L'annuncio di Revolution Software arriva un po' a sorpresa ma fa piacere a tantissimi fan: è in sviluppo presso lo studio il sequel di Beneath a Steel Sky, l'avventura distopica del 1994.
Si chiamerà Beyond a Steel Sky e potrà vantare i disegni di Dave Gibbons e il tipico humor della Revolution. Gli obiettivi della software house sono ambiziosi: il gioco sarà ambientato in un mondo molto reattivo alle scelte del giocatore e che permetterà soluzioni alternative e intelligenti agli ostacoli che verranno posti davanti al giocatore.
Beyond a Steel Sky uscirà per PC, console e dispositivi Apple.
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Titolo: 5x00 - Speciale Gamescom | ![]() ![]() |
Arriva finalmente la registrazione della live del 25 agosto, in cui abbiamo accolto i nostri amici della Stelex Software (Stefano e Tania Maccarinelli) per chiacchierare a lungo del Gamescom, la fiera di videogiochi più importante d'Europa. Insieme alla partecipazione in diretta dei nostri ascoltatori, abbiamo snocciolato curiosità, anteprime e - sopratutto - simpatici aneddoti del nostro idolo incontrastato: l'epico-epico Charles Cecil!
Ma si parlerà anche di Syberia 3, Yesterday Origins, Detroit: Become Human, i nuovi giochi Daedalic e Revolution e tanto altro! Buon ascolto!
Nel primo e nel secondo round di questa sfida cromatica tra Amiga e PC nei primi anni '90, abbiamo preso in considerazione giochi d'azione con massiccio e veloce spostamento di grafica 2D e/o scrolling, constatando senza troppi patemi la vittoria dell'Amiga. Se tuttavia la macchina Commodore non poteva su questo fronte essere impensierita dal PC, un altro pericoloso fronte era rimasto sguarnito...
III ROUND: PC POMPATO CONTRO AMIGA PRESO IN CONTROPIEDE
Nel 1990 due case, la Sierra e la Origin, decisero che i 256 colori della VGA li volevano proprio usare, 64Kb di RAM video o meno. I fondali digitalizzati di King's Quest 5 o lo spettacolo di Wing Commander misero per la prima volta il PC al centro dell'attenzione videoludica. Ovviamente i porting Amiga di questi titoloni non potevano mancare, ma...
Abbiamo visto come con sprite hardware e scambi di palette l'Amiga poteva arrivare anche a spalmare centinaia di colori su schermo, ma con un caveat grosso come una casa: la composizione dell'immagine doveva essere stata pensata in funzione di queste procedure. Insomma, le animazioni avrebbero dovuto avere una certa larghezza e un certo numero di colori, le sfumature dovevano essere distribuite su linee orizzontali... Ma se la grafica nasceva su VGA? Non c'era bisogno di porsi questi limiti sul PC, quei 256 colori potevi metterli dove volevi! Non era più questione di finezze tecniche, era solo questione di muscoli. Essendo quasi impossibile il processo inverso, cioè scomporre in aree ciò che nasceva omogeneo, il porting Amiga di un King's Quest 5 non poteva che accontentarsi di... avrete indovinato... esatto: 32 colori, il limite massimo per la grafica "libera" su Amiga.
Che botta. Sfumature sparite, aree sporche, dettagli persi: per la prima volta la macchina Commodore subiva lo stesso destino che aveva subito il PC qualche anno prima. L'unica feature tipicamente amighesca usata in queste conversioni era un solo soletto sprite hardware: il cursore del mouse! Anche liberare due-tre colori era importante, in queste condizioni...
Ma era proprio inevitabile che la conversione cromatica fosse così crudele?
La Sierra fu corresponsabile di un affossamento esagerato della macchina: ho infatti realizzato con orrore che le loro avventure grafiche che giravano con il motore SCI1 (quello che su PC offriva i 256 colori e il punta & clicca, per intenderci), una volta portate su Amiga, usavano una palette di 32 colori fissa. Perché mai avranno deciso di non rimappare i colori schermata per schermata, avendone a disposizione 4096? Mistero, specie se consideriamo che il sonoro era piuttosto curato, e che le conversioni grafiche dell'affiliata Dynamix erano invece buone (si veda Rise of the Dragon). Fatto sta che avventure come King's Quest 5, Space Quest 4 o Leisure Suit Larry 5 su Amiga avevano un aspetto orrendo, indegno della macchina, pur tenendone in conto i limiti.
Per fortuna, alla LucasArts c'era chi si muoveva meglio... Nel caso di avventure e giochi a tutto schermo era complicatissimo ricorrere allo scambio di palette (non essendo appunto i cambi di colore su VGA regolati su linee orizzontali), eppure alcuni programmatori di George seguirono una strategia di questo tipo, per i loro adventure game con inventario e interfaccia nella parte inferiore dello schermo. Guardiamo queste schermate dell'immortale Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge (1992).L'immagine PC, ovviamente in modalità VGA piena, presenta ben 207 colori. Quella Amiga si difende con... 42! Da dove arrivano? Il gioco su Amiga adotta sempre la modalità a 32 colori, ma è visualizzato combinando due schermi diversi, uno sopra all'altro: quello superiore mostra la schermata di gioco (con palette variabile), quello in basso mostra l'inventario (con palette fissa). La linea di demarcazione nera tra i due schermi è furbescamente mimetizzata dalla naturale cesura orizzontale nera tra le due zone, a due terzi dello schermo. E' possibile comunque notarla con un minimo d'attenzione, perché - fateci caso - il cursore del mouse vi passa sotto!
Nello screenshot qui sopra ci sono per esempio 27 colori per la schermata di gioco e 22 per l'inventario (la somma dà 49, ne deduciamo che in quest'immagine 7 erano in comune a entrambe le zone). Si trattava di salvare il salvabile. Immaginate cosa sarebbe accaduto senza adottare due schermi con palette distinte: se la finestra di gioco avesse condiviso i 32 colori con l'inventario, ne sarebbero rimasti liberi in media una decina!!!
Anche se si perdevano alcuni dettagli, nonché gli effetti di illuminazione progressiva su Guybrush, pochi amighisti rimasero delusi dalla conversione, almeno per quanto riguarda la grafica, che si avvaleva inoltre per la prima volta dello scrolling fluido a 50fps dell'Amiga.
