C'era una volta una avventura grafica, una software house che ha definito il canone moderno del genere, un Ron Gilbert che porto il genere alla maturità, pirati, scimmie a tre teste, isole da scoprire... c'era una volta Monkey Insland e oggi dopo decenni c'è ancora Monkey Island.
Dopo oltre 30 anni dalla nascita di Monkey Insland è uscito un nuovo capitolo capitolo a firma di Ron Gilbert, il papà dei primi capitoli. Su questo nuovo capitolo il nostro Ojo ha dato un giudizio che potrete ascoltare in questo podcast: l'episodio è diretto a chi ha già giocato il gioco quindi sono presenti spoiler anche pesanti sul gioco. Dunque se siete interessati, ecco a voi Ojo che vi spiegherà perché non gli è piaciuto RETURN TO MONKEY ISLAND.
Guarda il gameplay completo di Ojo e Gwenelan su Youtube.
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Un trailer nuovo nuovo ci mostra finalmente in movimento i personaggi principali che animeranno questa nuova avventura ambientata nel mondo di Monkey Island. Sembrano esserci proprio tutti, ma gli appassionati sono già divisi riguardo alle scelte artistiche del team (capitanato, per quel che riguarda la grafica, dall'art director di Tearaway e Knights & Bikes). E voi cosa ne pensate?
No, non è un pesce d'aprile in ritardo. A quanto pare è tutto confermato: Guybrush Threepwood tornerà con le sue avventure piratesche in Return to Monkey Island, titolo pubblicato da Devolver Digital e che vede al timone Ron Gilbert affiancato da Dave Grossman.
Il gioco è previsto per il 2022... ma... aspettate un attimo... il 2022 è quest'annooooooohohoooo!!!11!!!1
Scopriamo insieme i misteri del continente perduto in compagnia di Indiana OjOnes e della professoressa Gwenelan. Questa è la nostra diretta di Indiana Jones and the Fate of Atlantis!
Questa brevissima storia parte nel lontanissimo 1982 a San Francisco da una software house che prese il nome di Lucasfilm Games. Ma noi non racconteremo la storia della compagnia, del fatto che George Lucas la volle come divisione videoludica della sua casa cinematografica o di come Ron Gilbert, David Fox e tutti gli altri scrissero la storia delle avventure grafiche.
Benvenuti al primo episodio di Storie Videoludiche nel quale troviamo una bambina che nel 2019 ama giocare a Monkey Island e tante altre avventure grafiche.
La chiusura di TellTale Games, al di là delle considerazioni più strettamente economiche e tecniche, segna la fine di un'era così come è stato per LucasArts?
In studio: Marco "Il Distruggitore" Gualdi, Simone Gusella e in collegamento da Milano Alex Raccuglia. Conduce l'inossidabile Simone Pizzi.
“Il contesto di un habitat”
Il primo mondo online persistente.
Un inventario per gestire oggetti e valuta di gioco.
Quest e obbiettivi da portare a termine.
Possibilità di chattare in real time con gli altri giocatori.
No, non è il 1997, non siamo negli studi della Origin e non stiamo parlando di Ultima Online, ma siamo nel 1986 e ci troviamo in quel piccolo pezzo di paradiso per nerd che è la LucasArts.
Se qualcuno di voi ha avuto il piacere di vedere gli episodi della seconda stagione della serie TV Halt and Catch Fire (e se non l'avete vista smettete di perdere tempo leggendo quello che scrivo e andate a innamorarvi di questo piccolo capolavoro televisivo), avrà notato come il team di sviluppo guidato da una delle protagoniste della serie si dedichi alla realizzazione di un ambiente grafico per permettere agli utenti del loro servizio online di chattare tra loro usando qualcosa di più accattivante delle sole linee di testo.
Tra quei pionieri del netcode, infatti, c’era chi fin da subito si accorse che sì… agli utenti piaceva giocare… ma era evidente che gli piacesse altrettanto chiacchierare tra di loro.
E, ovviamente, i sistemi che calcolavano le ore di collegamento di certo non facevano sconti se il tempo acquistato veniva speso in game o in chat.
Ah, vorrei dirvi che avete letto benissimo: ho scritto proprio “il loro servizio online” e mi pare il caso di spiegarvi perché ho usato questa espressione.
Negli anni eroici dei primi collegamenti via modem, non esisteva un'internet così come la conosciamo ora ma esistevano, invece, una marea di servizi tra loro indipendenti a cui gli utenti si collegavano effettuando una chiamata verso un numero telefonico tramite i primi modem per home computer.
Ogni servizio veniva venduto tramite un abbonamento (pagato rigorosamente via assegno spedito per posta) che dava diritto ad un certo monte ore di gioco o, ma ad un costo molto maggiore, ad ore illimitate per un intero mese.
Questo tipo di mercato ebbe un buon riscontro di pubblico e, com'era naturale, attirò alcune delle menti più brillanti della programmazione ad indirizzo ludico, tra cui anche quelle in forza alla LucasArts che, nei suoi uffici ubicati in una dependance dello Skywalker Ranch, si attivarono per sviluppare un prodotto che si inserisse in questa nuova e promettente nicchia di mercato.
Come ti genero l’ambiente
Come tutti i progetti complessi, Habitat partì subito con un handicap.
Dato che la Lucas aveva un accordo di distribuzione tramite Quantum Link, che offriva servizi in esclusiva per Commodore 64, il gioco venne previsto per questa sola piattaforma nonostante i due team leader (Chip Morningstar e Randall Farmer) avessero sin da subito sottolineato come, data la portata ambiziosa del progetto, il PC presentasse caratteristiche più adatte.
Dato che, come sempre, gli accordi commerciali non prevedono che quisquilie come il parere dei tecnici possano rappresentare un ostacolo, Chip e Randall si videro costretti a spremersi le meningi su come spremere la capacità di calcolo necessaria dalla macchina Commodore.
Il progetto verteva sullo sviluppo di due ambienti separati fisicamente ma interconnessi.
Il Frontend: L’interfaccia di gioco che sarebbe stata gestita dal computer client.
Il Backend: Il server che avrebbe contenuto tutti gli elementi del mondo di gioco, compresi l’inventario e lo stato dei personaggi. Cosa che se fosse stata prevista da Blizzard ai tempi del primo Diablo avrebbe reso la vita più complicata ai cheater…
Gli utenti potevano comunicare tra loro tramite una interfaccia di testo che faceva comparire ciò che veniva digitato all’interno di baloon posti sulle teste dei personaggi.
