore snellendo qualche passaggio.
A conti fatti, chi dopo le prime dieci ore di gameplay ha ancora il pad fra le mani difficilmente abbandona l’avventura di Sora e soci: infatti, il vero stimolo a proseguire non è tanto rappresentato dal divertimento (non sempre presente) o dalla voglia di ‘vedere come va a finire’, ma piuttosto dalla volontà di dare alla propria esperienza una sensazione di compiutezza per potersi guardare indietro con la deliziosa consapevolezza di aver vissuto una grande avventura.
INTERESSOMETRO: 4 su 5.
Durante la prima metà degli anni ’90, riuscire a fermare l’inarrestabile corazzata di game designer francesi, capaci in brevissimo tempo di rivoluzionare estetica e gameplay del mondo videoludico, era praticamente impossibile.
In tale contesto, materiale per far vibrare l’Interessometro di certo non manca, e lo stesso deve aver pensato Paul Cuisset, game designer principale della Delphine Software, che nel ’92 sfornò “Flashback: The Quest for Identity”. Ispirandosi pesantemente ai due action adventure di riferimento, “Prince of Persia” di Jordan Mechner e “Another World” di Eric Chahi, l’autore francese realizza un titolo che con una certa sfacciataggine pesca a piene mani idee e concetti dai suoi illustri predecessori.
Graficamente, “Flashback” presenta personaggi realizzati in grafica vettoriale prerenderizzata (utilizzata in real-time da Chahi per il suo gioco) e animati utilizzando la tecnica del rotoscoping (pioneristicamente adoperata da Mechner in “Karateka” e nello stesso “Prince of Persia”). Gli sfondi disegnati a mano rappresentano l’unica vera differenza, e conferiscono un aspetto di buona qualità ai numerosi scenari.
L’avventura mostra diverse contaminazioni dalle opere ispiratrici ma un gameplay meno rapido e più elaborato che comprende interazioni con l’ambiente, un inventario, dialoghi con altri personaggi e un universo di gioco più vario. Ciò che sulla carta sembra un obiettivo di tutto rispetto, si traduce in qualcosa che non raggiunge la dirompente semplicità di “Prince of Persia” né la spettacolarità di “Another World”, funestato da controlli scomodi che respingono di netto l’immediatezza dei predecessori obbligando a una gestione tentacolare dei tasti (almeno su pc), con pulsanti diversi per estrarre l’arma e riporla, sparare, interagire/correre, aprire l’interfaccia e combinare oggetti.
Davvero paradossale in questo senso l’esecuzione dell’indispensabile e più complessa acrobazia disponibile, ovvero il salto con presa su un piano più alto: va semplicemente tenuto premuto il tasto della corsa e il protagonista la effettua in automatico. Senza senso.
A ciò si aggiunge un game design spesso disonesto, basato su backtracking piuttosto frequente, difficoltà elevata (con checkpoint molto rari), inutili lungaggini e soprattutto una serie di colpi bassi, come l’impossibilità di correre/saltare brandendo l’arma o la presenza di pericoli improvvisi al di là di una room a causa del mancato scrolling.
Inoltre, nonostante le possibilità fornite dalle nuove feature, “Flashback” non è così vario come si potrebbe pensare, e non va oltre una serie di combattimenti volti a recuperare chiavi per aprire porte bloccate. Più in là nel gioco si ottiene possibilità di teletrasportarsi, il che aggiunge qualche situazione in più, ma è troppo poco e troppo tardi.
Il prodotto si guadagna l’etichetta di ‘platform cinematografico’ grazie anche alle cutscene, molto simili nel look a quelle di “Another World”, che irrompono nel gioco per raccontare una trama più complessa rispetto ai modelli ispiratori e con background piuttosto curato e peculiare, ma anche banale e risibile nella scrittura: una storiella di fantascienza all’acqua di rose senza atmosfera né guizzi di alcun tipo.