Così come nessuno rimase deluso dal lavoro della Westwood, che usò i 32 colori al meglio per tradurre altri baluardi della VGA: Legend of Kyrandia, Dune 2 e Eye of the Beholder 2 (quest'ultimo l'ho piazzato ad honorem in cima all'articolo).
Umiliata dalla concorrenza, la Sierra aveva provato a rialzare la testa con Conquest of the Longbow, uno dei pochi titoli su Amiga che rischiasse in-game la modalità EHB a pseudo-64 colori (spiegata nella parte II), finalmente con un pizzico di rimappatura qui e lì. Nonostante però una resa migliore delle precedenti, la velocità su un Amiga standard era imbarazzante: al confronto con il buon Robin Hood, un bradipo era Usain Bolt.
Dopo Longbow, la Sierra sventolò bandiera bianca, ammettendo di non riuscire a ottimizzare i porting Commodore. Per non lasciare l'amaro in bocca, uscì dalla scena Amiga affidando la conversione di King's Quest 6 ai britannici Revolution Software (quelli di Broken Sword), che con saggezza rimasero sui 32 colori rimappandoli costantemente. Un bagno d'umiltà tardivo.
La vera umiliazione per gli amighisti arrivò nel 1992, quando dopo due anni la Mindscape, su licenza Origin, presentò il porting di Wing Commander. Una lavorazione che qualcuno riteneva impossibile, al limite del vaporware annunciato. Era un momento delicato. Wing Commander era la spettacolarità pura, era il nuovo corso. Vi lascio a contemplare il risultato.
No, su Amiga i colori non erano nemmeno 32. Erano 16! Il programmatore Nick Pelling, che prese a cuore il compito, ci provò in tutti i modi: ci fu un rolling demo in EHB, poi scartò i 32 colori per problemi di velocità. Ma i cattivi Kilrathi erano ancora troppo lenti e allora... obtorto collo... 16. Per l'architettura interna dell'Amiga, all'attivazione della modalità a 32 colori, la gestione della memoria rallentava sensibilmente. Era un problema relativo per giochi leggeri negli asset, o per giochi pesanti negli asset ma lenti nel ritmo (come Monkey Island 2), ma Wing Commander, pesante e veloce, sarebbe risultato ingiocabile... Non era quindi il caso di disprezzare Pelling, al quale è legata peraltro una bella storia. Si ammalò gravemente di encefalite durante il lavoro di conversione; un po' per rispetto, un po' perché la committente Origin riteneva il trasloco su Amiga impossibile e secondario, la Mindscape decise di aspettare la sua guarigione e di non assumere un altro coder. Storie d'altri tempi.
Scommetto che qualche appassionato di action avrà deciso di pensionare la macchina Commodore di fronte a questi 16 colori. Certo, due anni dopo sarebbe arrivata la versione a 256 colori per la console Amiga CD32, ma quattro anni di distanza dall'originale PC furono davvero troppi per la reputazione della gloriosa linea.
Dopo due round a favore dell'Amiga, questo giro lo vince quindi a mani basse il PC. La VGA era stata scoperta in tutta la sua gloria. Ma almeno sugli action a scorrimento in 2D l'Amiga aveva ancora l'egemonia assoluta, no? No?
IV ROUND: PC MATURO CONTRO AMIGA RAFFINATO
Facciamo un piccolo passo indietro. Nella I parte avevo scritto che i 16 colori per gli action bidimensionali su PC erano preferibili, perché la memoria video poteva preparare più di un fotogramma per volta, con guadagno di fluidità e velocità. Avevo anche scritto che ciò non era possibile con i 64Kb di RAM video della VGA nella "modalità più semplice". Non ho scritto solo "i 64Kb della VGA", perché... beh... la VGA in realtà di serie aveva 256Kb di RAM video! Per facilità di programmazione e per retrocompatibilità con una sorta di pre-VGA che si chiamava MCGA, ci si limitava a usarne solo 64Kb in una modalità semplificata.
Nel 1991 tuttavia il famoso programmatore Michael Abrash pubblicò sul Dr. Dobb's Journal un articolo in cui sostanzialmente diceva: "Vabbe', mo' basta con 'sti 64Kb. Vogliamo usare tutta la RAM o no? Vogliamo applicare lo stesso processo che applicavamo con i 16 colori allo splendore dei 256?" Abrash ribattezzò queste tecniche di programmazione (per molti una vera rivoluzione) con il nome di "Mode X": lui stesso ammetteva di non averle inventate, ma di volerle solo condividere, a differenza di altri programmatori che le conoscevano e le avevano usate senza troppa pubblicità. A cosa si riferiva? Forse a questo? La versione PC del coin-op Golden Axe della Sega, datata 1990 (!!!), è ancora oggi ricordata con piacere: sfido io, si presentava con scrolling fluido, animazioni grandi e una trentina di colori su schermo. VGA pura, e spiando tra le pieghe degli emulatori.... scopriamo che era in "Mode X", ancora prima che Abrash lo battezzasse!
Mosche bianche a parte, dopo la pubblicazione dell'articolo di Abrash, il PC osò salire sul ring dell'Amiga con regolarità, lasciandosi definitivamente alle spalle le palle al piede EGA e CGA. Guardiamo cosa ci combinò il Mode X nel 1993, con il porting PC di una pietra miliare del platform come James Pond 2 - Robocod (Millennium), di due anni prima.
Su Amiga il classico di Chris Sorrell girava a 16 colori, con uno sfondo monocromatico in parallasse, colorato in tempo reale tramite scambio di palette: in quella schermata i colori alla fine sono una trentina. Con la VGA libera e bella, il merluzzo bionico sul PC ne offriva altrettanti, pur con un parallasse diverso (forse perché lo scrolling era più facile da gestire con un pattern più piccolo? Chissà).
Ma sempre grazie al Mode X il PC nel 1994 andò oltre e osò l'inosabile: Superfrog. Osserviamo prima quest'immagine. Eroe del periodo tardo dell'Amiga, quando l'uso del computer si sposava alla finezza, il ranocchio supereroico dei Team 17 offriva una grafica in 320x256 a 32 colori, organizzata in-game in modo elegantissimo. Solo la barra di stato in alto mostra 36 colori: sarebbero 27, ma ci sono due scambi di palette nella prima e nell'ultima linea della barra (!), giusto per creare una leggera ombreggiatura. Tiè, finezza del grafico Rico Holmes, tanto per gradire.