All’interno dell’inventario dei personaggi c’era solo un numero definito di slot liberi e gli eventuali oggetti in eccesso andavano depositati in una banca o, appena se ne entrava in possesso, all’interno dei mobili della propria abitazione virtuale.
Se consideriamo l’epoca dello sviluppo di Habitat, la lista degli oggetti presenti nel mondo di gioco (escludendo ovviamente quelli necessari alla composizione dell’ambiente come alberi, staccionate ecc) è estremamente ricca e comprendeva anche items particolarmente esilaranti nel nome o nella descrizione come, ad esempio, il “burocrate in scatola” ovvero un sistema di comunicazione con gli operatori di sistema, utile per segnalare personaggi bloccati o glitch vari.
Un'altra caratteristica del mondo di gioco era la sua assoluta unicità.
Se avete mai giocato a UO o a WoW sapete che ogni mondo di gioco è frammentato in decine di server divisi per regione o tipologia di gioco (ad esempio ci sono server per soli roleplayer e server dove è vietato il pvp e così via).
Habitat invece disponeva di un singolo mondo di gioco abitato dalla totalità dei suoi iscritti.
La scelta fu dettata in primo luogo dal rapporto di esclusiva con Quantum, che operava nei soli USA, e anche dalle previsioni sul numero degli utenti che ad una prima stima non giustificavano una distribuzione dei giocatori su più backend.
Analizzando la storia di Habitat a posteriori possiamo dire che queste scelte furono senza dubbio azzeccate ma erano basate su un errore di fondo.
Solo alcuni mesi dopo l’introduzione del servizio sulla piattaforma Quantum, Morningstar e Farmer iniziarono a rendersi conto che i problemi del gioco non sarebbero venuti da lato tecnico quanto da quello delle interazioni sociali.
La teoria dell’acquario
Non ci volle molto ai creatori di Habitat per rendersi conto che un mondo che, al suo picco, era popolato da migliaia di utenti non poteva essere diretto in alcun modo dai suoi creatori ma, al contrario, diveniva di giorno in giorno più simile a quello che i giocatori volevano che fosse.
Nel giro di poco tempo il mondo di gioco aveva sviluppato una sua forma di economia, si erano formati gruppi più o meno eterogenei, si celebravano matrimoni e gruppi di giocatori votavano dei rappresentanti che avrebbero avuto il compito di perorare le loro istanze con gli amministratori.
Durante la sua esistenza all’interno di Habitat venne persino fondata una religione chiamata “Chiesa della Sacra Nocciola” il cui sommo sacerdote risultò poi essere il Pastore della Chiesa Greco-Ortodossa della sua città
In poco tempo, usando le parole di Morningstar, Habitat smise di essere un adventure game giocato da più persone e iniziò ad essere una vera e propria comunità.
Data la direzione presa, gli amministratori smisero anche solo di provare a dirigere le cose approcciandosi, più saggiamente, ad un tipo di gestione che li vedeva come osservatori ed esecutori dei compiti puramente tecnici necessari a migliorare l’esperienza comunitaria che avevano creato.
Una delle discussioni più accese tra i giocatori riguardò l’inserimento dei comportamenti antisociali e la loro gestione.
In game era possibile ottenere armi di vario tipo (dai coltelli alle pistole) ed era possibile usarle per uccidere altri giocatori ma, non essendo stata inserita alcuna forma di controllo, i crimini rischiavano di risultare sempre impuniti.
Un sondaggio tra gli utenti dimostrò che esisteva una spaccatura ideologica che divideva la comunità esattamente a metà.
Un 50% dei giocatori riteneva che gli avatar fossero estensioni delle persone fisiche che li usavano e che quindi c’era necessità di concedergli lo stesso grado di libertà di azione previsto nella vita reale.
L’altra metà sosteneva che gli avatar fossero solo strumenti di gioco e quindi le loro azioni andassero limitate in modo da non permettere a nessuno di rovinare l’esperienza altrui.
Visti i risultati del sondaggio la Lucas optò per una soluzione di compromesso.
Sarebbe stato possibile assalire un avatar solo fuori dai centri abitati ed il furto sarebbe stato possibile solo per gli oggetti lasciati incustoditi.
La soluzione portò però ad una ennesima discussione tra gli utenti.
Il fatto che i crimini fossero possibili solo fuori dall’abitato li rendeva non perseguibili? E, nel caso, chi avrebbe dovuto gestire la giustizia?
Venne tenuta una votazione e venne nominato uno Sceriffo ma, prima che il team di sviluppo potesse stabilire come potergli dare gli strumenti per amministrare la legge, il progetto Habitat venne chiuso e la domanda restò senza risposta.
Aspettarsi sempre l’inaspettato (e gestirlo)
Il fulcro dell’esperienza dei fortunati che giocarono con Habitat restò fino alla fine la gestione dell’aspetto sociale del gioco.
Racconta Farmer che tentarono di creare una caccia al tesoro che, nelle intenzioni iniziali, sarebbe dovuta durare giorni, coinvolgere personaggi speciali gestiti dal team di sviluppo e far sentire tutti i giocatori come parte di una trama complessa che si sarebbe sviluppata con il loro aiuto.
L’esperimento durò invece solo otto ore a causa di un utente particolarmente sveglio che decifrò un indizio chiave molto prima di quanto il team che gestiva l’evento avesse previsto.
Un altro esperimento che indusse i creatori ad approcciarsi ad una visione più sociale e meno ludica fu un incidente riguardante un oggetto che, semplicemente, un comune giocatore non avrebbe dovuto possedere.
Habitat disponeva anche di un giornale locale che riportava le news sul mondo di gioco (scritte sia dal team di amministratori che da un gruppo di giocatori che aveva formato una redazione) e che indirizzava i lettori verso le zone dove si sarebbero tenuti particolari eventi.
Uno di questi eventi era l’apertura di un labirinto abitato da due personaggi chiamati L’Ombra e La Morte.
Ombra e Morte non erano altro che due avatar speciali gestiti dagli admin e dotati di due oggetti unici, una pistola che uccideva con un singolo colpo (le pistole comuni avevano bisogno di 12 colpi) e una bacchetta che curava istantaneamente le ferite.