Nel saggio “The Making of Prince of Persia” di Jordan Mechner, l’autore della serie del Principe racconta di un incontro avuto con un furioso Eric Chahi, auto-esiliatosi dalla Delphine, che parlava di come Cuisset avesse non solo ‘rubato il tono e il look’ del suo “Another World”, ma che lo avesse utilizzato - a suo parere – per essere una copia spudorata di “Prince of Persia”. Successivamente Mechner, provando “Flashback”, avrebbe confermato la sua impressione (‘plagia “Prince of Persia” senza vergogna’), pur ammettendo che il gioco ‘non fosse male’. L’autore di “Prince” scrive inoltre che sarebbe poi stato tentato di rubare la grafica vettoriale dalla Delphine per realizzare il suo ‘train game’ (il futuro “The Last Express”) e restituire così la pariglia, ma si sarebbe infine fermato a causa della sua ‘ossessione per l’originalità’.
Generalmente poco ispirato, ingolfato da controlli pesanti e da un game design poco brillante, realizzato saccheggiando idee da capolavori ben più coraggiosi e innovativi, “Flashback” viene edito nel momento storico giusto e riesce comunque a convincere, divenendo in Francia il gioco più venduto di sempre e generando in futuro un seguito ufficiale (“Fade to Black”), un terzo episodio mai completato (“Flashback Legends”) e un remake.
Onore quindi a Cuisset per aver sviluppato, con una bella dose di intuito, astuzia e lungimiranza, un’avventura che non fa di certo dell’originalità e dell’innovazione il suo vessillo, ma che risulta indovinatissima in quanto a tempismo. “Flashback” è una spugna che assorbe le idee più felici dei due migliori action-adventure di quel periodo, risultando oggi al confronto meno decisivo storicamente e più frustrante, ma comunque divertente.
INTERESSOMETRO: 4 su 5.
L’Apocalisse Zombie è uno dei concept più (iper)abusati degli ultimi tempi. C’è chi fa leva su tale pretesto per puntare all’aspetto gore, c’è chi preferisce un’atmosfera tesa e c’è chi si concentra maggiormente sul lato action.
“Deadlight” segue una strada lievemente differente. Pur contando sul tipico mood disperato e su alcune tematiche che finiscono per ricordare il serial “The Walking Dead” (come gli immancabili umani ‘più spietati degli zombie’), si distingue per un approccio puzzle solving riducendo al minimo gli scontri diretti. Si tratta, in sostanza, di proseguire attraverso una serie di salti e di interazioni con l’ambiente, cercando di evitare quanto possibile i numerosi nemici attraverso una struttura action-adventure che può richiamare “Another World”.
In a distant future, mankind is locked in a deadly war…: cosa ricorda questo incipit? Che l’autore di “Wing Commander”, Chris Roberts, volesse creare il ‘suo’ “Star Wars” è evidente fin dalla brevissima intro. Ma l'intento, videoludicamente parlando, va oltre, accarezzando l'idea di film interattivo: il giocatore conduce una vita all'interno dell'ambiente di gioco, affiancandola agli scontri nello spazio, e le sue prestazioni in battaglia fanno evolvere diversamente l'intreccio narrativo.
Il plot è semplice: gli umani, non si sa come né perché, sono coinvolti in un lungo conflitto contro i Kilrathi, una razza aliena dalle caratteristiche feline. Non serve sapere altro, il pretesto è servito: l’unica speranza per i terrestri consiste in valorosi ‘Top Gun’ di diversa etnia che vivono in enormi astronavi madri e combattono i perfidi nemici pilotando piccoli caccia spaziali. Probabilmente, l’elemento più curioso del gioco consiste proprio nella ‘personalizzazione’ della storia. In “Wing Commander” è contemplata la morte del protagonista con conseguente ‘game over’, ma è anche possibile fallire una missione o perdere il nostro wingman senza provocare la fine del gioco. L’avventura quindi va avanti, adattando di conseguenza testi, cutscene, incarichi e trama.
‘Mai scendere dall’auto’: questo è il promemoria che un abitante delle zone a sud-ovest dell’America settentrionale conosce fin troppo bene. O almeno, dell’America alternativa dipinta dalla Activision in “Interstate ‘76”: un mondo divorato dalla criminalità in cui le forze dell’ordine sono invase dal cancro della corruzione e resta solo un gruppo di sparuti ostinati – noti come ‘I Vigilanti’ – a difendere la legge su veicoli da battaglia.