La finestra di gioco è disegnata con un'altra palette variabile di 32 colori (nello screenshot ce ne sono 30). Infine, ciliegina sulla torta per usare tutte le possibilità dei chip, il protagonista e il contatore delle monete in basso a destra sono sprite hardware. Tra ripetizioni, sprite e aree dello schermo diverse, l'immagine Amiga di cui sopra alla fine vi sbatte in faccia 57 colori. E per raggiungerli il Team 17 non ebbe nemmeno bisogno delle solite barre di colore acide. Ora passiamo al PC.
Per ragioni di diversa risoluzione e scrolling, che per questo titolo doveva essere fluidissimo e veloce, gli autori della versione PC decisero di liberarsi della barra di stato, rendendo alcune informazioni a scomparsa e collocando il tempo rimanente in basso a destra. Ma fu l'unico strappo grafico.
I colori nella finestra di gioco erano esattamente gli stessi, e per giunta la versione PC si avvaleva grazie al Mode X di una risoluzione comunque leggermente più alta del solito 320x200, cioè 320x240. Cosa più significativa, girava in scioltezza sfiorando i 60fps! C'erano differenze rispetto al controllo del personaggio su Amiga (su PC il gioco era più veloce e più difficile anche a livello "facile"), ma quello che ci interessa in questa sede è che non c'erano più sensibili compromessi estetici.
Un cattivo bilancio per l'Amiga. Battuto sul fronte avventure, gdr e grandi produzioni, cominciò a trovarsi il PC in casa propria, nell'universo arcade. Lì vinceva ancora, ma il punto era un altro: perché case come la Millennium o i Team 17 azzardavano versioni PC di giochi che fino a due anni prima sarebbero risultati tecnicamente proibitivi per gli IBM compatibili, nonché alieni a quell'utenza? Risposta semplice: in due anni, dal 1991 al 1993, il serio PC era diventato una macchina da gioco a 360°.
Nella prossima e ultima parte tireremo le somme su questa appassionante battaglia, non prima di aver discusso di casi particolari, cioè di alcuni giochi che, come il citato Golden Axe, sovvertirono in parte le regole descritte fino ad ora in questi articoli...
A cura di: Domenico "Diduz" Misciagna
Tipici caffè, gallerie d'arte, boulevard, monumenti storici e atmosfere romantiche a iosa. Insomma, Parigi.
Ma se all'idilliaco quadretto aggiungiamo assassini, avventure e antichi misteri, beh, la ragione non può essere che una sola: George Stobbart è tornato in città.
Fin dalle prime battute, Broken Sword 5 richiama volutamente il primo titolo della serie, nel tentativo di replicarne l'atmosfera. Nato da un kickstarter annunciato nell'agosto del 2012 e finanziato in 13 giorni, Broken Sword 5 rappresenta un altro dei brand “classici” che cercano di farsi strada nel mercato odierno grazie all'appoggio dei fan della serie e degli appassionati del genere invece che del pubblico mainstream. I fan hanno appoggiato il gioco con molto entusiasmo: fra kickstarter e paypal, il creatore del gioco, Charles Cecil, ha racimolato circa il doppio di quel che chiedeva.
E, come vedremo, ha voluto accontentare i suoi backers con un tentativo di ritorno alle origini molto lampante. Vediamo quanto ci è riuscito.
La trama è esattamente quella che ci si potrebbe aspettare da un Broken Sword, ossia un mix di complotti e leggende mistiche. Il nostro George, questa volta, sta assistendo all'inaugurazione della galleria d'arte assicurata dalla compagnia per cui lavora ed è in compagnia di Nico, decisa a fare un articolo sull'evento. Naturalmente, però, proprio quel giorno un ladro decide di rubare uno dei dipinti e di ammazzare il proprietario della galleria: a George tocca indagare sul misfatto, visto che il suo capo non ha intenzione di scucire un soldo. Altrettanto naturalmente, il dipinto rubato non è un dipinto qualsiasi, ma è La Maledicciò, un'opera d'arte gnostica che conterrebbe i segreti per... erhm... qualcosa che permetterebbe ai Kattivi di rendere il mondo un posto molto più brutto di quel che già non è.
Come probabilmente già saprete, Broken Sword 5 fu rilasciato in due parti; oggi, però, le due metà vengono vendute assieme, e si giocano senza alcuno stacco. Sembrerebbe quindi che non abbia senso fare un'analisi separata delle due metà, ma ci sono alcune differenze che le rendono piuttosto mal amalgamante.
La prima metà è senz'altro la più noiosa. Se anche l'incipit può essere interessante, e il feeling è abbastanza “brokenswordesco” da ammaliare di nostalgia chi ha amato i primi due titoli della saga, gran parte della prima metà del gioco è senza mordente e la si passa a parlare con gli stessi quattro personaggi nelle stesse quattro locations. Narrativamente sembra che la storia si trascini invece di prendere il via alla grande, dando così l'impressione di star giocando un lungo preludio.
Nella seconda metà, invece, c'è molta più varietà di locations, personaggi e situazioni; c'è anche qualche colpo di scena, benché non credo che possano davvero sorprendere il giocatore un minimo sgamato. Quello che delude un po' è il climax, che ho trovato sottotono rispetto alla posta in gioco e alla situazione che si era sviluppata: non c'è un vero crescendo di tensione, non si vede mai una prova della minaccia posta dall'oggetto che stiamo cercando, ci sono solo tante belle parole che lasciano il tempo che trovano e il gioco si chiude in maniera decisamente troppo sbrigativa, quasi come se alla fin fine non stessimo salvando il mondo, ma solo recuperando il micio della vicina di casa.
Detto questo, è chiaro che non possiamo parlare di una “grande trama”: non solo una buona parte degli eventi è prevedibile, ma troviamo anche alcune parti del tutto cliché, o stupide. Ma BS ha un paio di carte speciali da giocare per compensare queste mancanze: l'umorismo sempre un po' sopra le righe di George e Nico e il tono a metà fra il demenziale e il semplicemente comico di tutta la storia. Nessuno, nella trama, si prende troppo sul serio – tranne i kattivi, che vengono sbeffeggiati con estrema nonchalance dai nostri eroi. Questo tipo di autoironia, unito alla demenzialità assoluta di alcune scene, in bilico tra possibile e impossibile, riesce a rendere piacevole una storia che presenta diversi difetti.