La combo dei due oggetti rendeva questo duo imbattibile e l’unica opzione valida per vincere la sfida era uscire dal labirinto evitando di incontrarli.
Peccato che uno degli amministratori dimenticò di attivare la bacchetta e un gruppo di giocatori che era entrato nel dungeon riuscì ad abbattere Morte e a prendere la pistola potenziata dall’inventario del cadavere.
Il problema che si posero Morningstar e Farmer, quando vennero informati dell’accaduto, prescindeva dalle considerazioni tecniche.
Per come avevano impostato la gestione di Habitat non potevano semplicemente far sparire la pistola dall’inventario dell’avatar che la aveva conquistata e quindi decisero di agire in maniera “sociale”.
Morte iniziò a mandare tramite il giornale delle richieste all’avatar che lo aveva abbattuto in modo da discutere la questione della pistola e, dopo una lunga trattativa, venne stabilito un punto di incontro in territorio neutrale dove, alla presenza di testimoni, Morte pagò al giocatore un sostanzioso riscatto per la sua arma.
Tutta la scena venne “recitata” da uno degli admin e dal proprietario dell’avatar che aveva sottratto l’arma.
Da quello che si dice i resoconti su come un personaggio avesse “giocato la morte” dominarono le discussioni su Habitat per settimane.
Risolvendo la questione in questo modo il team di Habitat dimostrò come l’universo di gioco fosse intrinsecamente coerente e che anche le situazioni impreviste sarebbero state gestite senza alcuna azione esterna al mondo di gioco (come far sparire l’arma).
Il ruolo dello staff fu sempre quello del gestore ma mai quello del padrone del gioco.
Anni dopo, solo Garriot riuscì a gestire una situazione simile quando un incantesimo buggato permise ad un giocatore di uccidere Lord British durante una delle sue apparizioni pubbliche sulla piazza di Britain.
Il mondo che divenne un Club esclusivo
Alla fine del periodo di test Habitat fu dichiarato concluso e il codice del backend passò, come da accordi, nelle mani di Quantum che lo rimaneggiò pesantemente.
Dato lo scopo commerciale, Habitat venne trasformato in “Club Caribe” perdendo nel passaggio quasi tutto quello che lo rendeva unico.
Club Caribe divenne una sorta di chat grafica con aree di incontro free e altre “premium” che prevedevano un pagamento aggiuntivo a quello base di 9 dollari mensili.
Inoltre Quantum Link eliminò quasi del tutto la parte ludica uccidendo, di riflesso, tutte le componenti che rendevano possibili e appaganti le interazioni tra giocatori.
Anche Club Caribe però non ebbe lunga vita e vide pian piano spopolarsi il suo bacino di utenza.
Habitat resta il primo esperimento di creazione non solo di una comunità online ma di una vera e propria società.
Un esperimento che ebbe una valenza prima di tutto “tecnica” ma soprattutto “politica”.
Nessuno dei progetti nati dopo, da Ultima Online ad oggi, ha mai lasciato una tale libertà non tanto ai singoli quanto all’insieme dei giocatori che, perlomeno in quegli anni ed in quella occasione, dimostrarono che “L’Utopia Pirata” di una società digitale autogestita era assolutamente possibile.
Per chi volesse approfondire, segnaliamo questi articoli e libri in merito:
- Rogue Leaders: The Story of LucasArts
- The Lessons of Lucasfilm's Habitat
- Bringing Habitat Back to life
Titolo: 4x03 - Monkey Island è una Cagata Pazzesca |
Chi ha detto che Monkey Island sia intoccabile? Chi ha detto che sia un capolavoro di trama e game-design? Chi ha detto che abbia portato innovazioni e miglioramenti all'interno delle avventure grafiche?
TUTTI!
Ma quando è il primo aprile e il team di Calavera è nei paraggi, l'occasione per uno scherzone è ghiotta!
La registrazione del live con partecipazione diretta degli utenti è un episodio atipico, confuso e delirante, in cui una fazione di detrattori (Caliendo e Semprini) si confronta con un esercito di appassionati lucasiani capitanati da Pizzi e Bertoni. MA forse... i detrattori non hanno tutti i torti. O forse sì! Ma sopratutto... che senso ha il quizzone? E chi cavolo sono questi 'Templari'?
Oddio, neanche chi scrive queste note c'ha capito niente, giuro!
Ma tranquilli, dal prossimo episodio torneremo normali.
...se mai lo siamo stati.
Titolo: 4x01 - Chiedeteci di Loom |
Torna in grande forma il podcast che non teme di sfidare il tempo! Giusto in tempo per inaugurare il 2016, ecco l'episodio di apertura delle quarta stagione con il botto che non ti aspetti.. Loom! Buon ascolto!
Un lancio pubblicitario forse scontato (cit.) ma doveroso per introdurre la nuova stagione di Calavera Cafè - che come da tradizione arriva in ritardissimo - in cui il team (quasi) al completo sviscererà ogni più piccolo dettaglio di questa gloriosa -sebbene poco conosciuta- avventura Lucasfilm.
Ma c'è un problema... il GIRL POWER tenta di prendere il controllo!
Il presentatore for dummies Cristiano introduce i suoi solennissimi colleghi, ovvero un Pizzi nell'inedita veste di partecipante e un Bertoni fra la vita e la morte. Eterna gloria è però riservata al super ospite speciale Domenico Misciagna in arte DIDUZ, autore dell'imprescindibile sito LUCASDELIRIUM e nostro pregevolissimo relatore per questo episodio.
Gioco unico, Loom è un'avventura molto avanti nei tempi che nasconde influenze, innovazioni e curiosità che meritano di essere approfondite dai nostri Bertoni e Domenico in una lunghissima analisi 'storicizzata' senza precedenti.
Il finale de "Il Lago dei Cigni" di Tchaikovsky riarrangiato per il gioco da George Alistair Sanger.
La nostra giovane ascoltatrice nonchè Youtuber Hadvk09/Gaia raccoglie l'invito a partecipare come "AVVENTURIERA DI CALAVERA" e si rende disponibile per una chiacchierata in compagnia di Alberto e Cristiano.
Devastati ma felici, ci salutiamo con le segnalazioni di rito e una comunicazione importante sul destino del glorioso IPN. YAO a tutti!