Il contesto è pesantemente influenzato dal solito “Mad Max”, la trilogia ‘on the road’ con Mel Gibson: anche in “Interstate ‘76”, infatti, alcuni anti-eroi assolvono il compito di fare giustizia sommaria ingaggiando scontri mortali con banditi – spesso macchiettistici - su auto corazzate e armate di tutto punto. Piuttosto che in un mondo post-nucleare, però, l'universo narrativo è ambientato - così come suggerisce il titolo - negli anni '70.
Uno shooter di elevatissima difficoltà in cui è impossibile salvare. Obbligo di ricominciare il gioco - e non solo il livello – da capo in caso di morte. Una totale randomizzazione di bonus e nemici che rende ogni partita diversa e più o meno ‘fortunata’. Grafica e sonoro ridotti ai minimi termini. Questo è “The Binding of Isaac”, probabilmente l’espressione migliore di un certo settore della produzione indipendente rivolto ai veri smanettoni della tastiera, quelli in cerca di una vera sfida e incapaci di spaventarsi di fronte a una struttura, spesso frustrante, che richiede un deciso impegno nell’imparare ogni piccolo stratagemma.
Fin dalla (bellissima) cover è possibile comprendere il setting di “Another World”: la silhouette di un uomo si staglia su un promontorio e abbraccia un brullo e -con ogni probabilità - ostile panorama; dietro di lui, una creatura cerca di tenere a bada una bestia.
Un esperimento scientifico andato male ha catapultato Lester (questo è il nome del protagonista, come si apprende esclusivamente dal manuale) in quel mondo alieno, in cui si materializza improvvisamente all'interno di una sorta di vasca (artificiale?). Non c'è tempo da perdere: il giocatore deve prendere in mano i controlli e tirar fuori Lester da lì. Ma prima di accorgersi che la mancanza d'aria può causare la sua dipartita, ecco spuntare anche dei famelici tentacoli in procinto di afferrarlo. Non appena si esce dall'acqua si scorgono per un attimo i canyon sconfinati e il cielo illuminato da due lune crescenti, ma esitare costerebbe la vita: si è infatti costretti ad allontanarsi di corsa o il mostro afferrerebbe l'uomo dal bordo della vasca. Ancora qualche passo e un'enorme bestia tenterà di fargli la pelle, inseguendolo fino a un precipizio.
Accostarsi a “Fallout” senza la riverenza che si prova verso i grandi classici è davvero impossibile. Fulgido esempio del genere, l'rpg della Interplay è un titolo figlio dei suoi tempi, quando era più frequente imbattersi in produzioni rivolte al cosiddetto target 'hardcore'.
In effetti, tale natura rivela tanto i punti di interesse quanto i fattori che potrebbero, per così dire, respingere chi lo approccia oggi per la prima volta. Per quanto riguarda gli elementi a favore troviamo un'atipica ambientazione post-apocalittica, inusuale nei gdr classici, che costituisce l'ottimo sfondo di una trama raccontata freddamente e caratterizzata da una progressione molto scarsa. Nel selvaggio mondo di gioco, il protagonista è chiamato a esplorare, risolvere dispute, combattere e stringere alleanze, il tutto attraverso un sistema di scelte piuttosto evoluto.
Nonostante ancora oggi sia guardato con un certo sospetto, il digital delivery ha senza dubbio aperto le porte a una schiera di titoli indie fino a qualche tempo fa irrealizzabili e, soprattutto, impossibili da far arrivare al grande pubblico. Il rifugio per progetti di questo tipo era costituito esclusivamente dall’underground videoludico, quel terreno sconosciuto ai più nel quale si muovono tutt’ora diversi titoli amatoriali molto interessanti e sperimentali: purtroppo, per la loro stessa natura, tali produzioni devono accontentarsi di volare basso anche a causa dell’assenza di budget e di una vetrina adeguata.
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Grazie, OGI. Arrivederci!
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