Altro aspetto che mi ha convinta poco è il rapporto fra George e Nico: da un lato fra i due c'è estrema complicità e fiducia, si vede che sono una coppia rodata, che sanno di poter contare l'uno sull'altra. Dall'altro lato, sembra che siano tornati alla relazione che avevano nel primo Broken Sword, e non si capisce la logica di questa mossa. Nel primo titolo, George e Nico non si conoscevano, e fra loro c'era una certa tensione che rendeva vivo e interessante il rapporto fino alla fine del gioco, in cui i due si mettevano assieme. Dal secondo titolo in poi, si era cercato di mantenere interessante la dinamica fra i due eroi con l'introduzione di “ostacoli” (uno spasimante per Nico, una ragazza per George, e via così). Adesso, invece, la tensione del primo capitolo non c'è più, logicamente, perché i due sono già stati una coppia. Ma i due si comportano come se non fosse successo niente e dovessero ancora mettersi insieme. Si resta un po' interdetti e la cosa perde realismo; personalmente, ho avuto spesso l'impressione che il loro rapporto sapesse di stantio. Credo che sarebbe stato meglio farli tornare una coppia vera e propria, oppure mostrare che i due hanno capito di essere amici e basta. Insomma, qualsiasi cosa tranne questo mezzo passo indietro.
Una nota a parte va fatta per le citazioni dei vecchi Broken Sword. Ce ne sono a palate, a cominciare, come dicevo sopra, dalla primissima frase di George, per finire con i personaggi. Se alcuni era naturale aspettarseli, e la loro presenza ha senso (sì, c'è la capra), altri sono evidentemente stati aggiunti per fare fanservice, e in realtà fanno alzare più di un sopracciglio. Senza fare spoiler precisi, la presenza di Lady Piermont, nel contesto in cui è stata piazzata, mi ha lasciata abbastanza scettica. Serviva proprio inserirla tanto per? E' un difetto minore, ma si sente che alcune parti sono state create solo per strizzare l'occhio al vecchio fan e non si mischiano benissimo col resto del gioco.
Passiamo agli enigmi. Chi ha amato i primi BS si troverà a casa: sono i classici enigmi da inventario e da combinazione oggetti, con l'aggiunta di qualche dialogo in cui trovare le giuste risposte, per variare. E come la storia, anch'essi seguono una logica dettata dall'umorismo del titolo. Ecco quindi che, così com'è possibile che i pg facciano dibattiti filosofici appesi sul vuoto, voi potreste trovarvi a usare una macchia di pomodoro per dare l'idea del sangue – e potete aspettarvi che la gente ci caschi. Qualcuno di questi enigmi è forse un po' troppo demenziale anche per Broken Sword, e qualcuno non lo è abbastanza, risultando semplicemente illogico, ma in generale la loro logica mi è sembrata ben pensata e più di uno fa sorridere. Purtroppo falliscono sotto l'aspetto puramente ludico: sono quasi tutti estremamente semplici, io mi sono bloccata solo due o tre volte in tutto il gioco e mi chiedo a cosa serva il sistema di hint integrato nel gioco.
Anche l'aspetto grafico è un ritorno al passato, per quanto “modernizzato”: niente 3D (grazie al cielo), ma un 2.5D più che dignitoso. Le locations, in 2D, sono disegnate benissimo, con colori stupendi e piene di dettagli; i modelli dei personaggi, in 3D per mancanza di fondi, vanno dal buono al discreto: qualche volta si notano scalettature in quelli secondari, ma per la maggior parte sono ben realizzati e ben animati.
La colonna sonora richiama moltissimo quelle dei primi due Broken Sword, senza però essere apertamente riciclata; di solito le musiche rendono bene l'atmosfera della scena, ma nessuna rimane particolarmente impressa.
Giudizio né positivo né negativo per il doppiaggio. Quello italiano, a parte un paio di personaggi (George, che quasi sempre trovo abbia un doppiaggio italiano migliore anche di quello originale), mi è sembrato orribile. Quello originale inglese va da una buona recitazione a una troppo macchinosa, come nel caso dell'accento di Nico, che non mi ha mai davvero convinta.
Broken Sword 5 è un titolo riuscito a metà, che punta sulla simpatia per strappare l'approvazione dei suoi giocatori. Da un lato cattura abbastanza bene il feeling dei vecchi titoli, si avvicina molto alle atmosfere e alla qualità di Broken Sword 2 ; dall'altro, un po' troppo spesso sembra la fan fiction di se stesso piuttosto che un altra opera della stessa saga. Se siete fan della serie, molto probbilmente vi piacerà. Se, invece, trovate noiosi i primi due titoli della saga, neanche questo vi farà cambiare idea.
Sulle pagine dei principali negozi online è da oggi disponibile il secondo e conclusivo capitolo di Broken Sword 5: La maledizione del Serpente.
Si metterà dunque la parole fine al quinto episodio della saga di che, tra alti e bassi, tiene compagnia agli appassionati di Avventure Grafiche da quasi vent'anni.
L'uscita dela seconda parte consentirà anche a noi di OGI di formulare un giudizio globale su BS5, dopo che avevamo già espresso le nostre impressioni iniziali in un articolo dedicato alla prima metà.
Eccoci qui alla prima puntata di INDIEtro Tutta, un appuntamento settimanale che ogni lunedì vi accompagnerà in un viaggio alla scoperta del mondo del game making indipendente, attraverso notizie, interviste, discussioni e curiosità. Questa rubrica nasce oggi, ma a livello embrionale era nelle nostre menti ormai da molto tempo, perché da sempre Old Games Italia ha rivolto un'attenzione particolare a questa realtà che negli ultimi anni ha saputo ritagliarsi un ruolo sempre più importante, nel tentativo non sempre riuscito ma encomiabile di proporre qualcosa di più coraggioso e concettualmente più originale di quanto ormai ci regali il mercato mainstream.
Il numero dei prodotti indipendenti e dei protagonisti di questo mondo è cresciuto in modo esponenziale, la scena sembra in gran fermento e questa new wave del videogioco ha raggiunto finanche le console (pensiamo al fenomeno xblig). Non è dunque un caso se alcuni dei titoli più interessanti degli ultimi tempi (prendiamo Papers, Please di Lucas Pope o al successo di Minecraft) sono stati realizzati seguendo modalità diverse da quelle alle quali eravamo abituati fino a qualche anno fa. Il cambio in alcuni casi è radicale.