Conferenza Moriarty GDC 2015
La nostra traduzione di Loom (versione EGA - versione VGA/GOG)
Forge, il seguito non ufficiale di Loom
Intervista a Gabriele Nannetti del progetto Forge
Tanto tempo fa, su un computer scassato, scassato…
Guerre Stellari
I Sith stanno vincendo la guerra per il controllo della galassia. Supportato da un’armata apparentemente inesauribile, Darth Malak, l’apprendista del maestro oscuro Revan, è riuscito ad assoggettare numerosi sistemi solari; il consiglio degli Jedi e le forze della Repubblica non sembrano in grado di arrestarne l’avanzata. Nella Forza, tuttavia, c’è sempre equilibrio: una giovane Jedi di nome Bastila è in possesso di un talento straordinario, un’aura di meditazione in grado infondere rinnovato vigore nelle unità alleate e recare grande sconforto alle truppe avversarie. Nello spazio sovrastante i cieli di Taris si sta ora combattendo l’ultima e decisiva battaglia.
Effetto di Massa
Considerato da molti l’ultimo picco creativo di BioWare (anche se è doveroso citare l’ottimo Jade Empire), Knights of the Old Republic avvia la propria narrazione in media res. Il protagonista, personalizzabile optando per una fra tre classi umane, è una recluta promettente imbarcata sull’ammiraglia della flotta alleata.
Dopo un breve tutorial, l’eroe si ritrova bloccato sulla superficie del pianeta in compagnia di Carth Onasi, un veterano della Repubblica. Di comune accordo, i due soldati decidono per la ricerca di Bastila che si spera sopravvissuta alla distruzione dell’Endar Spire. I poteri Jedi della “donzella in difficoltà” non solo risultano indispensabili alla causa, ma si riveleranno presto utili per abbandonare il corpo celeste, ora sotto quarantena imposta dai Sith.
Superata questa lunga e articolata fase iniziale, il gioco si dischiude proiettando il gruppo ai margini e nei meandri della galassia in cerca di antichi artefatti.
In KOTOR è già possibile trovare tutte quelle costituenti, qui ancora abbastanza “fresche”, su cui BioWare si è fossilizzata e che ha riproposto, pressoché inalterate, nelle produzioni recenti. Vi sono, l’immancabile rifugio in cui approfondire la conoscenza dei membri del proprio party, alcuni hub cardine da visitare nell’ordine preferito e come leitmotiv l’unione di individui scelti per muovere battaglia ad un antico male che trova la sua radice nella millenaria storia della Repubblica. Gli stessi png sono chiaramente gli “antenati” dei character presentati nelle recenti trilogie: abbiamo la ragazzina blu, il guerriero tentenna, il combattente che vive per l’onore e anela la morte in battaglia e la megera frigida.
Dungeons & Sabers
Sviluppato per Xbox e in seguito portato su PC (e recentemente anche su MacOs e AppStore), Knights of the Old Republic è un gioco di ruolo in terza persona con pausa tattica imperniato sul rule set d20, implementato in origine dalla Wizards of the Coast per l’universo “cartaceo” di Guerre Stellari. Termini come classe armatura, tiro per colpire e tiro salvezza ritornano qui, per un’ultima volta, prima che l’azione si faccia largo a colpi di “blaster” e karatè nei titoli BioWare.
La telecamera, posta alle spalle dell’avatar e inclinabile solo marginalmente lungo l’asse verticale, inquadra un’esperienza di gioco divisa in tre costituenti principali: esplorazione, combattimenti e dialoghi.
La fase esplorativa risulta anche la più debole essendo giocoforza limitata causa hub dall’estensione modesta. La parentesi del combattimento, decisamente più corposa, trova la sua massima espressione nei duelli Jedi; nondimeno la mancanza di una visuale dall’alto, la difettiva IA dei compagni e l’ingombrante HUD vanno a detrimento del gameplay che può dirsi appena sufficiente nonostante la spettacolarità e una vasta gamma di opzioni.
KOTOR brilla invece per quanto riguarda la componente dialogata. A fronte di un protagonista ancora muto (occorrerà aspettare l’avvento di Shepard per udire l’avatar profferire verbo), troviamo png eccelsamene doppiati e una pletora di comprimari alieni, fra cui twi’lek, jawa e hutt, che comunicano con le espressioni gergali canoniche dell’universo filmico di Star Wars.
I dialoghi e i membri del party non solo risultano di buona fattura, sono altresì esilaranti e ben orchestrati i cosiddetti banter che ne approfondiscono i rapporti. Bastila, scostante e altera, un vissuto mercenario mandaloriano e un particolare droide, sugli altri, spiccano per personalità e carisma.
Il lato oscuro è… più seducente
La trama di KOTOR, come si può intuire da quanto detto, non spicca per originalità anche se ha un indubbio fattore di redenzione contenuto nella “rivelazione”, aspetto che, volutamente, non approfondisco. La stessa Meditazione da Battaglia di Bastila è concetto mutuato dai racconti della Fondazione di Isaac Asimov dove troviamo il Mule, un pericoloso mutante che possiede un simile talento telepatico in grado di piegare la volontà degli avversari.
Lo staccato delle missioni vede il giocatore impegnato in incarichi che spaziano da semplici compiti FedEx e superamento di soft gate, passando per la risoluzione di “difficoltà linguistiche”, fino a culminare in pericolose escursioni in territorio Sith, dove sarà necessario forgiare temporanee alleanze con lord oscuri. È altresì presente l’immancabile processo, un punto fermo di molti titoli BioWare e Obsidian.
La ricerca degli artefatti è usata nel contesto come giustificazione per approfondire la conoscenza dei già validi png, ma soprattutto per presentare al giocatore una serie nutrita di scelte morali di altissimo profilo. KOTOR, infatti, risulta uno dei pochi titoli in grado di dare risalto all’interpretazione di un ruolo negativo e benché le scelte morali rientrino esclusivamente nello spettro bianco / nero, alcune opzioni sono veramente scure e di “difficile” selezione. L’impatto sul giocatore può essere significativo, anche se le conseguenze rimangono spesso confinate al settore di origine e, per lo più, inesplorate. È tuttavia appagante dar sfogo alla propria indole, arrivando magari a rivalersi su quei png che hanno reso ostica la nostra permanenza in un particolare hub.
Una decisone in particolare, che arriva nel momento chiave del gioco, si rivela di una spiccata crudeltà e avrà grande impatto sulla squadra di alleati andando a disegnare la diversa formazione con cui è possibile affrontare la fase finale dell’avventura.