Il game designer indipendente fa una scelta ben precisa, decide di aggirare o di fare a meno della figura tradizionale del publisher (negli ultimi anni diventata sempre meno vicina alle logiche e alle esigenze di una certa tipologia di giocatori, quelli più esigenti) e prende le distanze da un approccio eccessivamente “commerciale” (in tutte le sfumature di questo termine), puntando invece su un'autonomia supportata da forme di autofinanziamento o di crowdfunding , soluzioni che hanno conquistato anche autori del calibro di Jane Jensen e Tim Schafer e che hanno risvegliato gruppi e nomi storici come Al Lowe e i Two Guys of Andromeda, i Revolution, solo per fare alcuni esempi.
Tutto questo è stato possibile anche perché questi progetti promuovono, di fatto, un coinvolgimento più diretto degli utenti nella fase di sviluppo e una forma di interazione da parte di community di giocatori. La scelta del game designer indie è oggi sicuramente favorita da alcuni fattori non trascurabili, come la capacità di aggregazione della rete, la distribuzione digitale, e non ultimo la possibilità di usufruire di tanti software open source dedicati al video game development “fatto in casa”. Ma il concetto di "indie" nasconde tante sfumature, etichettare questo movimento è estremamente complesso, perchè il termine comprende mille anime, mille voci ed esigenze diverse, mille piattaforme di sviluppo e mille protagonisti diversi, dal game maker amatoriale o autodidatta che si arrangia come può e smanetta nel cuore nella notte al professionista del settore con alle spalle esperienze di lavoro importanti.
Si perchè dal subire il fascino dell'indipendenza artistica non sono esenti neanche protagonisti del ricco mercato a tripla A che mette a disposizione budget faraonici, infatti anche in questa discussa schiera ci sono game designer che hanno deciso di prendere una pausa da questo tipo di mercato per intraprendere una strada più intima, autoriale e personale, da Ken Levine a Peter Molyneux. Il perchè questo avvenga è spesso al centro di dibattiti. Per quanto mi riguarda mi sono dato una spiegazione molto semplice.
Anche per i nomi più importanti trovare finanziatori lungimiranti e in qualche modo appassionati (come i coniugi Williams) e imporre una propria idea di gioco a chi mette davanti a tutto la logica del guadagno è diventato davvero difficile. Questo accade nei piani alti. Nei piani bassi succede che alcuni autori - giocatori, hanno cominciato a non riconoscersi più in un certo modo di fare videogiochi, prodotti sempre più carenti di una forza distintiva, con una struttura sempre più semplice, “casual”, sia a livello ludico che narrativo. I motivi di questa regressione sono evidenti. Le risorse e le idee scarseggiano e l'unico obiettivo diventa quello di racimolare il possibile e raggiungere una fetta più grande di potenziali acquirenti, ma in questo processo vengono spesso tagliati fuori gli appassionati veri e viene sacrificata , ça va sans dire, la qualità complessiva del prodotto che diventa in tal modo piatto e banale.
Dinanzi a questo scenario una folta schiera di artisti e sognatori, variegata sia dal punto di vista anagrafico che geografico, ha deciso di scendere in campo con i pochi mezzi a disposizione, con spirito creativo, innovativo ma anche con l'intenzione di riprendere l'insegnamento di molti titoli storici del passato. Avendo intervistato diversi autori indie posso affermare che il concetto che regge la loro forte volontà e la loro grande passione, che li porta a sacrificare tempo libero e spesso anche risorse personali è questo: se il mercato offre sempre meno quello che ci piace, non resta che rimboccarsi le maniche e provare ad offrire un'alternativa. Sia ben chiaro, lavorando senza grandi cifre, con le forbici e con la colla come dice Dave Gilbert, il fondatore della Wadjet Eye Games, e senza la presunzione di riuscirci sempre, ma con delle buone intenzioni.
D'altronde diversi titoli indie di questi anni ci hanno insegnato che se ci sono in ballo idee valide, professionalità, entusiasmo e passione, si può spesso sopperire anche ad una scarsità di fondi. A patto ovviamente di dover rinunciare a qualcosa. Compromesso fondamentale, i giocatori sono dunque avvisati. Quale modo migliore , dunque, di provare a migliorare questo universo se non... diventarne protagonisti?
Poco importa se si parli di remake o di sequel, prequel, di fan game o di progetti più coraggiosi e ambiziosi, di rpg o di ag, di game jam, di giochi distribuiti in modo completamente gratuito , finanziati attraverso delle campagne o previo contributo e offerte, il concetto è fondamentalmente lo stesso che regge tutto il fenomeno e il manifesto indie, nella musica così come nella letteratura o nel cinema. Libertà artistica, autonomia creativa e se volete anche un pizzico di ribellione rispetto ai paletti imposti dal mercato tradizionale, per molti sempre più un ostacolo alla qualità.
In molti si chiedono se queste belle intenzioni bastino a sfornare un buon gioco e non mancano neanche i detrattori di questo tipo di produzione, che viene spesso ritenuta pretenziosa, c'è chi vede in questo approccio quasi un anacronistico rigurgito sessantottino in salsa tecno-radical chic. Per quanto ci riguarda, abbiamo fiducia nelle possibilità della scena indipendente , così come dimostra la nostra particolare attenzione rivolta ai tanti progetti minori e i nostri progetti di traduzione, ma questo non si tradurrà in un atteggiamento paternalistico o ipocritamente affettuoso nei confronti dei prodotti indie.
Seguiremo gli sviluppi con curiosità, senza aspettarci rivoluzioni o grossi stravolgimenti, ma cercando di valorizzare lo spirito di iniziativa, la forza delle idee, la creatività e la competenza di molti game maker, favorendo l'incontro con i giocatori e con l'utenza del nostro sito. Ci limiteremo a garantire un supporto costante agli autori, non scevro da critiche o da suggerimenti, ma sempre mirato ad incoraggiare e a sostenere i loro progetti. Il nostro taglio editoriale sarà quello di sempre e che contraddistingue Old Games Italia , ovvero massimo rispetto e sostegno per gli autori e per il loro lavoro ma allo stesso tempo anche obiettività e onestà intellettuale. Lasceremo il giudizio finale , l'unico che conti, ai giocatori ed ai fruitori di questi prodotti.
Si ma...perché una rubrica di videogiochi indipendenti in un sito di appassionati del retrogame? Perché spesso questa realtà alternativa alle logiche del mercato mainstream ha molto più in comune con il passato di quanto si possa immaginare e non solo per alcune scelte estetiche (leggasi grafica pixellata) o per l'abbondanza di fan game e remake amatoriali. Secondo i luoghi comuni del genere l'appassionato di vecchie glorie videoludiche è descritto quasi sempre come un inguaribile nostalgico ancorato al passato per ricordi personali e poco informato ed obiettivo sul presente. I più cattivi aggiungono che il retrogamer solitamente veste solo in gilet e mocassini e utilizzi acqua di colonia da quattro soldi. In realtà sappiamo che in pochi e rari casi questo corrisponde alla verità e se così spesso il giocatore più maturo volge il proprio sguardo al passato è perché probabilmente con gli anni, in molti autori o produttori qualcosa è venuto a mancare in termini di passione e di capacità di esplorare le possibilità ludiche o narrative di alcuni generi che hanno sicuramente vissuto momenti migliori.
In questi casi le alternative sono poche, a questi disadattati cronici non resta infatti che aggrapparsi ai grandi titoli storici e all'esempio da loro lasciato. Un principio simile permea molta filosofia indie che riprende spesso idee, entusiasmo e un pizzico di quella follia creativa e di quella passione che facevano parte del DNA di molti game designer che oggi ci ritroviamo a venerare. Dopo aver spiegato quest'ultimo passaggio, direi che questo lungo e noioso preambolo è finalmente giunto a conclusione, ci siamo dilungati troppo e probabilmente avremo già perso metà dei lettori che hanno iniziato a leggere le prime righe.
Prima di perdere gli altri direi che è il momento di lasciare spazio ai protagonisti e ai loro giochi, nella speranza di far cosa gradita a tutti quanti voi. Bando alle ciance dunque, tutti a bordo, mollate gli ormeggi, cazzate la randa, issate il bompresso, ammainate il pappafico, si parte! Senza esitazione, avanti verso il futuro, anzi, ripensandoci , è meglio...INDIEtro Tutta!
Broken Sword il Segreto dei Templari è la prima avventura grafica dell'omonima saga di Revolution Software, una perla nella storia del genere. A poco tempo dall'uscita del quinto capitolo di questa fortunata serie, Simone Pizzi e Cristiano Caliendo, due colonne di Calavera Café prestate per l'occasione alla truppa di Dietrologia Videoludica, ci portano in questo tuffo nel passato, spiegandoci il perché vale ancora la pena recuperare questo bellissimo titolo.
Si ringrazia il buon Andrea Pannocchia per la parte video.
Quasi un mesetto fa abbiamo annunciato l'uscita della prima metà del nuovo titolo della saga di Broken Sword. Il motivo per cui ancora non ne vedete la recensione, però, è proprio perché il titolo uscito fino ad adesso è palesemente incompleto, nonostante si possano già scorgere alcuni degli elementi caratteristici anche dei vecchi episodi.
La storia, per quel che si può vedere in questa prima metà, è perfetta per un titolo della saga: all'inizio del gioco, George e Nico assistono a un furto in una piccola galleria d'arte. Il quadro rubato si chiama "La Maledicciò", ed è stato dipinto da un oscuro artista di nome "el Serpe". Si vocifera anche che il quadro sia legato, in qualche modo, al Diavolo e al Male... quanto di tutto questo sarà vero? In questa prima metà del gioco, però, solo la parte investigativa e, diciamo, "realistica" è abbastanza sviluppata, e quella paranormale è presente solo come allusione. Non possiamo quindi dare un giudizio definitivo sulla qualità della storia - nonostante si vedano alcuni bachi logici che difficilmente potranno esser sistemati nella seconda parte.
Degli enigmi vediamo, ovviamente, molto di più: fin dall'inizio però sono molto semplici e, come in precedenti titoli della saga, spesso e volentieri avulsi dal contesto. Si spera però che nella seconda metà si possa avere a che fare con qualche situazione più difficile, in cui spremersi le meningi.
Di una cosa però possiamo essere sicuri: l'atmosfera dei vecchi Broken Sword è tutta lì. A parte le prime battute, che suonano forse un po' forzate e troppo sopra le righe (George che fa una battuta tristissima su un uomo appena ammazzato, per esempio), il gioco prende subito pista e sembra di trovarsi indietro negli anni, ai tempi del primo Broken Sword. In parte, questo è dovuto ai dialoghi, che riprendono il leggero umorismo tipico di George e Nico, mai veramente drammatici e mai veramente comici.
Nel complesso, non è possibile esprimere un parere definitivo su quanto è uscito fino ad adesso: ci troviamo di fronte, senza tanti mezzi termini, a mezzo gioco, che promette bene sotto alcuni aspetti e non tanto bene sotto altri aspetti. A presto con il commento definitivo.
Il sito ufficiale della Revolution
A caccia di serpenti e lame spezzate nell'OGI Forum
La prima parte del nuovo titolo di Charles Cecil dedicato alla saga di Broken Sword è finalmente giunto a noi! Broken Sword 5 - The Serpent Curse è da oggi in vendita su GOG e Steam per pc, Linux e Mac; e presto sarà disponibile anche per Android, iOS e Play Station Vita.
Il gioco, che ha visto la luce grazie a Kickstarter, ci riporterà nella Parigi già visitata con il primo titolo della saga; qui George e Nico avranno a che fare con il furto di un quadro e una maledizione scagliata dal Diavolo.
Anno 1991, il fantasy cominciava a riscuotere un timido successo anche in Italia, soprattutto grazie ad alcuni giochi di ruolo (Dungeons&Dragons su tutti) e molti titoli videoludici attingevano a piene mani da questo genere. In ambito adventure la Revolution di Charles Cecil muoveva i primi passi e poneva la prima firma su una lunga lista di successi proprio con Lure of the Temptress, realizzato con l'aiuto di Tony Warriner, prodotto inizialmente da Mirrorsoft e poi portata a termine grazie alla Virgin Interactive. Mi sono immerso nell'atmosfera di questo titolo per la seconda volta a distanza ormai di tanti anni, approfittando della grande opportunità offerta dalla piattaforma di vendita GOG.