Come nota a margine segnalo il deterioramento delle fattezze dell’avatar che decida di abbracciare il lato oscuro, espediente già visto Fable: the Lost Chapters e ripreso nella saga di Mass Effect.
È possibile, ovviamente, impersonare uno Jedi benigno: tollerare gli insulti, ricevere colpi di blaster in faccia e chiedere scusa di esistere, dispensare crediti ai disagiati, convertire Jedi oscuri al bene. Dovevo dirvelo, per ragioni di completezza.
“Guerra non fa nessuno grande.”
Nonostante le sagge parole del maestro Yoda, è impensabile affrontare le sfide presentate da KOTOR senza uno Jedi adeguatamente preparato nell’arte della guerra.
La scelta iniziale serve per inquadrare l’avatar in una carriera precisa che ha come estremi il guerriero e la canaglia, con l’esploratore che risulta sostanzialmente un ibrido delle due.
Il personaggio è quindi ulteriormente personalizzabile incrementando caratteristiche, attributi e competenze. Sono qui presenti le canoniche forza, destrezza e costituzione, e le loro controparti cerebrali intelligenza, saggezza e carisma, fissate inizialmente sul valore otto e aumentabili utilizzando una riserva di trenta punti con cui creare un avatar equilibrato o con picchi in una, massimo due caratteristiche. Sono inoltre selezionabili varie competenze per le armi, la difesa e le armature e una serie di abilità concernenti l’uso dell’elettronica, la riparazione dei droidi, la disattivazione delle mine e la furtività (piuttosto inutile fatta salva una missione e per il “colpo alle spalle” che qui ha effetto su tutti i nemici inabilitati).
Superata la prima e invero lunga fase d’apertura, vengono sbloccate tre classi Jedi che, oltre a conferire al protagonista l’abilità di equipaggiare una sciabola di luce, donano un pool di punti Forza utilizzabile per l’attivazione dei poteri Jedi, in pratica l’equivalente di mana e incantesimi. Velocità potenziata, dominazione mentale (utile nei dialoghi), strangolamento e tempesta di fulmini sono alcuni dei favoriti.
Come già detto, l’avatar viene inquadrato al centro dello schermo con i compagni, due selezionabili per ogni fase esplorativa, nascosti alle spalle. La telecamera, ruotabile tramite la pressione del tasto destro del mouse, consente di avere una visione della loro posizione, sempre utile giacché i pattern di movimento e attacco risultano decisamente impediti (è facile trovare il proprio guerriero che impugna due blaster a distanza zero da un nemico, oppure incagliato nelle strozzature delle mappe). Fortunatamente è sempre possibile, cliccando sui riquadri dei personaggi, cambiare il team leader per impartire singoli ordini, recuperare il terreno perduto sul resto del party o, qualora lo si desideri, alternare il derrière visualizzato (non aspettatevi le rotondità di Miranda, però).
Il combattimento è suddiviso, come da abitudine del D&D, in round o turni. Per ogni round è selezionabile un’azione fra cui attaccare, eseguire un attacco speciale, lanciare una granata, attivare uno scudo d’energia, iniettarsi un kit medico o usare un potere della forza. Ogni azione viene accumulata nell’apposita barra e singolarmente eseguita, turno per turno, in automatico. Il computer pensa a tutto: assisteremo quindi ad una danza di fendenti, parate, schivate e schizzi di luce che rispecchia l’esito del lancio dei dadi virtuali.
Abilità, poteri della forza e medikit sono accessibili tramite un HUD decisamente sovraffollato che piazza sullo schermo rettangoli arrotondati contenenti le possibili selezioni. Portare il mouse su queste icone consente, con lo scorrimento della rotella, di scegliere l’item o l’abilità desiderata e di indirizzarne l’utilizzo verso se stessi, un compagno o nemico precedentemente selezionato.
Solo la pausa tattica, attivabile con la barra spaziatrice, rende questo meccanismo gestibile.
Lore
In KOTOR è stata posta gran cura nel ricostruire l’universo di Guerre Stellari. Gli ambienti visitati ripropongono alcuni scenari iconici della saga come il rovente deserto di Tatooine, grattacieli impossibili in stile Coruscant, i colossali alberi di Kashyyyk, selvaggio pianeta natale degli Wookiee e, ancora, condensatori di umidità, paratie cromate e interminabili navi da battaglia (we brake for nobody!). Ovviamente sono presenti le razze aliene classiche, come i rodiani o i già menzionati twi’lek, mentre gli hutt sono a capo dell’underword; rivolgersi alla loro corte consente di sbloccare alcune gustose missioni secondarie comprendenti tornei nell’arena, corse di sgusci e riscossione delle taglie. Nei nostri viaggi incontreremo inoltre nobili Jedi, sapienti maestri, “cinguettanti” droidi, taciturni cacciatori di taglie e, naturalmente, Jedi oscuri a profusione.
Una nutrita e benaccetta varietà di item fa da corollario all’universo appena descritto. Brevemente si possono citare detonatori termici, blaster, armature, tuniche, visori, iniettori di potenziamento (succedanei delle pozioni) e, naturalmente, spade laser. Sicuramente da apprezzare la possibilità di personalizzare l’arma Jedi ai tavoli da lavoro inserendo cristalli in grado di modificarne cromia, entità e tipo di danno.
Tecnica
La grafica di KOTOR non brilla per definizione. Gli ambienti, pure evocativi e coloratissimi, sono spesso spogli e l’interazione con i medesimi è ridotta alle porte dei locali e ad alcuni contenitori standard. I volti dei png sono lontani dai fasti raggiunti con Mass Effect, nondimeno alcune espressioni sono ben realizzate con ammiccamenti e smorfie di fastidio o esasperazione che ben rendono lo stato d’animo del personaggio di turno. Fa eccezione il protagonista che, muto, stona decisamente durante la parentesi dedicata al dialogo.
La colonna sonora originale di John Williams sottolinea i momenti epici dell’avventura, mentre, per la maggior parte dell’esperienza, saremo allietati dalle tracce di Soule che ben si accompagnano al lavoro del maestro.
Ottimi gli effetti sonori che attingono alla bibliografia acustica di Star Wars riproducendo asciutti colpi di blaster, il pesante incedere delle truppe corazzate e il nobile ronzio delle armi Jedi.
“Non c’è provare.”
Knights of the Old Republic è gioco dal grandissimo carisma, ovviamente per via della sua appartenenza all’universo di Guerre Stellari. Se analizzato lucidamente, tuttavia, non può sottrarsi alle critiche già esposte. Inoltre i compagni di squadra non Jedi, oltre la metà del gioco, non tengono il passo contro avversari del calibro dei rancor, è pertanto sconsigliabile aggregarli al gruppo.
La forza dei dialoghi, l’impatto della rivelazione, la possibilità di impersonare un avatar votato al male e il fascino di alcuni png costituiscono comunque elementi validi e sufficienti, tali da rendere il titolo di BioWare esperienza da fare, perché: “Non c’è provare”.
Filosofia Jedi
Tutto quello che ho detto è vero… da un certo punto di vista.
DVL racconta: "Star Wars: Knights of the Old Republic - Il classico che non tramonterà mai"
Un altra recensione di Knights of the Old Republic su OldGamesItalia
An Epic Tale of Crime and Corruption in the Land of the Dead!
Manny Calavera torna sui nostri schermi grazie a questo remake del classico senza tempo della LucasArts curato dai Double Fine Productions di Tim Schafer.
Per PS4, PSVita, PC, MacOS e Linux.
Lo seguivamo da tempo e finalmente è uscito.
Riusciranno gli oldgamer di tutto il mondo a resistere al suo fascino?!?
Nel primo e nel secondo round di questa sfida cromatica tra Amiga e PC nei primi anni '90, abbiamo preso in considerazione giochi d'azione con massiccio e veloce spostamento di grafica 2D e/o scrolling, constatando senza troppi patemi la vittoria dell'Amiga. Se tuttavia la macchina Commodore non poteva su questo fronte essere impensierita dal PC, un altro pericoloso fronte era rimasto sguarnito...
III ROUND: PC POMPATO CONTRO AMIGA PRESO IN CONTROPIEDE
Nel 1990 due case, la Sierra e la Origin, decisero che i 256 colori della VGA li volevano proprio usare, 64Kb di RAM video o meno. I fondali digitalizzati di King's Quest 5 o lo spettacolo di Wing Commander misero per la prima volta il PC al centro dell'attenzione videoludica. Ovviamente i porting Amiga di questi titoloni non potevano mancare, ma...
Abbiamo visto come con sprite hardware e scambi di palette l'Amiga poteva arrivare anche a spalmare centinaia di colori su schermo, ma con un caveat grosso come una casa: la composizione dell'immagine doveva essere stata pensata in funzione di queste procedure. Insomma, le animazioni avrebbero dovuto avere una certa larghezza e un certo numero di colori, le sfumature dovevano essere distribuite su linee orizzontali... Ma se la grafica nasceva su VGA? Non c'era bisogno di porsi questi limiti sul PC, quei 256 colori potevi metterli dove volevi! Non era più questione di finezze tecniche, era solo questione di muscoli. Essendo quasi impossibile il processo inverso, cioè scomporre in aree ciò che nasceva omogeneo, il porting Amiga di un King's Quest 5 non poteva che accontentarsi di... avrete indovinato... esatto: 32 colori, il limite massimo per la grafica "libera" su Amiga. Che botta. Sfumature sparite, aree sporche, dettagli persi: per la prima volta la macchina Commodore subiva lo stesso destino che aveva subito il PC qualche anno prima. L'unica feature tipicamente amighesca usata in queste conversioni era un solo soletto sprite hardware: il cursore del mouse! Anche liberare due-tre colori era importante, in queste condizioni...
Ma era proprio inevitabile che la conversione cromatica fosse così crudele?
La Sierra fu corresponsabile di un affossamento esagerato della macchina: ho infatti realizzato con orrore che le loro avventure grafiche che giravano con il motore SCI1 (quello che su PC offriva i 256 colori e il punta & clicca, per intenderci), una volta portate su Amiga, usavano una palette di 32 colori fissa. Perché mai avranno deciso di non rimappare i colori schermata per schermata, avendone a disposizione 4096? Mistero, specie se consideriamo che il sonoro era piuttosto curato, e che le conversioni grafiche dell'affiliata Dynamix erano invece buone (si veda Rise of the Dragon). Fatto sta che avventure come King's Quest 5, Space Quest 4 o Leisure Suit Larry 5 su Amiga avevano un aspetto orrendo, indegno della macchina, pur tenendone in conto i limiti.
Per fortuna, alla LucasArts c'era chi si muoveva meglio... Nel caso di avventure e giochi a tutto schermo era complicatissimo ricorrere allo scambio di palette (non essendo appunto i cambi di colore su VGA regolati su linee orizzontali), eppure alcuni programmatori di George seguirono una strategia di questo tipo, per i loro adventure game con inventario e interfaccia nella parte inferiore dello schermo. Guardiamo queste schermate dell'immortale Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge (1992).L'immagine PC, ovviamente in modalità VGA piena, presenta ben 207 colori. Quella Amiga si difende con... 42! Da dove arrivano? Il gioco su Amiga adotta sempre la modalità a 32 colori, ma è visualizzato combinando due schermi diversi, uno sopra all'altro: quello superiore mostra la schermata di gioco (con palette variabile), quello in basso mostra l'inventario (con palette fissa). La linea di demarcazione nera tra i due schermi è furbescamente mimetizzata dalla naturale cesura orizzontale nera tra le due zone, a due terzi dello schermo. E' possibile comunque notarla con un minimo d'attenzione, perché - fateci caso - il cursore del mouse vi passa sotto!
Nello screenshot qui sopra ci sono per esempio 27 colori per la schermata di gioco e 22 per l'inventario (la somma dà 49, ne deduciamo che in quest'immagine 7 erano in comune a entrambe le zone). Si trattava di salvare il salvabile. Immaginate cosa sarebbe accaduto senza adottare due schermi con palette distinte: se la finestra di gioco avesse condiviso i 32 colori con l'inventario, ne sarebbero rimasti liberi in media una decina!!!
Anche se si perdevano alcuni dettagli, nonché gli effetti di illuminazione progressiva su Guybrush, pochi amighisti rimasero delusi dalla conversione, almeno per quanto riguarda la grafica, che si avvaleva inoltre per la prima volta dello scrolling fluido a 50fps dell'Amiga.