La prima volta lo avevo provato su Amiga 500 e ne conservavo davvero un buon ricordo, ricordo positivo peraltro confermato da questa seconda esperienza di gioco, che mi ha spinto a scrivere qualcosa su questo che non è sicuramente uno dei nomi più discussi o celebrati, rispetto ad altri titoli storici di quegli stessi anni.
La trama non è particolarmente originale, matura o profonda, inoltre l'eco tolkeniano è piuttosto evidente, tuttavia l'intreccio presenta una propria coerenza interna e dei personaggi funzionali allo svolgimento dell'intreccio. In questo gioco di stampo fantasy medioevale impersoniamo un ragazzotto di campagna di nome Diermot, chiamato a far parte di una battuta di caccia organizzata dal re. Una notte, il sovrano riceve una richiesta di aiuto da parte di un messaggero che lo invita a sedare una rivolta nel remoto villaggio di Turnvale. Mentre gli uomini del re montano a cavallo e partono in soccorso, il nostro Diermot ed il suo pony li seguono. Inutile dire che il nostro contadino rientra perfettamente nella figura dell'antieroe che si ritrova involontariamente trascinato in questa avventura e in una vicenda ai limiti delle sue possibilità, nulla di più banale, ma considerando che questo gioco è venuto prima di molta altra produzione fantasy successiva, non gli si può muovere una critica particolarmente severa su questo.
Arrivati a Turnvale, i cavalieri comprendono che non si trovano di fronte ad una normale rivolta di contadini, come prevedevano, ma all'invasione da parte di un esercito di mercenari Skorl, esseri dalle sembianze mostruose, assoldati da una seducente maliarda. Al termine della battaglia gli uomini del re sono sconfitti e lo stesso sovrano viene ucciso. In tutto questo turbinio di avvenimenti, Diermot perde i sensi dopo un banale incidente e si ritrova prigioniero degli Skorl. Si risveglia dunque in una cella, circondato da fredde mura e da un misero pagliericcio, e il primo pensiero che gli passa per la testa è ovviamente quello di trovare un modo per fuggire. E' così che inizia questa avventura grafica che coinvolgerà il protagonista in una serie di pericoli e di vicissitudini nel tentativo di liberare Turnvale della minaccia Skorl e di sconfiggere Selena, la malvagia incantatrice del titolo.
LOTT è stato il primo gioco ad utilizzare il “Virtual Theatre”, un motore di gioco interamente sviluppato dallo stesso team Revolution e poi adottato anche per i titoli successivi, un dettaglio non indifferente che permetteva di apportare in un'avventura grafica elementi più dinamici e un'ambientazione più realistica. Un particolare su tutti è sicuramente apprezzabile al di là del passare del tempo: i vari personaggi secondari, che popolano la cittadina nella quale ci muoviamo, non rimangono fermi e statici in un luogo, in attesa di entrare in gioco o di interagire con il protagonista (come troppo spesso accade anche nelle avventure di ultima generazione) ma vivono di vita propria, si spostano, vagano per la cittadina e addirittura conversano tra loro.
Certo i limiti dell'epoca sono piuttosto evidenti, capita spesso che in questo andirivieni i personaggi si scontrino tra loro o con te, ostacolandoti negli spostamenti e liquidandoti con un “mi scusi” (difetto corretto solo con Beneath a Steel Sky e dopo con Broken Sword: l'ombra dei templari ), ma se pensiamo che in modalità diverse troviamo difetti tecnici simili anche in un modernissimo GTA, direi che possiamo tollerare qualche imperfezione in un gioco del '91, che comunque visto in un'ottica di più ampio respiro, fa riflettere sull'involuzione di questo genere negli ultimi anni.
A seconda della posizione di Diermot all'interno della schermata è dunque possibile intercettare queste conversazioni (per esempio guardando attraverso le finestre) e raccogliere preziose informazioni utili successivamente per risolvere alcuni enigmi. Se da una parte questo è sicuramente un espediente interessante, d'altro canto questo vagare per Turnvale alla ricerca di qualche bisbiglio interessante a lungo andare può diventare ripetitivo, anche se in tutta onestà la cittadina non è molto vasta, quindi è un aspetto del tutto marginale; inoltre visto con gli occhi di un avventuriero di oggi, abituato purtroppo ad una certa staticità o addirittura ad una lenta regressione nel gameplay di molti giochi, quello che salta agli occhi è soprattutto la potenzialità di questo engine che offre in effetti qualcosa di diverso dal solito e che ha un certo impatto ancora oggi.
L'interfaccia è quella di un punta e clicca classico in 2D, con una piccola novità, comandi azionabili in un menu a scorrimento (quasi a tendina, qualcosa di simile è possibile ritrovarlo nel recente Resonance, edito da Wadjet Eye Games), un elemento abbastanza innovativo per il tempo. Se consideriamo la difficoltà media degli enigmi delle avventure di quegli anni, probabilmente gli ostacoli che il giocatore dovrà affrontare non sembreranno particolarmente difficili, ma se paragonato a quello di alcuni prodotti degli ultimi anni, il livello di sfida apparirà sicuramente interessante.
Il gameplay si basa principalmente sulla ricerca degli hotspot (pixellati), sull'uso dell'inventario e sull'interazione con oggetti e altri personaggi, con i quali dovrete spesso interloquire. Gli enigmi basati sull'inventario richiedono un'osservazione attenta degli oggetti in modo da ottenere una descrizione più approfondita prima di poter interagire, il che potrà dare qualche problema al giocatore che si approccia per la prima volta a questi retrogame e a chi non è abituato ad una grafica pixellata, ma tutto sommato nulla di irrisolvibile, basta qualche minuto per farci l'occhio e l'abitudine.
Ad un'analisi meticolosa per esempio, alcuni oggetti mostreranno dei particolari che si rivelano poi fondamentali per la soluzione di alcuni enigmi. A volte è necessario l'aiuto di uno dei tanti personaggi secondari, che dovranno aiutarvi a superare fisicamente alcuni ostacoli. Da questo punto di vista il gioco è molto interessante, infatti Diermot potrà chiedere ad altri cittadini di eseguire comandi anche molto complessi, tipo: "Di' a Ratpouch (il buffone di corte, nonché uno dei personaggi più utili per il protagonista almeno nelle fasi iniziali) di recarsi nei pressi della zona x, prendere l'oggetto y e poi tornare", il tutto reso possibile dai menu a comparsa che contengono tutte le parole possibili per formare ogni parte della frase. Se certe volte può sembrare difficoltoso, questo tipo di interazione si rivela invece, a mio modo di vedere, uno dei punti di forza del gioco.