Così come nessuno rimase deluso dal lavoro della Westwood, che usò i 32 colori al meglio per tradurre altri baluardi della VGA: Legend of Kyrandia, Dune 2 e Eye of the Beholder 2 (quest'ultimo l'ho piazzato ad honorem in cima all'articolo).
Umiliata dalla concorrenza, la Sierra aveva provato a rialzare la testa con Conquest of the Longbow, uno dei pochi titoli su Amiga che rischiasse in-game la modalità EHB a pseudo-64 colori (spiegata nella parte II), finalmente con un pizzico di rimappatura qui e lì. Nonostante però una resa migliore delle precedenti, la velocità su un Amiga standard era imbarazzante: al confronto con il buon Robin Hood, un bradipo era Usain Bolt. Dopo Longbow, la Sierra sventolò bandiera bianca, ammettendo di non riuscire a ottimizzare i porting Commodore. Per non lasciare l'amaro in bocca, uscì dalla scena Amiga affidando la conversione di King's Quest 6 ai britannici Revolution Software (quelli di Broken Sword), che con saggezza rimasero sui 32 colori rimappandoli costantemente. Un bagno d'umiltà tardivo.
La vera umiliazione per gli amighisti arrivò nel 1992, quando dopo due anni la Mindscape, su licenza Origin, presentò il porting di Wing Commander. Una lavorazione che qualcuno riteneva impossibile, al limite del vaporware annunciato. Era un momento delicato. Wing Commander era la spettacolarità pura, era il nuovo corso. Vi lascio a contemplare il risultato. No, su Amiga i colori non erano nemmeno 32. Erano 16! Il programmatore Nick Pelling, che prese a cuore il compito, ci provò in tutti i modi: ci fu un rolling demo in EHB, poi scartò i 32 colori per problemi di velocità. Ma i cattivi Kilrathi erano ancora troppo lenti e allora... obtorto collo... 16. Per l'architettura interna dell'Amiga, all'attivazione della modalità a 32 colori, la gestione della memoria rallentava sensibilmente. Era un problema relativo per giochi leggeri negli asset, o per giochi pesanti negli asset ma lenti nel ritmo (come Monkey Island 2), ma Wing Commander, pesante e veloce, sarebbe risultato ingiocabile... Non era quindi il caso di disprezzare Pelling, al quale è legata peraltro una bella storia. Si ammalò gravemente di encefalite durante il lavoro di conversione; un po' per rispetto, un po' perché la committente Origin riteneva il trasloco su Amiga impossibile e secondario, la Mindscape decise di aspettare la sua guarigione e di non assumere un altro coder. Storie d'altri tempi.
Scommetto che qualche appassionato di action avrà deciso di pensionare la macchina Commodore di fronte a questi 16 colori. Certo, due anni dopo sarebbe arrivata la versione a 256 colori per la console Amiga CD32, ma quattro anni di distanza dall'originale PC furono davvero troppi per la reputazione della gloriosa linea.
Dopo due round a favore dell'Amiga, questo giro lo vince quindi a mani basse il PC. La VGA era stata scoperta in tutta la sua gloria. Ma almeno sugli action a scorrimento in 2D l'Amiga aveva ancora l'egemonia assoluta, no? No?
IV ROUND: PC MATURO CONTRO AMIGA RAFFINATO
Facciamo un piccolo passo indietro. Nella I parte avevo scritto che i 16 colori per gli action bidimensionali su PC erano preferibili, perché la memoria video poteva preparare più di un fotogramma per volta, con guadagno di fluidità e velocità. Avevo anche scritto che ciò non era possibile con i 64Kb di RAM video della VGA nella "modalità più semplice". Non ho scritto solo "i 64Kb della VGA", perché... beh... la VGA in realtà di serie aveva 256Kb di RAM video! Per facilità di programmazione e per retrocompatibilità con una sorta di pre-VGA che si chiamava MCGA, ci si limitava a usarne solo 64Kb in una modalità semplificata.
Nel 1991 tuttavia il famoso programmatore Michael Abrash pubblicò sul Dr. Dobb's Journal un articolo in cui sostanzialmente diceva: "Vabbe', mo' basta con 'sti 64Kb. Vogliamo usare tutta la RAM o no? Vogliamo applicare lo stesso processo che applicavamo con i 16 colori allo splendore dei 256?" Abrash ribattezzò queste tecniche di programmazione (per molti una vera rivoluzione) con il nome di "Mode X": lui stesso ammetteva di non averle inventate, ma di volerle solo condividere, a differenza di altri programmatori che le conoscevano e le avevano usate senza troppa pubblicità. A cosa si riferiva? Forse a questo? La versione PC del coin-op Golden Axe della Sega, datata 1990 (!!!), è ancora oggi ricordata con piacere: sfido io, si presentava con scrolling fluido, animazioni grandi e una trentina di colori su schermo. VGA pura, e spiando tra le pieghe degli emulatori.... scopriamo che era in "Mode X", ancora prima che Abrash lo battezzasse!
Mosche bianche a parte, dopo la pubblicazione dell'articolo di Abrash, il PC osò salire sul ring dell'Amiga con regolarità, lasciandosi definitivamente alle spalle le palle al piede EGA e CGA. Guardiamo cosa ci combinò il Mode X nel 1993, con il porting PC di una pietra miliare del platform come James Pond 2 - Robocod (Millennium), di due anni prima. Su Amiga il classico di Chris Sorrell girava a 16 colori, con uno sfondo monocromatico in parallasse, colorato in tempo reale tramite scambio di palette: in quella schermata i colori alla fine sono una trentina. Con la VGA libera e bella, il merluzzo bionico sul PC ne offriva altrettanti, pur con un parallasse diverso (forse perché lo scrolling era più facile da gestire con un pattern più piccolo? Chissà).