Non mancano neanche alcuni brevi intermezzi “arcade” (elemento piuttosto comune a molte avventure dell'epoca) e in un paio di occasioni ci si ritrova a confrontarsi con degli Skorl, con tanto di ascia nella mano e viene richiesta un po' di coordinazione nei movimenti, ma nel complesso risultano ampiamente superabili, inoltre il sistema di salvataggio viene incontro in caso di difficoltà. Anche in altre occasioni, in caso di errore, il gioco termina con una schermata (peraltro neanche male per l'epoca) che ci congeda e ci mostra la brutta fine che aspetta il povero Diermot.
Il comparto sonoro assolve discretamente al suo dovere, non dimentichiamoci però che la colonna sonora era stata realizzata in formato MIDI, come molte ag degli anni novanta (con tutti i limiti del caso) ma nonostante tutto in alcuni momenti è efficace e certi intermezzi accompagnano il momento drammatico in modo piuttosto efficace. A chi non è abituato può anche sembrare fastidioso, ma questo è uno degli aspetti dove il gioco mostra tutti i suoi ann; tra l'altro sono sicuro che chi si approccia ad una retroavventura sia disposto ad immergersi completamente nell'atmosfera dei "roaring nineties", comprendendone i difetti e accettandoli come un dazio più che accettabile da pagare, pur di godersi queste piccole perle del passato.
Peraltro è da sottolineare che le musiche sono composte da Richard Joseph, un nome celebre dell'industria videoludica già autore della colonna sonora di Defender of the Crown e collaboratore di celebri software house, dalla Sensible Software ai Bitmap Brothers (chi ha qualche anno sa di cosa sto parlando).
Probabilmente dal punto di vista della longevità si poteva fare meglio, anzi lo definirei un titolo piuttosto breve, ma tutto sommato il risultato finale è soddisfacente e sebbene possa sembrare azzardato, aggiungo anche che la grafica è piuttosto dettagliata considerando l'anno di produzione.
Nonostante i personaggi non risultino indimenticabili, nonostante non tocchi i picchi di eccellenza delle avventure classiche Sierra e Lucas e non risulti così ambizioso come alcuni prodotti successivi targati Revolution (su tutti Beneath a Steel Sky e Broken Sword) questo titolo è sicuramente uno dei più interessanti del periodo d'oro della avventure grafiche e a mio parere anche di gran lunga migliore della maggior parte delle avventure fantasy e simili (ma non solo) proposte negli ultimi cinque o sei anni; anzi non sarebbe un male se qualche sviluppatore rigiocasse un titolo come questo (e come altri) anche per rispolverare l'abc delle avventure grafiche e riscoprire un elemento fondamentale che contraddistingueva i prodotti migliori degli anni 90: quella sensazione costante di work in progress, quel desiderio continuo di scandagliare i limiti e le potenzialità di questo genere, quella voglia di esplorare di gioco in gioco nuove possibilità di intrattenimento e di non accontentarsi di formule abusate o di un gameplay scontato.
Anche se in fase di uscita fu piuttosto sottovalutato, non tanto dalla critica che lo accolse bene, ma dai giocatori probabilmente abituati a standard qualitativi elevatissimi, io direi che sia il caso di rivalutarlo e consiglio caldamente a chiunque voglia vivere una buona avventura, ben fatta, con una storia abbastanza semplice ma anche coinvolgente, con alcune idee molto interessanti, di dedicare il proprio tempo libero a Lure of the Temptress, peraltro scaricabile in modo del tutto gratuito sul sito di GOG e di Zodiac (di cui vi diamo il link a fianco), oltre che sul sito ufficiale del gioco. Davvero un peccato non approfittarne.
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La febbre da kickstarter sembra proprio non risparmiare nessuno dei grandi classici della storia delle avventura grafiche; ecco arrivare infatti i Revolution con il nuovo Broken Sword, capace già di recuperare ben oltre la cifra richiesta in pochissimi giorni.
A questo punto non ci resta che sperare che anche questo progetto vada in porto e poi prepararci ad un futuro prossimo che promette di essere davvero indimenticabile per gli amanti del punta e clicca.
La pagina kickstarter di Broken Sword: The Serpent's Curse
Gli osservatori speciali dell'Ogi Forum
Dopo il deludente (per alcuni) Angelo della Morte, i fan davano oramai per dispersa la serie con protagonisti George Stobbard e Nicole Collard; è notizia però di queste ore che Revolution Software in persona abbia annunciato sulla propria pagina Facebook che è in lavorazione un quinto capitolo per la saga di Broken Sword e che questo sarà rigorosamente in 2d.
Non mancheremo di aggiornarvi per quella che si è rivelata essere un fulmine a ciel sereno per gli amanti delle avventure grafiche!
Vi avevamo parlato dei festeggiamenti che si preparavano per il sei milionesimo download di GoodOldGames e finalmente il tempo è giunto!
Grazie all'acquisto dell'utente Dotur fino al 1 ottobre sarà possibile scaricare gratuitamente Broken Sword: Shadow of the Templars Director's Cut, un'ottima occasione per una piccola pietra miliare.
Correte a scaricarlo!
Link al sito di GoodOldGames
Link alla pagina di Broken Sword: Shadow of the Templars Director's Cut per il download del gioco
Link alla discussione sul forum dedicata a GoG
Il sito di OldGamesItalia è attualmente "in letargo". Nuovi contenuti saranno aggiunti con minore regolarità e con possibili lunghe pause tra un articolo e l'altro.
Il forum rimane attivo, ma meno legato al sito, e gli aggiornamenti riguarderanno principalmente le sezioni di IF Italia e della versione italiana del Digital Antiquarian e del CRPG Addict.
Grazie a chi ci è stato vicino nei vent'anni di attività "regolare" di OldGamesItalia, a chi ha collaborato o a chi ci ha soltanto consultati per scoprire il mondo del retrogaming. Speriamo di avere presto nuove energie per riprendere un discorso che non vogliamo davvero interrompere.
Grazie, OGI. Arrivederci!
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