Ma sempre grazie al Mode X il PC nel 1994 andò oltre e osò l'inosabile: Superfrog. Osserviamo prima quest'immagine. Eroe del periodo tardo dell'Amiga, quando l'uso del computer si sposava alla finezza, il ranocchio supereroico dei Team 17 offriva una grafica in 320x256 a 32 colori, organizzata in-game in modo elegantissimo. Solo la barra di stato in alto mostra 36 colori: sarebbero 27, ma ci sono due scambi di palette nella prima e nell'ultima linea della barra (!), giusto per creare una leggera ombreggiatura. Tiè, finezza del grafico Rico Holmes, tanto per gradire. La finestra di gioco è disegnata con un'altra palette variabile di 32 colori (nello screenshot ce ne sono 30). Infine, ciliegina sulla torta per usare tutte le possibilità dei chip, il protagonista e il contatore delle monete in basso a destra sono sprite hardware. Tra ripetizioni, sprite e aree dello schermo diverse, l'immagine Amiga di cui sopra alla fine vi sbatte in faccia 57 colori. E per raggiungerli il Team 17 non ebbe nemmeno bisogno delle solite barre di colore acide. Ora passiamo al PC. Per ragioni di diversa risoluzione e scrolling, che per questo titolo doveva essere fluidissimo e veloce, gli autori della versione PC decisero di liberarsi della barra di stato, rendendo alcune informazioni a scomparsa e collocando il tempo rimanente in basso a destra. Ma fu l'unico strappo grafico.
I colori nella finestra di gioco erano esattamente gli stessi, e per giunta la versione PC si avvaleva grazie al Mode X di una risoluzione comunque leggermente più alta del solito 320x200, cioè 320x240. Cosa più significativa, girava in scioltezza sfiorando i 60fps! C'erano differenze rispetto al controllo del personaggio su Amiga (su PC il gioco era più veloce e più difficile anche a livello "facile"), ma quello che ci interessa in questa sede è che non c'erano più sensibili compromessi estetici.
Un cattivo bilancio per l'Amiga. Battuto sul fronte avventure, gdr e grandi produzioni, cominciò a trovarsi il PC in casa propria, nell'universo arcade. Lì vinceva ancora, ma il punto era un altro: perché case come la Millennium o i Team 17 azzardavano versioni PC di giochi che fino a due anni prima sarebbero risultati tecnicamente proibitivi per gli IBM compatibili, nonché alieni a quell'utenza? Risposta semplice: in due anni, dal 1991 al 1993, il serio PC era diventato una macchina da gioco a 360°.
Nella prossima e ultima parte tireremo le somme su questa appassionante battaglia, non prima di aver discusso di casi particolari, cioè di alcuni giochi che, come il citato Golden Axe, sovvertirono in parte le regole descritte fino ad ora in questi articoli...
A cura di: Domenico "Diduz" Misciagna
Erano anni che gli OldGamer di mezzo mondo attendevano questo momento. Finalmente quei polacchi di GOG.com sono riusciti a strappare dalle grinfie della Disney le licenze per mettere in vendita alcuni dei gioconi prodotti in passato dalla Lucasarts. Qui sotto la lista completa della prima infornata di giochi, tutti classici immortali.
Star Wars™: X-Wing Special Edition – digital distribution debut, on GOG.com!
Star Wars™: TIE Fighter Special Edition – digital distribution debut, on GOG.com!
Sam & Max Hit the Road – digital distribution debut, on GOG.com!
The Secret of Monkey Island™: Special Edition
Indiana Jones® and the Fate of Atlantis™
Star Wars®: Knights of the Old Republic
Ogni appassionato di retrogame non può non conoscere il mitico Zak Mckracken and the Alien Mindenbers, gioco realizzato nel 1988 dall'ormai defunta (ahinoi) Lucasfilm. Invece può darsi che non tutti conoscano The New Adventures of Zak Mckracken, seguito amatoriale dedicato al famoso giornalista, programmato nel 2002 con il motore AGS da alcuni fan che hanno formato un gruppo, prevalentemente tedesco, chiamato LucasFan Games. Si tratta di un tipico punta e clicca sulla falsariga dello Zak ufficiale, tradotto in diverse lingue tra cui l'italiano (grazie ai ragazzi dello IAGTG) e scaricabile anche dal sito di OGI qui.
L'avventura, dopo un breve filmato introduttivo che la ricollega a quella precedente, inizia con una storia a sé stante, con il nostro giornalista alle prese con il rapimento di Annie, l'ufologa che abbiamo già conosciuto nel primo capitolo. Perchè è vero che la storia è nuova, ma è altrettanto vero che ci sono moltissimi richiami al capitolo precedente, a cominciare proprio da alcuni personaggi, per continuare con varie locazioni, filmati d'intermezzo sullo stesso stile, il comparto grafico e addirittura lo stesso rumore dei passi di Zak!Insomma, possiamo dire che, i retrogamers che ricordano con nostalgia la prima avventura di Zak, in questo seguito avranno la possibilità di rituffarsi nel passato riportando alla mente i vecchi tempi.
Oltretutto, durante il gioco, possiamo assistere a vari richiami ad altre avventure della Lucas. Ma veniamo al gioco in sé: parliamo di un punta e clicca in terza persona con il gameplay classico delle avventure Lucas, con i verbi nella parte inferiore sinistra dello schermo e l'inventario nella parte inferiore destra.Cliccando sul verbo e poi su un punto/oggetto attivo il nostro personaggio esegue l'azione richiesta, se possibile.Non ci sono enigmi veri e propri, ma la maggior parte delle azioni si basa proprio sulla combinazione di oggetti, sul capire dove usarli o con chi. Le mosse da compiere nelle varie locazioni sono quasi sempre abbastanza logiche, sicuramente più di quelle del primo capitolo, la difficoltà non è elevata e risiede principalmente in un aspetto: capire l'ordine delle azioni da svolgere. Infatti, poiché ci sono una quindicina di locazioni tutte raggiungibili già dall'inizio del gioco tramite viaggi aerei, può capitare di rimanere bloccati perchè per andare avanti bisogna recuperare un detreminato oggettto che non si sa dove trovare e che è indispensabile per proseguire.
Il sito di OldGamesItalia è attualmente "in letargo". Nuovi contenuti saranno aggiunti con minore regolarità e con possibili lunghe pause tra un articolo e l'altro.
Il forum rimane attivo, ma meno legato al sito, e gli aggiornamenti riguarderanno principalmente le sezioni di IF Italia e della versione italiana del Digital Antiquarian e del CRPG Addict.
Grazie a chi ci è stato vicino nei vent'anni di attività "regolare" di OldGamesItalia, a chi ha collaborato o a chi ci ha soltanto consultati per scoprire il mondo del retrogaming. Speriamo di avere presto nuove energie per riprendere un discorso che non vogliamo davvero interrompere.
Grazie, OGI. Arrivederci!
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